Pagina:Alfieri - Rime varie (1903).djvu/211


l’etruria vendicata. — canto ii 205


Quivi aspettar di dubbia impresa il fine
S’eleggon; quivi alto consiglio han fermo:
Che pria che il sol di nuovi raggi il crine
Cinga, se a lor vien meno ogni altro schermo,
Un ferro stesso esangui al suol le inchine;
La madre il vibri, ch’aver dee più fermo
Per più etade e più sdegno il braccio e il core.
Ahi crudo pegno di materno amore!

Ahi crudo sì, ma necessario pegno
Di vero amor! se avvien che sceglier deggia
Tra vergognosa vita e morir degno.
Così già un dì, là dove oggi campeggia
Viltà che usurpa di virtude il regno,
Virginio, a cui niun padre si pareggia,
Di ferro armato e di pietà, svenava
La propria figlia, e a lei l’onor salvava.

Mentre nel duol profondo immerse stanno
Le forti donne al fier rimedio preste;
Quei che a morire o a ristorar lor danno
Vola sull’ali che il furor gli veste,
Dell’empio ostel che asconde in sè il tiranno
Ecco ei già preme le soglie funeste:
Ma, oimè! chi veggio, che l’entrar gli vieta
E vieppiù di vendetta in van lo asseta?

Il riconosco ben: questi è Foberro,
Timido-ardito delle guardie duce,
Che la natía viltà di tutto ferro
Addobba, e appiatta sotto aspetto truce.
Olà, gridava l’orgoglioso sgherro,
Tu cui del mio signor qui non conduce
Ordine espresso, oltre varcar non puoi.
Perchè?... Così si vuol... Ma pur?... Nol puoi.

Lorenzo usava col tiranno spesso,
E ciò per più l’odio celare ei fea;
Onde il non mai finor vietato ingresso
Or ben mille sospetti in cor gli crea.
Teme, col chieder più, tradir se stesso,
E a colui dar qualche sinistra idea:
Ma d’altra parte il piè ritrar gli duole:
Ond’a lui vengon men fatti e parole.