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l’etruria vendicata. — canto ii 201


Posta ogni cura ogni speranza estrema
Dunque ha ne’ due cui morte non le tolse:
D’affetto piena e di materna tema
Ad ogni lor più lieve duol si dolse:
Chi dir potria com’ella or spera or trema!
Quante fïate al ciel gli occhi rivolse
Imploratori del supremo aiuto,
Pria che il quinto lor lustro abbian compiuto!

E già del figlio e la virtude e il senno,
Come di Bianca la dolce beltate,
Quasi obbliar suoi prischi guai le fenno,
Soave appoggio a sua cadente etate.
Ma il dì, che ad essa i figli increscer denno,
Già surse; e duolsi che crudel pietate
Le Parche indusse a differir lor rabbia,
Perch’ella poscia a disperar più s’abbia.

Figlio, dicea, deh! figlio, a che sì ratto
Alla stanza materna dài tu il tergo,
Se suora e madre pria non hai sottratto
Dal mal sicuro doloroso albergo?
Non sai l’oltraggio orribil che a noi fatto
Vien da quel vil che il trono ha per usbergo?
Ah nol sai tu: che se il sapessi... Oh figlio!
Tempo, tempo è d’oprar, non di consiglio...

L’empio Alessandro, i cui trofei novelli
Son giustizia onestà fede e natura
Vinte ed infrante sotto i piè rubelli,
Questi cui preme sol regale cura
Contaminare vergini e donzelli,
Sentina vil d’ogni più ria lordura,
Ahi schiavi noi!... quest’Alessandro regna;
E novella ogni dì vittima ei segna.

E a gara van, di sua libidin cruda
Chi più infame di lui sia il gran ministro:
Già in altro arringo omai Tosco non suda,
Nè ferro usa che il molle calamistro.
Ma il fero arcano il mio parlar ti schiuda.
Manda già il quarto reo messo sinistro
A Bianca il sir, che sue malnate brame
Feroce annunzia e squarcia ogni velame.