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l’etruria vendicata. — canto ii 209


Deh, dimmi; e perchè mai timido velo
Piacqueti fare agli alti insegnamenti
Di libertà coll’oppressor vangelo?
Quei che bollíano in te nobili ardenti
Spirti, ch’or più non dà l’italo cielo,
Che non sgorgasti in manifesti accenti?
Ratto avria il core agli uditor tuo dire:
Saprían per te, pria che servir, morire.

O giovinetto (ripigliava l’ombra)
In cui non men che il petto arde la mente,
Per poca età biasmi ogni vel che adombra
Il ver, che dir si dee liberamente:
Ma tu non sai qual d’error nebbia ingombra
Le corte viste alla odïerna gente:
Tua liber’alma è scorta a te fallace
Per giudicar l’altrui che serva giace.

Ad aggiunger valor fierezza o sdegno
Al tuo fervido cor già non venn’io;
Un cotal poco a farti accorto io vegno,
Perchè n’esca a buon fin l’alto desio:
Nè, me s’ascolti, precettor non degno
Io ti parrò: nè dell’esempio mio
Schivo in tutto sarai: chè, non mio errore,
Sorte involommi il da te ambito onore.

Questa città rifar libera volli:
Difficil era, e mi fallía l’impresa.
Or tu gl’intrepidi occhi a tanto estolli,
Tu che ben senti se il gran giogo pesa:
Tua vita almen, se tirannìa non tolli,
Fia nel tôrre il tiranno assai ben spesa.
Io nol potei, ch’eran più d’un; ma in bando
Tenni il Mediceo vil seme nefando.

Del volgo irato ed incostante io poi
Vittima caddi; e tale esser dovea;
Chè la plebe discior da’ lacci suoi
Mal puossi, mentre di costumi è rea.
Che val che in vista il soggiacer l’annoi,
Se del reggere ha in sè falsa l’idea?
Gente imbelle, corrotta, e al mal nudrita,
Pria che all’armi, io la trassi a santa vita.

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