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208 vittorio alfieri


Non cred’io che a veder terribil tanto
Fosse il fantasma, che notturno apparve
A Bruto là dov’ebbe ultimo vanto
Libertà che dal mondo poi disparve.
Ma, come il cor del gran Romano infranto
Non avrian tutte le tartaree larve,
Tale il Tosco miglior de’ tempi suoi
Grida allo spettro: Or chi se’ tu? che vuoi?

Spirto son io di tal cui fra quest’onde
Diessi, ha più lustri, scellerata tomba:
Vengo in tuo pro. Così cupa risponde
Voce che in aria al par del tuon rimbomba.
Poi segue: Il cener mio quaggiù s’asconde,
Ma il nome no, chè la sonora tromba
Di lei che l’uom dal cieco oblio sottragge,
De’ prepotenti ad onta, fuor nel tragge.

Stoltezza invan d’ignaro volgo, invano
Maligna astuta superstizïone,
Da cui raccoglie il gran prete romano
Oro più assai che da religïone,
E invan l’abuso del poter sovrano,
Perfin tiranno della opinïone,
Han di lor negre tede inceso il rogo
Che il corpo m’arse e all’alma tolse il giogo.

Mie polpe ed ossa in polve invan ridutte
Giaccion prive d’inutil sepoltura;
Chè meco spente non son l’ire tutte,
Ed è l’alta vendetta omai matura:
A te si aspetta; e per tua man distrutte
Le reliquie saran di questa impura
Schiatta che a me non fu spegner concesso,
In cui tuo nome ammenderai tu stesso.

Oh! disse allor Lorenzo: io ti ravviso
Al tuo maschio parlare, ombra feroce.
Te spento, io nacqui: ma pur so che assiso
In pergamo tuonasti della voce
Sì che ogni Tosco fu per te conquiso;
Tu, non libero nato ove ha sua foce
Dei fiumi il re, pur festi udir, ma indarno,
Liberi sensi al non più liber Arno.