Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo XII
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CAPITOLO XII
(aprile-15 maggio 1563).
[Annunzio a Roma ed al concilio della pace d’Amboise. Il papa procede contro alcuni vescovi francesi inclini al calvinismo. — Arrivo a Trento del legato Morone e del conte di Luna. — Il Morone prosegue per Innsbruck. — Vicende della guerra religiosa in Francia: contenuto dell’editto d’Amboise. Malcontento suscitato in concilio. — Il Soto lascia, morendo, una lettera al papa, dichiarandosi per la residenza e l’istituzione dei vescovi de iure divino. — Il Lorena ottiene che si rinvíi al 20 maggio di fissare la sessione. — Proposta dei decreti contro gli abusi dell’ordine sacro: disaccordo su quello riguardante l’elezione dei vescovi.— Arrivo del legato Navagero.— Il papa insiste presso gli ambasciatori perché a lui venga rimessa la riforma. — Il re di Francia giustifica presso il concilio, il papa e i sovrani la pace conchiusa. Il papa e Filippo II scontenti. — Insistenze francesi perché il concilio si trasferisca in Germania. — Quasi tutti i teologi francesi lasciano Trento. — Nuovi lagni del Lorena pel procedere del concilio e perché non si vogliono ricevere in congregazione i procuratori dei vescovi francesi. — Congregazioni sugli abusi dell’ordine: discorso del Lorena. — Proficui risultati ottenuti dal Morone nei suoi colloqui coll’imperatore.]
A Roma andò avviso che il re di Francia aveva fatto pace con gli ugonotti, non sapendosi però ancora le particolari condizioni. La qual cosa stimando che fosse proceduta per opera de alquanti prelati che, quantonque non dichiarati apertamente protestanti, seguivano però quella parte, deliberò il pontefice scoprirli, solito a dire che maggior danno riceveva dalli eretici mascherati che dalli manifesti. Onde nel consistoro delli 31 marzo, avendo prima fatto leggere la lettera scrittagli dall’imperatore e la risposta da lui data, passò a narrare le confusioni di Francia, soggiongendo che il cardinale Sciatiglion, avendo deposto il nome di vescovo di Beauvois e fattosi chiamar conte di Beauvois, s’aveva prononciato esso medesimo privo del cappello: attribuendo tutti li disordeni a lui, all’arcivescovo di Aix, al vescovo di Valenza e alcuni altri. Le qual cose con tutto che fossero notorie e non avessero bisogno di maggior chiarezza per venirne alla dechiarazione, nondimeno ordinava che li cardinali preposti all’inquisizione procedessero contra di loro. Al che avendo risposto il Cardinal di Pisa che vi fosse bisogno di propria e special autoritá, ordinò il pontefice che si facesse una nova bolla, la qual fu data ai 7 d’aprile, e conteneva in sustanzia: che al pontefice romano, vicario di Cristo, al qual egli ha raccomandato le sue pecorelle da pascere, [spetta] di invigilare per ridur li sviati e raffrenar col timor di pene temporali quelli che non si possono acquistar con le ammonizioni; che egli dal principio della sua assonzione non ha tralasciato de eseguir questo carico: con tutto ciò alcuni vescovi non solo sono caduti in errori ereticali, ma favoriscono ancora gli altri eretici, oppugnando la fede. Al che per provvedere, comanda alli inquisitori generali di Roma, a’ quali altre volte ha commesso l’istesso, che procedino contra questi tali, eziandio vescovi e cardinali, abitanti nei luochi dove la setta luterana è potente, con facoltá di poterli citar per editto in Roma, o veramente alli confini delle terre della Chiesa, a comparer personalmente; e non comparendo, proceder inanzi sino alla sentenzia, la qual egli prononcierá in consistoro secreto. Li cardinali, eseguendo il comandamento del pontefice, citarono per editto a comparer personalmente in Roma, per espurgarsi dall’imputazione d’eresia e di fautori d’eretici, Odeto Coligni Cardinal di Sciatiglion, San Roman arcivescovo di Aix, Gioan Montluc vescovo di Valenza, Gioanni Antonio Caracciolo vescovo di Troia, Gioan Barbanson vescovo d’Appame, Carlo Guillart vescovo di Sciartres.
Ma in Trento l’assenzia di Lorena e l’espettazione della venuta delli novi legati, con opinione che si dovesse mutar forma di proceder in concilio, e li giorni della Passione e della Pasca instanti, diedero un poco di quiete dalle negoziazioni. Il venerdí santo ritornò il Cardinal Madruccio per onorare il legato Morone che si aspettava: il quale il sabato santo sul tardi fece l’entrata pontificalmente sotto il baldacchino, incontrato dalli legati, ambasciatori e padri del concilio, e dal clero della cittá, e condotto alla chiesa cattedrale, dove si fecero le solite ceremonie nel ricever li legati. E il giorno seguente, che fu la Pasca, cantò messa solenne nella cappella: nel qual giorno arrivò il conte di Luna, incontrato da molti prelati e dalli ambasciatori. Entrò nella cittá in mezzo di quelli dell’imperatore e del francese, con molte demostrazioni d’amicizia. Dalli francesi ancora fu visitato, e dettogli d’aver commissione dal re e regina di comunicar con lui tutti gli affari, e offertisi ad adoperarsi con lui in tutti li servizi del re cattolico suo patrone. A che egli rispose d’aver il medesimo ordine di comunicar con loro, e userebbe ogni buona corrispondenza. Egli visitò li legati, e con loro usò parole molto amorevoli e offerte generali.
Il dí 13 d’aprile fu congregazione per ricever il Cardinal Morone. Dove egli, letto che fu il breve della sua legazione, fece un’orazione accomodata, nella quale disse che le guerre, sedizioni e altre calamitá, presenti e imminenti per li nostri peccati, cesserebbono, quando si trovasse rimedio di placar Dio e restituir l’antica puritá. Per il che il papa con ottimo conseglio aveva congregato il concilio, nel quale sono due cardinali principi insigni per nobiltá e virtú, oratori di Cesare e di tanti gran re, cittá libere, prencipi e nazioni, e prelati di eccellente dottrina e bontá, e teologi peritissimi. Ma nel corso essendo morto Mantoa e Seripando, il papa aveva sostituito lui, aggiontogli Navagero. Il che egli aveva recusato, conoscendo la gravezza del peso e debolezza delle sue forze: ma la necessitá dell’obedienza aveva vinto il timore. Era gionto, cosí comandato, per andar alla Maestá cesarea, e tornar in breve, per trattar in compagnia delli altri legati con li padri quello che tocca la salute de’ populi, lo splendor della Chiesa e la gloria di Cristo. Che portava seco due cose: un’ottima volontá del pontefice per render sicura la dottrina della fede, emendar li costumi, provveder ai bisogni delle provincie e stabilir la pace e unione, eziandio con li avversari in quanto si può, salva la pietá e dignitá della sede apostolica: l’altra, la prontezza sua propria a far quello che Sua Santitá gli ha comandato. Pregava li padri che, lasciate le contenzioni e le discordie, che grandemente offendono il cristianesmo, e le questioni inutili, trattassero seriamente delle cose necessarie.
Il conte di Luna andò facendo ufficio con tutti li prelati vassalli del suo re, spagnoli e italiani, o beneficiati nelli suoi stati, con esortarli in nome di Sua Maestá ad esser uniti al servizio di Dio e reverenti verso la sede apostolica, e a non ingiuriarsi; dicendogli che tien commissione di avvisar particolarmente il proceder di ciascuno, e che Sua Maestá tenirá particolar conto di quelli che si porteranno secondo il suo desiderio, il qual non è però che dichino cosa alcuna contra la loro conscienzia. E parlava in tal maniera, che intendeva ognuno queste ultime parole esser dette seriamente, ma le prime per ceremonia.
Averebbe voluto il Cardinal Morone, inanzi la partita sua per andar all’imperatore, veder Lorena; e questo differiva il suo ritorno, per non aver occasione di abboccarsi. Imperocché avendo egli parlato in Venezia col Cardinal Navagero, e penetrato buona parte delle instruzioni date dal pontefice, voleva fuggir l’occasione che Morone, con comunicarli o tutto o parte di quello che aveva a trattar coll’imperatore, lo mettesse in qualche obbligo. Onde il dí 16 del mese d’aprile Morone si partí. Egli diceva di esser mandato solo per giustificar la buona intenzione del pontefice perché il concilio facesse progresso e si venisse ad una intiera reformazione della Chiesa, senza alcuna eccezione. Ma si sapevano però le altre commissioni, che tendevano a fine di levar il pensiero a quella Maestá di andar a Trento, e renderla capace che la sua andata porterebbe molti impedimenti alla riforma, e scusar il pontefice che non potesse andar personalmente al concilio; e per pregarla ad accelerarne il fine, proponendogli la translazione a Bologna, dove potrebbe Sua Maestá col pontefice intervenire, che sarebbe il modo unico; e in un congresso tanto celebre ricever la corona dell’Imperio, favore che non è memoria esser stato fatto ad altri imperatori. Aveva anco carico di pregarlo a conservar l’autoritá della sede apostolica contra tante macchinazioni che si facevano per diminuirla, anzi per annichilarla; e che la riforma della corte romana non si facesse in Trento, ma dal pontefice medesimo; che non si trattasse di rivedere piú le cose determinate sotto Paulo e Giulio nel medesimo concilio; Sua Maestá si contentasse che li decreti del concilio si facessero a sola proposizione delli legati, avendo però essi dato prima parte e avuto consenso dalli ambasciatori di Sua Maestá e degli altri prencipi. Aveva ancora il Cardinal carico di dar speranza alla Maestá sua che li averebbe concesso a parte tutto quello che avesse dimandato per li suoi popoli, e di levargli d’animo la intelligenzia col re di Francia in questa materia del concilio, mostrandogli che si come non era il medesimo stato di cose nel regno di Francia e in Germania, cosí li fini di Sua Maestá e di quel re dovevano esser diversi, e li consegli differenti.
Li legati, che rimasero, con facilitá davano licenzia di partire alli prelati; e particolarmente a quelli che tenevano l’instituzione de’ vescovi o la residenzia de iure divino.
Il dí20 aprile ritornò il Cardinal di Lorena, incontrato dalli ambasciatori dell’imperatore, di Polonia e di Savoia; e quel medesimo giorno arrivò nova della pace fatta dal re di Francia con gli ugonotti, la qual fu piuttosto avvantaggiosa per la parte cattolica. Imperocché dopo la giornata di che si è parlato di sopra, le cose tra le fazioni restarono contrappesate sino alla morte di Ghisa. Quella successa, Coligni assaltò e prese la rocca di Cadomo con tanta reputazione sua e diminuzione delle genti cattoliche, che fu deliberato nel conseglio del re metter fine alla trattazione di pace, che dopo la giornata fu continuamente maneggiata. Il dí 7 marzo si fece per questo un convento, dove furono condotti anco li pregioni Condé e il contestabile, e dopo qualche trattazione relasciati sotto la fede, per concludere le condizioni settantadue. Ministri de ugonotti si ridussero insieme e deliberarono di non consentir all’accordo, se non salvo l’editto di gennaro senza alcuna eccezione o condizione, e con aggiorna che la loro religione per l’avvenire non fosse chiamata nova, che li figli da loro battezzati non fossero rebattezzati, che si avessero per legittimi li loro matrimoni e li figliuoli nati di quelli. Dalle qual condizioni non volendo dipartirsi li ministri in alcun conto, Condé e la nobiltá, stanchi della guerra, senza chiamar piú ministri, convennero. E li capitoli, per quel che s’aspetta alla religione, furono: che dove li nobili ugonotti hanno alta giustizia, possino viver nelle loro case in libertá di conscienzia ed esercizio della religione riformata con le loro fameglie e sudditi. Che li altri gentiluomini feudatari non abitanti sotto altri signori d’alta giustizia cattolici, ma sotto il re immediate, possino aver il medesimo nelle loro case per loro e le fameglie solamente. Che in ogni bailaggio sia deputata una casa, nei borghi, nella quale possi esser l’esercizio della religione riformata per tutti quelli della giurisdizione. Che in casa propria ciascun possi viver liberamente, senza esser ricercato o molestato per il fatto della conscienzia. Che in tutte le cittá, dove quella religione fu esercitata sino ai 7 di marzo, sia continuata in uno o due luochi nella cittá, non potendo però pigliar chiese cattoliche, anzi in tutte le occupate gli ecclesiastici debbiano esser restituiti, senza poter pretender alcuna cosa per le demolizioni fatte. Che nella cittá e prepostura di Parigi non vi possi esser esercizio di quella religione, ma ben gli uomini che hanno case o entrate possino ritornarvi e goder il suo, senza esser molestati né ricercati del passato (né per l’avvenire) delle loro conscienzie. Che tutti ritornino nelli loro beni, onori e uffici, non ostanti le sentenzie in contrario ed esecuzioni di quelle dopo la morte del re Enrico II sino allora. Che il principe di Condé e tutti quelli che l’hanno seguitato s’intendino aver operato a buon fine e intenzione, e per servizio del re. Che tutti li pregioni di guerra o di giustizia per il fatto della religione siano messi in libertá senza niente pagare. Che sia pubblicata oblivione di tutte le cose passate, proibito l’ingiuriarsi e provocarsi l’un l’altro, disputare e contrastare insieme per causa della religione; ma viver come fratelli, amici e concittadini.
Questo accordo fu stabilito a’ 12 marzo, non se ne contentando Coligni, il qual diceva che le cose loro non erano in stato di convenir con condizioni cosí disavvantaggiose; che giá nel principio della guerra gli fu proposto di far la pace con l’editto di gennaro; e allora che bisognava ottener maggior avvantaggio, si diminuiva. Il dire che in ogni bailaggio sia un sol luoco per l’esercizio della religione non esser altro che levar il tutto a Dio e dargli una porzione. Ma la comune inclinazione di tutta la nobiltá lo costrinse ad acquietarsi. E sopra le condizioni furono spedite littere regie il dí 19 dell’istesso mese, nelle quali diceva il re: che avendo piaciuto a Dio da qualche anno in qua permetter che il regno fosse afflitto per le sedizioni e tumulti eccitati per causa di religione e scrupoli di conscienzie (per il che s’era venuto alle armi con infinite uccisioni, saccheggiamenti di cittá, ruine di chiese), e continuando il male; avendo esperimentato che la guerra non è rimedio proprio a questa malattia, ha pensato di riunir li suoi sudditi in buona pace, sperando che il tempo e il frutto d’un santo, libero, general o nazional concilio siano per portar qualche stabilimento. E qui erano soggionti li articoli spettanti alle cose della religione, oltra gli altri in materia di stato: le quali lettere furono pubblicate e registrate nella corte di parlamento, e proclamate pubblicamente in Parigi il 27 dell’istesso mese.
Questo successo in concilio dalla maggior parte dei padri era biasmato, li quali dicevano che era un antepor le cose mondane a quelle di Dio, anzi un minare e queste e quelle insieme, perché, levato il fondamento della religione in un stato, è necessario che anco il temporale vada in desolazione. Che se n’era veduto l’esempio per l’editto fatto inanzi, il qual non si tirò dietro quiete e tranquillitá come si sperava, ma una guerra peggiore che per l’inanzi. Ed erano anco tra li prelati di quelli che dicevano il re e tutto il conseglio esser incorsi nelle scomuniche di tante decretali e bolle, per aver dato pace alli eretici; e che per questo non si doveva sperare che le cose di quel regno potessero prosperare, dove era una manifesta disubidienza alla sede apostolica, sin tanto che il re e il conseglio non si facessero assolvere dalle censure e perseguitassero gli eretici con tutte le forze. E se ben da alcuni delli francesi era difeso, con dire che le tribulazioni continuamente sopportate da tutta la Francia e il pericolo notorio della ruina del regno lo giustificavano assai contra l’opposizione di quelli che non risguardano se non alli loro interessi e non considerano la necessitá nella quale il re si trovava redutto, la qual supera tutte le leggi (allegando quella di Romulo, che la salute del popolo è la principale e suprema tra tutte), queste ragioni erano poco stimate, e l’editto del re biasmato, sopra tutto perché nel proemio diceva esservi speranza che il tempo e il frutto di un libero, santo, general o nazional concilio porterebbero lo stabilimento della tranquillitá. La qual cosa reputavano un’ingiuria al concilio generale, per esser posto in alternativa con un nazionale; e che fossero nominati il cardinale di Borbon e il Cardinal di Ghisa tra gli autori del conseglio di far la pace, dicendo che questo era con grand’ingiuria della sede apostolica.
Ebbe anco principio un moto intrinseco nel concilio, se ben per causa leggiera, che diede assai che parlare. Fra’ Pietro Soto, che morí in quei giorni, tre dí inanzi la morte dettò e sottoscrisse una lettera, a fine che si mandasse al pontefice, nella quale in forma di confessione dechiarava la mente sua sopra li capi controversi nel concilio; e particolarmente esortava il pontefice a consentire che la residenzia e l’instituzione de’ vescovi fossero dichiarate de iure divino. La lettera fu mandata al pontefice, ma ritenutone copia da un frate Lodovico Loto, che stava in compagnia del Soto, il quale, credendo d’onorar la memoria dell’amico, incominciò a disseminarla. Onde erano diversi li ragionamenti, movendosi alcuni per l’azione d’un dottor stimato di ottima vita, in tempo che era prossimo alla morte; dicevano altri che non era fatto per proprio moto del padre, ma ad instigazione dell’arcivescovo di Braganza. Fu fatta opera dal cardinale Simonetta di raccogliere le copie che andavano attorno; ma questo accrebbe la curiositá e le fece tanto piú pubblicare, sí che andarono per mano di tutti.
Certo è che per questo successo li defensori di quelle opinioni pigliarono molto piú cuore. E gli spagnoli si riducevano spesso in casa del conte di Luna, dove Granata, informandolo delle cose occorrenti e occorse in concilio, essendo opportunamente partiti li vescovi di Leiria e di Patti, disse: «Questi sono delli perduti, li quali a guisa d’animali si lasciano caricar la soma e guidar dall’altrui volontá e parere, non per altro buoni che per far numero»; soggiongendo che, se nelle resoluzioni delle cose si aveva d’attendere il numero de’ voti, come sin allora si era fatto, si poteva sperar poco di bene; e però era di mestiero che li negozi si trattassero per via di nazioni. A che il conte disse che a quella e a molte altre cose era necessario provvedere, principiando dalla revocazione del decreto che li soli legati propongano, e dal stabilir la libertá del concilio; delle qual cose aveva commissione speciale dal re, perché, fermate quelle, al rimanente con facilitá sarebbe provveduto. Alli legati e agli altri pontifici dispiaceva vedere che li prelati spagnoli loro contrari non abbandonassero mai il conte; e come avviene di chiunque entra novo dove sono fazioni contrarie, che ognuno spera di guadagnarlo, procurarono essi ancora di mettergli a canto delli prelati sudditi del re, ma che, per ben intendersi con loro, chiamavano «amorevoli», per far buon ufficio e, come dicevano, desingannarlo e fargli conoscer la veritá. Adoperarono anco per questo l’ambasciator di Portogallo, il qual avendo molto opportunitá di parlare spesso con lui, per esser li interessi di quel re nelle cose ecclesiastiche quasi li medesmi, per li obblighi che col pontefice aveva, destrissimamente metteva inanzi le cose che gli erano dalli ministri pontifici suggerite a servizio della corte romana.
Instando il giorno 22 del mese d’aprile, destinato per la sessione, nel precedente si fece congregazione per deliberar di prolongarla, e li doi legati proposero la prolongazione sino alli 3 di giugno. Lorena fu di contrario parere, e disse che era un gran scandolo a tutta la cristianitá l’aver tante volte prorogata quella sessione senza mai esser tenuta; il quale crescerebbe maggiormente, quando di novo fosse assegnata in un giorno e poi differita ancora. Però, vedendo che alcuna cosa non è risoluta ancora di tante proposte e trattate, cosí sopra la residenzia come in materia del sacramento dell’ordine e del matrimonio, non era bene stabilir giorno prefisso, ma aspettar a deliberar il giorno della sessione sino ai 20 di maggio, che allora si potrebbe veder meglio li progressi di tutte le cose e assegnar un giorno certo; e tra tanto, per non perder tempo, dar li voti sopra li articoli delli abusi del sacramento dell’ordine; nel qual tempo potrebbe esser di ritorno dall’imperatore il Cardinal Morone con ampia risoluzione, con la quale si potrebbono componer le cose controverse, e usar diligenzia di finir il concilio tra dui o tre mesi. Seguí quella opinione il Cardinal Madruccio e cosí gran numero di padri, che la sua sentenza prevalse, sí che fu decretato che ai 20 maggio sarebbe prefisso il giorno da celebrar poi la futura sessione.
Finita la congregazione, Antonio Chiurelia vescovo di Budua, solito per l’addietro, nel dire il suo voto, trattener li padri con qualche facezia e spesse volte aggiongerci qualche profezia che tuttavia tenesse del ridiculo (le quali si mandavano anco fuori in diverse parti), allora ne diede fuora una sopra la cittá di Trento, imitando quelle molte d’Isaia, dove sono predetti li gravami e calamitá di diverse cittá. Diceva in sostanza che Trento era stata favorita ed eletta per la cittá dove si dovesse stabilir una general concordia del cristianesmo; ma, per la sua inospitalitá resa indegna di quell’onore, doveva in breve incorrer l’odio universale, come seminario di maggior discordie. Era ben palliato il senso con coperta di diversi enigmi in forma profetica o poetica, ma non talmente che non fosse con facilitá inteso.
L’aver Lorena con tanta riputazione ottenuto l’universal consenso diede gran gelosia alli pontifici, li quali, atteso l’onore che gli fu fatto il giorno inanzi da quelli che rincontrarono, e l’esser ricevuta la sua opinione da tanti, reputavano la cosa non solo con indignitá delli legati, ma anco che fosse fatto un’apertura contra il decreto che li soli legati propongano: e andavano parlando quasi pubblicamente che ben il pontefice diceva quel Cardinal esser capo di parte, e che prolongava l’espedizione del concilio, e che impediva la transazione a Bologna. Ma il cardinale, non si curando molto di quello che si dicesse in Trento, era attento alla negoziazione con l’imperatore. Gli spedí un gentiluomo espresso, mandandogli il parer delli dottori suoi sopra gli articoli posti da quella Maestá in consulta, e facendogli esporre che per il buon progresso del concilio era necessario che parlasse vivamente al Cardinal Morone e mostrasse il gran desiderio suo di veder buone risoluzioni a gloria di Dio; facesse intender a Sua Maestá il desiderio di tutti li buoni padri, pregandola anco che non si slontanasse dal concilio, per il buon frutto che speravano li padri dover far la vicinanza sua, con retener ciascuno in ufficio e impedir li tentativi di quelli che disegnano di transferirlo in un altro luoco, sí come ci era avviso che ve ne fosse macchinazione; e che inanzi la sua partita d’Inspruc Sua Maestá si certificasse che la libertá del concilio, del quale egli è protettore, fosse conservata. Gli mandò copia dell’editto di pacificazione del re di Francia, e d’una lettera della regina di Scozia, dove dava conto d’esser liberata da una gran congiura, e che continuava nella deliberazione di viver e morir nella religione cattolica. In fine pregava il cardinale Sua Maestá di trovar qualche forma di accomodamento che non fosse disputato nel concilio tra Francia e Spagna della precedenza, per non interromper il buon progresso.
Li doi legati, tra tantoché aspettavano il ritorno di Morone, per far alcuna cosa il dí 24 aprile comunicarono agli ambasciatori li decreti formati sopra gli abusi dell’ordine, acciò potessero considerarli; e il dí 29 li diedero alli prelati. E per il primo di quelli, il qual trattava della elezione dei vescovi ricercando in loro le qualitá conformi alli canoni antichi, gli ambasciatori dei re non se ne contentarono, parendogli che restringesse troppo l’autoritá dei loro principi nella presentazione o nominazione di quelli; e fecero ogn’opera in tutti quei giorni, il conte di Luna massime, acciò che fosse accomodato, o vero piú tosto a fatto tralasciato, dicendo che non conosceva a che quel capitolo facesse di bisogno; cosa che sarebbe anco molto piaciuta alli legati. E li imperiali ancora vi mettevano difficoltá, per il disegno che avevano di far nascere occasione di trattar dell’elezione de’ cardinali, e del papa in consequenza.
Quel medesimo giorno, di notte, il Cardinal Navagero, avendo dato voce di entrar il giorno seguente per fuggir li incontri e ceremonie, arrivò a Trento: il qual portò che al loro partir di Roma il pontefice aveva detto loro che facessero una buona e rigorosa riforma, conservando l’autoritá della sede apostolica, la qual è il capo piú necessario per tenir la Chiesa ben formata e regolata.
Ma il pontefice con tutto questo, nelli ragionamenti che aveva con li ambasciatori residenti appresso sé, li ricercava di far intender a lui la riforma che desideravano li loro principi. Il vero fine del papa era che, date le dimande a lui, si astenessero di darle al concilio; ed egli avesse occasione, col mostrar difficoltá insuperabile in ogni particolare, sedar l’umor fluttuante di riforma. E mirando a questo scopo istesso, cogli ambasciatori diceva anco spesse volte che li principi s’ingannavano, credendo che la reforma basti per far tornar gli eretici; che essi hanno prima apostatato, e poi preso gli abusi e deformazioni per pretesto; che le vere cause, quali hanno mosso gli eretici a seguitar li falsi maestri, non sono stati li desordini degli ecclesiastici, ma quelli dei governi civili; e però quando li defetti degli ecclesiastici fossero ben intieramente corretti, essi non ritornerebbono, ma inventerebbono altri colori per restar nella loro pertinacia. Che questi abusi non erano nella primitiva Chiesa e al tempo degli apostoli, e nondimeno in quei tempi ancora vi erano eretici, e tanti quanti adesso, a proporzione del numero de’ buoni fedeli; che egli in sinceritá di conscienzia desidererebbe la Chiesa emendata e gli abusi levati, ma vede ben chiaro che quelli che la procurano non hanno la mira volta a questo buon scopo, ma a’ suoi profitti particolari; li quali quando ottenessero, sarebbono con introduzione di abusi maggiori e senza levar li presenti. Che da lui non viene l’impedimento della riforma, ma dai principi e prelati del concilio; che egli la farebbe, e ben rigorosa; ma come si venisse all’effetto, le dissensioni tra i principi (ché uno la vorrebbe in un modo e l’altro al contrario) e quelle delli prelati, non meno repugnanti tra loro, impedirebbono ogni cosa. Che egli lo prevede, e conosce molto bene esser indecoro tentare quello che scoprirebbe piú li difetti e mancamenti comuni; e quelli che ricercano riforma mossi da zelo, lo adoperano, come dice san Paulo, senza prudenza cristiana; e altro non si farebbe, volendo riformare, se non che, sí come si conoscevano li mancamenti nella Chiesa, si conoscerebbe di piú che sono immedicabili; e quel che è peggio, ne seguirebbe un altro maggior male, che s’incomincerebbe a defenderli e giustificarli come usi legittimi.
Aspettava con impazienza la conclusione del negoziato di Morone, dal quale aveva avviso che dall’imperatore era stato preso tempo a rispondergli e che tuttavia si continuava in consultare sopra gli articoli; nel che dubitava assai che Lorena avesse gran parte, e teneva anco per fermo che tutti gli ordini e resoluzioni che venivano di Francia a Roma e al concilio dependevano dal parere e dal conseglio di lui. E per tentar ogni mezzo di acquistar quel cardinale, dovendo esser di corto il cardinale di Ferrara in Italia, col quale Lorena era per abboccarsi per molte cose concernenti li nepoti comuni, gli scrisse di far ufficio che si contentasse della transazione del concilio a Bologna; e acciocché egli fosse ben instrutto delle cose che in esso concilio passavano, ordinò che il Vintimiglia l’andasse ad incontrare prima che l’abboccamento succedesse, con istruzione delli legati, oltra quello che egli per se medesimo sapeva.
Principiò il mese di maggio con novi ragionamenti della pace di Francia, essendo arrivato a Lorena e agli ambasciatori francesi lettere del re che gliene davano parte, con commissione di far intender il tutto alli padri del concilio, o in generale o in particolare, come gli pareva piú a proposito. L’espedizione era delli 15 del passato, e principalmente versava in dimostrare che nella pace non ebbe intenzione di favorir l’introduzione e lo stabilimento d’una nova religione in quel regno, anzi per poter con manco contradizione e difficoltá redur tutti li populi in una medesima religione santa e cattolica, cessate le arme e le calamitá ed estinte le dissensioni civili. Ma soggiongeva che piú di tutto poteva aiutarlo a quest’opera una santa e seria reformazione, sempre sperata da un concilio generale e libero; però aveva deliberato mandar il presidente Birago a Trento per sollecitarla. Ma tra tanto non voleva restar di commetter ad essi ambasciatori, che giá erano in Trento, di far con ogni buona occasione saper ai padri che, risentendo egli ancora le ruine e afflizioni che la diversitá delle opinioni della religione ha suscitato nel suo regno, con apparente ruina e maggior pericolo dello stato, piú tosto che tornar piú a quell’estremitá aveva deliberato, se il concilio generale non fa il suo debito e quello che si spera da lui per una santa e necessaria riforma, di farne un nazionale, dopo aver satisfatto a Dio e agli uomini con tanti continuati uffici fatti con li padri e col papa per ottener dal concilio generale rimedio al comun male; e che per ottener piú facilmente il desiderato fine aveva ispedito il signor d’Oissel al re cattolico e il signor de Allegri al pontefice, e comandato al Birago che, dopo aver satisfatto al suo carico con li padri del concilio, passasse all’imperatore, per tentare se per mezzo di questi principi si potrá pervenir a cosí gran bene.
Certo è che il papa sentí con molto disgusto la pace fatta, cosí per il pregiudicio dell’autoritá sua, come anco perché fosse conclusa senza participazione di lui, che gli aveva contribuito tanti danari; e che con maggior dispiacere fu sentita dal re di Spagna, al quale pareva d’aver perso l’opera e il denaro; poiché essendo stato con la sua gente a parte della guerra e vittoria, e avendo fatto tanta spesa, non gli pareva giusto che si dovesse concluder accordo senza di lui, a pregiudicio della religione, quale aveva presa a defendere e mantenere, massime che vi aveva tanto interesse per il danno che riceveva nel governo dei Paesi Bassi, essendo cosa chiara che ogni prosperitá degli ugonotti di Francia averebbe accresciuto l’animo ai populi della Fiandra di perseverare, anzi fortificarsi maggiormente nella contumacia. Con le quali ragioni l’ambasciator cattolico in Francia faceva querela con molto romore; e per questo principalmente furono destinate le ambasciarie straordinarie a Roma e in Spagna, per far noto che non propria volontá aveva indotto il re e regio conseglio all’accordo, ma mera necessitá, e timore che di Germania non fossero mandati grossi e novi aiuti in favore dei ugonotti, come si udiva che si mettevano in ordine intorno Argentina e in altri luochi; perché, essendo ritornati a casa quei tedeschi, che in Francia avevano militato, carichi di preda, invitavano gli altri ad andar e arricchirsi. Né stavano senza timore che con quell’occasione li principi dell’Imperio non tentassero di ricuperar Metz, Toul, Verdun e altre terre di ragion imperiale, e che la regina d’Inghilterra non aiutasse piú potentemente che per il passato gli ugonotti per occupar qualche altro luoco, come aveva giá occupato Havredigrazia. Ma oltre questo fine principal di ambe le ambasciarie, quella di Oissel portava appresso proposizione di levar di Trento il concilio e congregarlo in Constanza, Vormazia, Augusta o altro luoco di Germania, con carico di rappresentare al re che, dovendosi celebrare per li tedeschi, anglesi, scozzesi e parte de’ francesi e altre nazioni, quali erano risolute di non aderir né accettar mai quel di Trento, vanamente restava in quel luoco. Di questa negoziazione era stato autore Condé, il qual sperava per questa via, quando riuscisse, aggrandir molto il suo partito, unendolo con gl’interessi di tanti regni e principi, e almeno indebolir la parte cattolica con promover difficoltá al tridentino. Ma non riuscí, perché il re di Spagna, udita la proposta (il che dico anticipatamente per non far piú ritorno a questo negozio) s’avvidde dove mirava, e fece una piena risposta: che il concilio era radunato in Trento con tutte le solennitá, col consenso de tutti li re e principi, e ad instanzia di Francesco re di Francia; che l’imperatore aveva la superioritá in quella cittá, come nelle altre nominate, per dar piena sicurezza a tutti, quando la giá data non paresse bastante; però non si poteva far altro che proseguirlo, e aver per buono tutto quello che si determinasse. E avvisò il papa del tutto, con certificarlo che egli non era per dipartirsi mai da quella resoluzione.
Li francesi in Trento ebbero per superfluo far instanzia ai padri, conforme al comandamento regio, inanzi il ritorno di Morone, essendo cosa appuntata con tutti che le azioni conciliari si differissero sino allora. Ma l’imperatore non aveva ancora spedito quel cardinale, anzi pur in quel medesmo tempo fece intender a Lorena che per diversi accidenti, e per esser le materie proposte di tal peso e importanza che meritavano matura consultazione e deliberazione, non aveva ancora potuto dargli risposta risoluta, ma ben sperava di farla tale in tempo e luoco, che ognuno potesse conoscer le sue azioni corrispondere al desiderio suo di veder ridrizzati li affari del concilio a comun beneficio; per il che anco, non ostanti le occupazioni ed urgenti bisogni delle altre sue provincie, disegnava fermarsi in Inspruch, per favorir con la presenzia sua la libertá del concilio, sin tanto che averá speranza di veder qualche buon profitto. A Morone non era grata cosí longa dimora, e che l’imperatore rimettesse, come faceva, tutte le negoziazioni sue a’ teologi e consiglieri; e dubitava cosí egli come il pontefice che si differisse il risolverlo sin tanto che avesse udito Birago, del quale giá avevano inteso che era per proponer translazione del concilio in Germania, per dar satisfazione agli ugonotti: cosa la quale il pontefice era risoluto di non assentire, cosí per propria inclinazione, come perché glie n’era fatto instanzia da tutto il collegio de’ cardinali e da tutta la corte. E si maravegliava dell’umor de’ francesi, che da una parte dimandavano riforma, e dall’altra parte translazione del concilio; e da una parte trattavano di aver sovvenzione dalle chiese per estinzione dei debiti regi, e dall’altro canto si mostravano tanto fautori di quelle.
Ma la veritá era che li francesi, certificati in se medesimi di non poter ottenir dal concilio, mentre che li italiani facevano la parte maggiore, cosa che fosse per loro servizio, incominciavano a non sperar piú, né tenir conto alcuno del concilio mentre stasse in Trento. Levarono la provvisione alli teologi mandati dal re, e concessero licenza di partire a chi voleva, lasciandoli però in libertá di restare. Per il che l’uno dopo l’altro partirono quasi tutti. Restarono sino in fine li dui benedittini, a’ quali erano somministrate le provvisioni dalli monasteri loro, e l’Ugonio, per il comodo che gli era dato dalli pontifici di trattenersi, al quale fecero aver luoco e spese nel monasterio, oltre la provvisione di cinquanta scudi che gli avevano assegnato ogni tre mesi.
Il Cardinal di Lorena, avendo esaminato e fatto esaminar le allegazioni mandate dal papa all’imperatore, e fattovi sopra una censura, la mandò a quella Maestá. Egli credette di aver fatto il tutto secretamente, ma dal suddetto teologo non solo fu scoperto, ma ancora fattane copia alli legati; li quali, aspettando di breve il Morone, scrissero alli vescovi partiti da Trento, di ordine del papa, che dovessero ritornare per ripigliare le azioni conciliari.
Tra tanto il 10 di maggio fu fatta congregazione per legger le lettere della regina di Scozia, presentate dal Cardinal di Lorena, nelle quali ella dechiarava che si sottometteva al concilio. E narrate le pretensioni sue nel regno d’Inghilterra, prometteva che, quando n’avesse avuto la possessione, averebbe sottomesso l’un e l’altro di quei regni all’obedienzia della sede apostolica. Dopo lette le lettere, il Cardinal con una elegante orazione escusò quella regina se non poteva mandar prelati né ambasciatori al concilio, per esser tutti eretici; e promesse ch’ella mai averebbe deviato dalla vera religione. Gli fu risposto per nome della sinodo con ringraziamento, ridendo però alcuni che l’ufficio di quella regina fosse di persona privata e non di principe, poiché non si ritrovava pur un suddito cattolico da mandare.
Era tornato da Roma il secretario di Lorena, mandato da lui per scolparsi delle imputazioni che gli erano date di far il capo di parte; il qual era stato raccolto dal pontefice con demostrazione d’amorevolezza, e mostrato di creder la sua esposizione, e risposto al Cardinal con una lettera, dove gli diceva contentarsi che si tralasciassero le cose contenziose, non si parlasse delli dogmi dell’ordine né della residenzia, ma s’attendesse alla riforma. La qual lettera avendo Lorena comunicato con Simonetta, per pigliar ordine di dar qualche principio, questo si rimise al ritorno di Morone; di che sentendo disgusto Lorena, come che dal pontefice fosse burlato, e congiongendo questo con un avviso venutogli che Morone, parlando coll’imperatore della libertà del concilio, dicesse che egli e li ambasciatori francesi fossero causa d’impedirla piú degli altri, si querelava con ogni occasione appresso tutti con chi gli occorreva parlare, che il concilio non avesse libertá alcuna, e che non solo da Roma si aspettasse risoluzione d’ogni minimo particolare, ma ancora non si riputassero degni li padri, né meno il Cardinal Madruccio e lui, di saper che cosa da Roma fusse comandato, acciò potessero almeno conformarsi con la volontá di Sua Santitá; e che gran cosa era il vedere che si spedissero dalli legati a Trento cosí frequentemente corrieri a Roma, eziandio spesse volte sopra la medesima materia e per ogni minima occorrenza, e nondimeno mai si sapesse che risoluzione o che risposta fosse venuta di lá; né meno fosse pur detto questo universale, che la risposta fosse venuta. Le qual cose dalli pontifici erano sentite con molto rossore, per esser cosí apparenti e pubbliche che non si potevano né negare né iscusare. Pieno Lorena di queste male satisfazioni, il dí seguente, essendo chiamato a consulta per trattar d’incominciar le congregazioni, poiché Morone aveva scritto dover esser di ritorno fra otto giorni, stettero ambe le parti buona pezza di tempo senza dir parola, e poi entrati nelli complementi, in fine si partirono d’insieme, senza aver parlato della materia.
Essendo gionti in Trento li procuratori delli prelati francesi rimasti nel regno, ricercarono li ambasciatori che fossero ammessi in congregazione; e avendo il Cardinal Simonetta ricusato, Lansac replicò che ciò aveva dimandato per reverenzia, non perché volesse riconoscer li legati per giudici; ma esser risoluto che la difficoltá fosse proposta in concilio.
Questa occasione fece mutar la risoluzione delli tre legati di aspettar Morone, e ordinarono una congregazione alli 14 maggio per trattare sopra gli abusi dell’ordine. Dove il Cardinal di Lorena, nel voto suo sopra il primo capo dell’elezione dei vescovi (che fu poi levato via per le occasioni che si diranno) si estese a parlar delli abusi che intervenivano in quella materia; e per poter liberamente inveir contra li disordeni di Roma, incominciò dalla Francia e non la perdonò al re. Dannò liberamente il concordato; disse che tra papa Leone e il re Francesco si divisero la distribuzione dei benefici del regno, la qual doveva esser delli capitoli: e poco mancò che non dicesse: «come li cacciatori dividono la preda». Dannò che li re e principi avessero nominazione delle prelature, che li cardinali avessero vescovati. Riprese ancora l’accordo fatto dal re ultimamente con li ugonotti. E poi uscito di parlar di Francia, disse che la corte romana era il fonte donde derivava l’acqua d’ogni abuso; che nessun cardinale era senza vescovato, anzi senza piú vescovati: e nondimeno quei carichi esser incompatibili. Che le invenzioni delle commende, delle unioni a vita e administrazioni, medianti quali contra ogni legge erano dati piú benefici ad una persona sola in fatti, con apparenza che ne avesse uno, era un ridersi della Maestá divina. Allegò spesse volte quel luoco di san Paulo, dove dice: «Guardatevi dagli errori, perché Dio non si può burlare, né l’uomo raccoglierá altro se non quello che averá seminato». Si estese contra le despense, come quelle che levavano il vigore a tutte le leggi: e parlò con tanta eloquenzia e sopra tanti abusi, che occupò tutta la congregazione. Non fu ben interpretato il parlare del cardinale dalli pontifici; anzi Simonetta praticò apertamente diversi prelati, acciò che s’opponessero al voto suo; e andava dicendo che egli parlava come li luterani, e piacesse a Dio che non sentisse ancora con loro: cosa che offese molto Lorena, il quale se ne dolse anco col pontefice. Nelle congregazioni seguenti non fu detta cosa se non ordinaria, né degna di memoria, chi non volesse riferire le adulazioni che obliquamente erano inserite nelli voti da quelli che avevano preso carico di giustificare le usanze da Lorena riprese.
In questo mentre il Cardinal Morone ebbe dall’imperatore la sua espedizione in iscritto, con parole assai generali: che egli defenderebbe l’autoritá del papa contra gli eretici, in caso che vi fosse bisogno; che si sarebbe fermato in Inspruch senza passar piú inanzi; che la translazione del concilio a Bologna non era da farsi senza consenso de’ re di Francia e di Spagna; che quanto alla coronazione sua, non era cosa da risolvere, se prima non si proponeva in dieta, perché cosí alla sprovista averebbe dato molto che dire alla Germania; che quanto al proceder in concilio, egli sarebbe restato sodisfatto con queste due condizioni: che la riforma si faccia in Trento e che ognuno possi proponer, e che si cominci a trattare sopra gli articoli esibiti da lui e da Francia.
Di questo negoziato del cardinale e della risposta ricevuta ho narrato quello che nelli pubblici documenti ho veduto. Non debbo però tralasciare una fama che fu divulgata allora in Trento e tenuta per certa dalli piú sensati: che il cardinale avesse trattato coll’imperatore e col figlio re dei romani cose piú secrete, e mostrato loro che per li diversi fini dei principi e dei prelati, e per li vari e importanti loro interessi contrari e repugnanti, fosse impossibile far sortir al concilio quel fine che alcuno d’essi desiderava. Gli fece conoscere che nella materia del calice, del matrimonio de’ preti, della lingua volgare, cose desiderate tanto da Sua Maestá e dal re di Francia, mai il re di Spagna né alcun principe d’Italia condescenderebbe a contentarsene. Che in la materia di riforma ogni ordine di persona vuole conservarsi nello stato presente e riformar gli altri; onde viene che ognuno dimanda riforma, e a qualonque articolo proposto per quella causa maggior numero se gli oppone, che lo favorisca, ché ciascuno pensa a sé solamente e non attende li rispetti altrui. Ma il papa, dove ognuno fa capo, ognuno lo vorrebbe ministro delli disegni propri, senza pensare se alcun altro sia per restar offeso: al quale però non è né onesto né utile favorir uno con disservizio dell’altro. Che ognuno vuole la gloria di procurar riforma, e pur persevera negli abusi, con carico del solo papa. Discorse anco il cardinale che, dove si tratta di riformar il papa, non voleva dire qual fosse l’animo di Sua Santitá; ma in quello che a lui né tocca né può toccare, con che ragione si può alcuno persuadere che egli non condescendesse, quando non conoscesse quello che ad altri non è noto, perché solo a lui sono riferiti li rispetti di tutti? Espose ancora di piú, per esperienza esser stato veduto, nello spazio di quindici mesi dopo l’apertura del concilio, che sono moltiplicate le pretensioni e aumentati li dispiaceri, e camminano tuttavia al colmo; che quando continui longamente, per necessitá seguirá qualche notabile scandalo: li considerò la gelosia che occupava li prencipi di Germania e li ugonotti di Francia, e concluse che, vedendosi chiaro il concilio non poter far frutto, era ispediente finirlo al meglior modo possibile.
Dicevasi che quei prencipi restarono persuasi di non poter ottener per mezzo del concilio cosa buona, e che conobbero esser meglio seppellirlo con onore, e che diedero al cardinale parola di passar per l’avvenire con connivenza e non ricever male se il concilio sará terminato. Chi attenderá il fine che ebbe il concilio, senza che quei principi avessero sodisfazione alcuna delle loro dimande, facilmente inclinerá l’animo a creder che la fama portasse il vero; ma, osservando che anco dopo questa legazione non sono cessate le instanze delli ministri imperiali, stimerá il rumore vano. Ma camminando per via che scansi ambidue le assurditá, si può credere che in questo tempo deponessero quei prencipi la speranza, e deliberassero di non repugnar al fine, non giudicando però onore il far una subita ritirata, ma piú tosto per gradi andar rimettendo le instanze, per non pubblicar il mancamento di giudicio nell’aver concepito per questo mezzo speranza di bene, e non aver creduto all’osservazione di san Gregorio Nazianzeno, che dalle reduzioni episcopali testifica aver sempre veduto incrudire le contenzioni. Quel che sia di veritá in questo particolare, lo ripongo nel numero di quelle cose dove la cognizione mia non è arrivata; ma ben certo è che del maneggio del concilio, qual non mostrava poter sortir esito quieto, la catastrofe in questo tempo ebbe principio.