Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo XI

Libro settimo - Capitolo XI (3-31 marzo 1563)

../Capitolo X ../Capitolo XII IncludiIntestazione 20 dicembre 2021 75% Da definire

Libro settimo - Capitolo X Libro settimo - Capitolo XII

[p. 167 modifica]

CAPITOLO XI

(3-31 marzo 1563).

[Lagnanze dell’imperatore col papa ed i legati pel modo di procedere del concilio e perché non si affronta risolutamente la riforma. Vivace risposta del papa. — Di fronte alla coalizione franco-imperiale, Pio IV cerca di cattivarsi Filippo II. Trattative col d’Avila. — La questione del calice divide gli spagnoli dagli imperiali. — Si ridesta la disputa sulla residenza. — Morte del legato Seripando. — I padri spagnoli sono consigliati dal re a non opporsi all’autoritá pontificia. — Nuove vive insistenze dei francesi per la riforma. I legati rinviano ogni decisione dopo l’arrivo del Morone e del Navagero. — Insistenze spagnole ed imperiali a Roma: risposta del papa. — Quali fossero le difficoltá che paralizzavano il concilio. Idee e propositi del papa sulla difficile situazione.— Tentativo di guadagnare l’imperatore, servendosi del Lorena, il quale però non si presta.]

In queste varietá de negozi e perplessitá d’animi ritornò il vescovo di Cinquechiese a Trento; e con li ambasciatori cesarei andò all’udienzia delli legati e presentò una lettera dell’imperatore da lui portata, con la copia d’un’altra di quella Maestá, scritta al pontefice. Fecero tutti ufficio che fosse proposta la riforma, ma con parole generali e assai rimesse. La lettera dell’imperatore alli legati significava loro il desiderio che aveva di veder qualche progresso fruttuoso del concilio, per ottener il quale era necessario che fossero levati alcuni impedimenti; de’ quali avendo scritto al pontefice, aveva voluto pregarli essi ancora ad adoperarsi, e con l’opera propria in concilio, e appresso il pontefice con le preghiere, acciò si camminasse inanzi per servizio di Dio e beneficio del cristianesmo. Conteneva la littera dell’imperatore al papa che, come avvocato della Chiesa, dopo ispediti gravissimi negozi con li elettori e altri principi e stati di Germania, nessun [p. 168 modifica] altro pensiero li fu piú a cuore che di promover le cose del concilio; per la qual causa anco si era redotto in Inspruc, dove con suo dolore aveva inteso le cose non camminare come sperava e la pubblica tranquillitá ricerca; e temeva che se non se gli rimediava, il concilio fosse per aver fine con scandolo del mondo e riso di quelli che hanno lasciato l’obedienza della chiesa romana, e incitamento a ritener le loro opinioni con maggior ostinazione. Che giá molto tempo non era celebrata sessione; che mentre li principi s’affaticano di unir li avversari differenti in opinioni, li padri sono passati a contese indegne de loro; che andava anco attorno fama che Sua Santitá trattasse di sciogliere o suspender il concilio, mossa forsi dall’intricato stato di quello che si vede. Ma il giudicio suo esser in contrario. Perché meglio sarebbe non fosse mai stato cominciato, che esser lasciato imperfetto, con scandolo del mondo, vilipendio di Sua Santitá e di tutto l’ordine ecclesiastico, e pregiudicio a questo e alli futuri concili generali, con giattura delle poche reliquie del populo cattolico, e con lasciar opinione nel mondo che il fine della dissoluzione o suspensione fosse impedir la riforma. Che nell’intimarlo la Santitá sua aveva richiesto il consenso di lui e degli altri re e principi; il che da lei era stato fatto ad imitazione delli pontefici precessori, li quali l’hanno giudicato necessario per diversi rispetti: la medesima ragione concludere che non possi esser disciolto né sospeso senza il medesmo consenso; esortandola a non dar orecchie a quel conseglio, come vergognoso e dannoso, il qual senza dubbio tirerebbe in consequenzia concili nazionali, sempre aborriti dalla Santitá sua come contrari all’unitá della Chiesa; li quali sí come sono stati impediti dalli principi per conservar l’autoritá pontificia, cosí non si potranno negare né differir piú longamente. E l’esortava ad esser contenta d’aiutar la libertá del concilio, la qual veniva impedita principalmente per tre cause: l’una, perché ogni cosa si consultava prima a Roma; l’altra, perché non era libero il proporre, avendo li legati soli assontisi questa libertá che doveva esser comune; la terza causa, per le pratiche che [p. 169 modifica] facevano alcuni prelati interessati nella grandezza della corte romana. Che essendo necessaria una reformazione della Chiesa, ed essendo comune opinione che gli abusi abbiano origine e fomento in Roma, era necessario per satisfazion comune che la riforma si facesse in concilio, e non in quella cittá; che però Sua Santitá si contentasse che fossero proposte le dimande esibite da’ suoi ambasciatori e quelle degli altri prencipi. In fine esponeva l’animo suo d’intervenir al concilio, ed esortava la Santitá sua a volersi ritrovar ella ancora.

Fu questa littera spedita sotto li 3 marzo. Della quale il pontefice restò molto offeso, parendogli che l’imperatore volesse abbracciare molto piú che quanto si estendeva l’autoritá sua, passando anco li termini degli altri imperatori antecessori suoi e piú potenti di lui. Piú restò ancora offeso, per esser avvisato dal suo noncio che s’era mandato copia della medesima lettera alli principi e al Cardinal di Lorena ancora; la qual cosa ad altro fine non poteva esser fatta, se non per commover loro e giustificar le azioni proprie. S’aggionse appresso che il dottor Seld, gran cancelliere dell’imperatore, aveva persuaso il Delfino, noncio pontificio a quella corte, ad operare che si levassero quelle parole universalem Ecclesiam, per non fomentare l’opinione della superioritá del papa al concilio, con dire che questi non erano tempi di trattar tal cosa, e che la Maestá cesarea e esso ancora sapevano che Carlo V di felice memoria in questo articolo teneva contraria opinione, e che si doveva fuggire il dar occasione a Sua Maestá e agli altri prencipi di dechiarar l’opinione che tengono in questo punto. Le quali cose congiongendo con quello che Lorena medesimo gli aveva scritto (cioè che non era ora né tempo di trattar la difficoltá delle parole universalem Ecclesiam ecc.), e con l’avviso venuto da Trento, che quel cardinale diceva non poter né esso né li prelati francesi comportarle per non canonizzare un’opinione contraria a tutta la Francia, e che s’ingannavano quelli, quali si credevano che, quando si fosse venuto a parlar chiaro e dimandar dechiarazione che il papa non sia sopra al concilio, quella opinione saria stata favorita [p. 170 modifica] e aiutata piú di quello che altri si pensava (le qual cose mostravano che di questo punto si fosse trattato strettamente alla corte imperiale), queste cose attese, venne il pontefice in parere di far una buona risposta, e mandare esso ancora copia attorno per propria giustificazione.

Rescrisse adunque il pontefice all’imperatore che aveva convocato il concilio con participazione sua e delli altri re e principi, non perché la sede apostolica avesse bisogno nel governo della Chiesa di aspettar il consenso di qualsivoglia autoritá, avendone piena potestá da Cristo; che tutti li antichi concili sono stati congregati per autoritá del pontefice romano, né mai alcun principe s’è interposto in questo, se non come puro esecutore; che egli non ha mai avuto pensiero né di suspendere né di discioglier il concilio, ma ha sempre giudicato che per servizio di Dio si debbia metterci compito fine; che non era impedita, ma aiutata la libertá del concilio con le consulte che in Roma si facevano nelle materie medesime; che mai si è celebrato concilio senza la presenza del pontefice, dove dalla sede apostolica non sia mandata instruzione, e seguitata anco dalli padri; che restano ancora le istruzioni, quali papa Celestino mandò al concilio efesino, papa Leone al calcedonese, papa Agatone al trullano, papa Adriano I al niceno secondo e Adriano all’ottavo generale constantinopolitano. Che quanto al proponer in concilio, quando il pontefice romano è stato presente nelli concili, egli solo ha sempre proposto le materie, anzi egli solo le ha risolute, non avendovi il concilio posto altro che l’approbazione; in assenzia del pontefice aver proposto li legati, o vero dal medesimo concilio esser stati deputati proponenti; e cosí il concilio in Trento con decreto aver deliberato che li legati proponessero. Il che è necessario per servar qualche ordine; ché sarebbe una gran confusione, quando tumultuariamente e quando uno contra l’altro potessero metter a campo cose sediziose e inconvenienti: non però esser stato negato mai di proponer tutte le cose utili. Che ha sentito con dispiacere le pratiche fatte da diversi contra l’autoritá data da Cristo alla sede [p. 171 modifica] apostolica. Esser pieni tutti li libri de’ Padri e concili che il pontefice, successor di Pietro e vicario di Cristo, è pastor della Chiesa universale; e con tutto ciò contra questa veritá s’erano fatte in Trento molte conventicole e pratiche; e tuttavia la Chiesa ha sempre usato quella forma di parlare; come Sua Maestá potrebbe vedere nelli luochi che li mandava citati nell’incluso foglio. E soggionse tutti li mali presenti esser nati perché li suoi legati, a fine di ovviare che le cattive lingue non parlassero contra la libertá del concilio, con usar connivenza avevano lasciato vilipendere la loro autoritá, onde il concilio si poteva dir piuttosto licenzioso che libero. Che quanto alla riforma egli la desidera rigida e intiera, e ha continuamente sollecitato li legati a risolverla. Che per quel che tocca alla sua corte, erano note al mondo le molte provvisioni che aveva fatto, con diminuzione anco delle entrate sue; e se alcuna cosa restava da fare, non era per tralasciarla; ma non si poteva far in Trento che stasse bene, perché non essendo quei prelati informati, in luoco di riformarla la disformerebbono maggiormente; che desiderava tra tanto vedere qualche riforma anco nelle altre corti, che non ne avevano minor bisogno, delle cose della Chiesa tuttavia solamente parlando; e che forse dagli abusi di quelle nasce il male principalmente. Che quanto alle petizioni proposte dalli ambasciatori di Sua Maestá e da altri, egli ha sempre scritto che fossero esaminate e discusse, ciascuna al tempo conveniente; perché, essendo giá instituito e incamminato l’ordine di terminar in concilio insieme le materie di fede e riformare li abusi concernenti quelle, non si potrebbe senza confusione e indignitá alterarlo. Che avendo Sua Maestá toccato diversi disordeni del concilio, aveva tralasciato il principale e fonte degli altri, cioè che quelli li quali debbono pigliar legge dalli concili, vogliono dargliela; che se fosse imitata la pietá di Costantino e dei due Teodosi, e seguiti li loro esempi, il concilio sarebbe senza divisione tra li padri e in somma riputazione appresso il mondo. Che nessuna cosa desiderava piú che intervenir personalmente in concilio, per rimediare al poco [p. 172 modifica] ordine che si serva; ma per la sua etá e per gli altri negozi non meno importanti esserli impossibile l’andar a Trento; e di transferirlo dove potesse andare non parlerebbe, per non dar sospetto.

Dubitò il pontefice che gli interessi dell’imperatore e di Francia in modo alcuno non potessero unirsi con li suoi, e però di loro poco si poteva promettere e meno sperare, poiché essi non pensavano al concilio se non quanto li preme per proprio interesse de’ loro stati; e però dal concilio essi altro non volere se non quello che possi dar sodisfazione e contentar li loro populi; e non potendo ottenerlo, impedir il fine del concilio, per mantenerli in speranza. Questi interessi non poter mover il re di Spagna, che ha li populi cattolici, onde può conformarsi col voler di esso pontefice senza pregiudicio delli suoi stati; anzi gli è utile l’esser tutto unito con lui per ottener delle grazie; e però esser necessario sollecitarlo con continui uffici, e darli speranza d’ogni sodisfazione. E opportunamente arrivò a Roma Luigi d’Avila, mandato espresso dalla Maestá cattolica, il quale il papa onorò sopra modo, lo alloggiò nel suo palazzo, nelle stanze dove soleva abitar il conte Federico Borromeo suo nepote, e usò seco ogni effetto di cortesia. Le cause perché fu mandato furono per ottener dal pontefice prorogazione per altri cinque anni del sussidio del clero concessogli, e grazia di vender venticinque mila scudi de’ vassallatici delle chiese. Aveva anco in commissione di procurare dispensa di matrimonio tra la principessa sorella del re e Carlo suo figliuolo, la qual in Spagna si teneva per facile, poiché molti, eziandio tra privati, erano dispensati di contraer matrimonio con la figlia del fratello o della sorella, che sono pari in grado a quello di pigliar la sorella del padre; oltre che di un matrimonio di questa sorte nacquero Mosé e Aaron. Alle qual proposizioni, quanto al matrimonio il papa si offerí a tutto quello dove si estendeva l’autoritá sua, dicendo che farebbe consultare (ma la trattazione non camminò inanzi, per l’infirmitá che successe alla principessa, che levò la speranza di matrimonio); e quanto al sussidio e all’alienazione, [p. 173 modifica] mostrò il pontefice animo pronto, ma difficoltá di metterlo in effetto, mentre li prelati stavano in spese nel concilio; promettendo che se il re l’aiutasse a finirlo e liberarsene, egli lo gratificherebbe. Quanto alle cose del concilio, nelle prime audienze don Luigi non passò molto inanzi; solo offerí di procurare la conservazione dell’autoritá pontificia, ed esortò il pontefice a non trattar di far lega de cattolici, acciocché gli eretici non la facessero tra loro, e che Francia non si precipitasse ad ogni accordo con li ugonotti.

In questo mentre in Trento si facevano diverse adunanze. Li ambasciatori cesarei adunarono li prelati spagnoli in casa dell’arcivescovo di Granata per indurli a consentire che nel concilio si concedesse l’uso del calice, con disegno di propor di novo quella materia; ma li trovarono tanto alieni, che furono costretti metterla in silenzio. Il Cardinal di Lorena fece molte congregazioni con li suoi prelati e teologi per esaminare li luochi mandati dal pontefice all’imperatore nel foglio di sopra riferito (e dall’imperatore a lui), sopra le parole universalem Ecclesiam, facendo vedere se quei passi erano citati direttamente, e se gli era dato il vero sentimento, per formare, come poi fecero, un’altra scrittura in confutazione di quella. Questi medesimi luochi ordinò l’imperatore che fossero comunicati alli spagnoli per sentir il parer loro: il che avendo fatto il Cinquechiese dove tutti li prelati spagnoli erano congregati a quest’effetto, rispose Granata non esser bisogno che Sua Maestá facesse quell’opera con loro che ricevevano il concilio fiorentino, ma con li francesi che ricevevano il basiliense. Mossi da questo accidente, alcuni di loro, dopo la partita del Cinquechiese trattarono che si scrivesse una lettera al papa per levar quella sinistra opinione che avesse concetto di loro; a che repugnò Granata, dicendo che bastava al papa conoscer dalli voti loro che in questo non erano contrari, ma però non esser giusto che secondassero le adulazioni degl’italiani; e soggionse le formali parole: «Restituisca a noi il nostro, che noi lasciamo a lui piú che è il suo; e non è giusto che de vescovi deventiamo suoi vicari». E un altro [p. 174 modifica] giorno li medesimi cesarei s’adunarono con li ambasciatori francesi per metter ordine di far instanzia tutti insieme che fosse proposto il decreto della residenzia, formato dal Cardinal di Lorena; il che non poterono né essi né Lorena impetrare da varmiense e Simonetta, ché Seripando per infirmitá non interveniva.

Occorse che nella congregazione delli 17 marzo uno delli teologi francesi, trovata opportunitá di digredire dalla continenzia dei sacerdoti alla residenzia, si estese consumando tutto il ragionamento sopra di quella. Addusse autoritá ed esempi a persuadere che fosse de iure divino e rispondere a quell’obiezione, che si trovano tanti canoni e decreti che la comandano, il che non sarebbe se fosse comandata da Dio. Usò questo concetto: che il ius divino è fondamento o vero colonna della residenzia, e che il ius canonico è l’edificio o vero il vòlto: e sí come levato il fondamento casca l’edificio, e levata la colonna cade il vòlto, cosí è impossibile conservar la residenzia col solo ius canonico; e quelli che la vogliono a quel solo ascrivere, altra mira non hanno se non di destruggerla. Addusse l’esempio delli tempi passati, osservando che inanzi tutti li canoni e decreti umani la residenzia fu esquisitamente da tutti osservata, perché ciascuno si teneva obbligato da Dio; ma dopo che alcuni si sono persuasi non aver altro obbligo che derivato da leggi umane, quantunque quelle siano state spesso rinnovate e fortificate con pene, nondimeno il tutto è sempre riuscito in peggio.

In quel medesimo giorno, con universal dispiacere di tutti li prelati e di tutto Trento, morí il Cardinal Seripando, avendo la mattina pigliato il santissimo sacramento dell’Eucarestia, qual volse pigliar fuori del letto, ingenocchiato; e dopo tornato in letto, alla presenza di cinque prelati, delli secretari di Venezia e Fiorenza e di tutta la sua famiglia, fece un’orazione latina tanto longa quanto gli durò lo spirito. Confessò la sua fede conforme in tutto alla cattolica della chiesa romana, parlò dell’opere del cristiano, della resurrezione de’ morti, delle cose del concilio; raccomandò alli legati e [p. 175 modifica] cardinale di Lorena il progresso di esso; e volendo anco raccordar il modo, non avendo piú spirito, disse che il Signor Iddio gli aveva proibito l’andar piú oltre, ma che Sua divina Maestá parleria ella a tempo e luoco. E cosí passò senza dir piú parola.

Il conte di Luna dalla corte cesarea scrisse al secretario Martino Gastelun, e mandò copia d’una lettera scrittagli dal re, dove Sua Maestá avvisava che il pontefice s’era doluto seco delli prelati spagnoli; e se bene ella pensava ciò esser avvenuto per non esser Sua Santitá ben informata, tenendo esso che li suddetti prelati si mostrino devoti verso la sede apostolica, nondimeno ordinava al conte che, gionto a Trento, volesse tenerli la mano sopra, acciò favorissero le cose del papa, salva però la loro conscienzia, e far in modo che Sua Santitá non avesse da dolersi di lui. E in questa sustanzia il medesimo conte scrisse a Granata, Segovia e Leon.

Il giorno 18 marzo, che per l’esequie di Seripando non si tenne congregazione, li ambasciatori francesi fecero una solenne comparsa inanzi alli doi legati. Fecero indoglienza che in undeci mesi dopo l’arrivo loro in Trento, dal primo giorno sino allora, avessero fatto intender le desolazioni di Francia e li pericoli della cristianitá per le differenzie della religione, ed esposto che il piú necessario e principal rimedio era una buona e intiera riforma dei costumi e qualche moderazione delle leggi positive, e sempre li sia stata data buona speranza e graziose parole, senza che mai ne abbiano veduto alcun effetto: che si fugge quanto si può la riforma; che la piú parte de’ padri e teologi sono piú che mai duri e severi a non condonar cosa alcuna alla necessitá del tempo; concludendo che li pregavano a considerare quanti uomini dabbene muoiono prima di poter far qualche buon’opera per il pubblico servizio: di che ne danno esempio li cardinali Mantoa e Seripando. Però volessero far essi qualche cosa mentre hanno tempo, per discarico delle loro conscienze. Risposero li legati dispiacer loro l’andar delle cose in longo, ma di questo esserne causa li accidenti sopravvenuti della morte di Mantoa e Seripando. [p. 176 modifica] Che essi soli non possono portar tanto peso; che li pregavano aspettar Morone e Navager, che presto arriveranno. Alla qual risposta si acquietarono, perché anco li ambasciatori imperiali fecero instanzia che si andasse lentamente, aspettando la negoziazione delli ambasciatori cesarei in Roma, congionti con Luigi d’Avila, li quali tutti insieme avevano fatto instanzia al pontefice perché in concilio, e non a Roma, si facesse una universal riforma di tutta la Chiesa nel capo e nelle membra, e per la revocazione del decreto che li soli legati potessero proponer in concilio, come contrario alla libertá delli ambasciatori e delli prelati di poter ricercar quello che giudicassero utile, questi per le sue chiese e quelli per li suoi stati. La qual instanzia l’imperatore giudicò meglio che fosse prima fatta al papa e poi in concilio.

Non però questi principi erano in tutto concordi. Imperocché, se ben don Luigi a parte fece le medesime dimande, nondimeno appresso di ciò ricercò il pontefice che persuadesse l’imperator a rimoversi dalla dimanda del calice e matrimonio de’ preti, dicendo che il re aveva dato commissione al suo ambasciatore che anderebbe a Trento di far ufficio che non se ne parlasse, e che li prelati spagnoli si vi opponessero. Esortò il pontefice a procurar di acquistar gli eretici con dolcezza, non mandando nonci, ma usando il mezzo dell’imperatore e d’altri principi d’autoritá; e ad accettare le dimande de’ francesi, e lasciar libero il concilio, sí che tutti possino proporre; e che nel risolvere non si facciano pratiche. La risposta del pontefice agli ambasciatori fu che il decreto del proponentibus legatis sarebbe interpretato in maniera che ognuno potrá proponer quello che vorrá, e che egli alli legati ultimamente partiti aveva lasciato libertá di risolvere tutte le cose che occorressero in concilio senza scriverli cosa alcuna. Che la riforma era desiderata da lui, e n’aveva spesso fatto instanzia, e se il mondo la volesse da Roma, giá sarebbe fatta, e anco eseguita; ma poiché la volevano da Trento, se non si effettuava, la causa non si doveva ascriver ad altri se non alle difficoltá che si ritrovavano tra li padri. Che egli desiderava [p. 177 modifica] il fine del concilio, e lo procurava e sollecitava, né di suspenderlo aveva pensiero alcuno; e che in conformitá di questo averebbe scritto alli ligati. E scrisse anco, con dire che il decreto proponentibus legatis era fatto per levar la confusione, ma però esser volontá sua che non impedissero alcuno delli prelati a proponer quello che gli fosse parso; e che essi dovessero ispedir le materie secondo li voti delli padri, senza aspettar altro ordine da Roma. Ma questa lettera fu per dar sodisfazione e non produr effetti; perché il Cardinal Morone, che era capo delli legati, aveva le instruzioni a parte, per dar regola anco agli ordini che fossero andati da Roma.

A don Luigi rispose in particolare il pontefice che aveva aperto il concilio sotto la promessa fattagli da Sua Maestá che ne averebbe avuto protezione e che sarebbe conservata l’autoritá della sede apostolica; e si trovava ingannato, perché dalli prelati suoi riceveva maggior incontri che da tutti gli altri, li quali per la concessione del sussidio si era inimicati insieme con tutto il clero di Spagna. Che della buona volontá di Sua Maestá non dubitava, ma tutto il male nasceva perché né in Roma né al concilio aveva mandati ambasciatori confidenti; che era giusto lasciar il concilio in libertá, ed egli piú di tutti cosí desiderava, non piacendoli però la licenzia, né meno che fosse in servitú di quei principi che predicavano la libertá, volendo essi comandare. Che da ognuno gli era fatta instanzia di libertá nel concilio, ed egli non sapeva se tutti questi avessero ben pensato che importanzia sarebbe, quando alli prelati fosse lasciata la briglia sopra il collo. Che quantunque in quel numero vi fossero alcune persone eccellenti in bontá e in prudenzia, vi erano nondimeno anco di quelli che mancavano o dell’una o dell’altra o d’ambedua insieme; li quali tutti erano pericolosi, quando non fossero tenuti in regola. Che a lui importava forse manco di tutti il pensarci, perché avendo il fondamento dell’autoritá sua sopra le promesse di Dio, in quelle confidava; ma maggior bisogno avevano li principi d’avvertirci, per li pregiudici che ne potrebbono seguire: e che quando li prelati fossero posti in quella [p. 178 modifica] soverchia libertá, ne rincrescerebbe forse molto a Sua Maestá cattolica. Che quanto alla riforma, gli impedimenti non venivano da lui: che egli sarebbe andato differendo le dimande dei prencipi sopra la comunione del calice e altre tal novitá, come Sua Maestá desiderava; ma che ella considerasse che, sí come la mente di Sua Maestá non è conforme a quella degli altri nelli particolari del calice e matrimonio de’ preti, cosí in ogni altro vi è chi fa instanzia e chi si oppone a quella di lei. Concluse in fine che stava a Sua Maestá vedere un fruttuoso e presto fine del concilio, dal quale quando egli fosse stato libero, ella si poteva prometter ogni favore.

In concilio il 20 marzo finirono di parlare li teologi sopra tutti gli articoli del matrimonio. Si ristrinsero li legati per deliberare se dovevano nelle congregazioni dei padri proponere la dottrina e canoni dell’ordine e residenzia, e deputar prelati per formar la dottrina e canoni del matrimonio. Ma considerando che francesi e spagnoli si sarebbono opposti, e che si potrebbono eccitar maggior controversie di quelle che sino allora erano, e quando avessero voluto proponer gli abusi solamente, venivano appunto a dar occasione alli imperiali e francesi di entrar nella materia della riforma, erano perplessi. Sarebbe stato utile il tentare d’accomodar alcuna delle difficoltá; e a questo inclinava varmiense. Ma in contrario Simonetta dubitava che per la poca fermezza del collega non fosse successo qualche grave pregiudicio; e attribuendo la colpa di tutti li desordini occorsi in concilio alli doi legati morti, che con aver proceduto nella materia della residenzia piú secondo il proprio senso che secondo i bisogni della Chiesa, per troppo bontá avevano causato tanto male, e che non era da mettersi in pericolo di vederne di maggiore, però non consentiva che di alcuna di esse si parlasse. Onde finalmente conclusero d’intermettere tutte le trattazioni sino alla venuta del li altri legati. Dopo la qual risoluzione Lorena deliberò di andar in quel mentre sino a Venezia, per ricever nel viaggio qualche relassazione d’animo per il dolore concepito per la morte del gran priore suo fratello, che gli aveva anco rinovata la piaga del dispiacere per la morte dell’altro. [p. 179 modifica]

Le difficoltá di che si è parlato, erano sei. L’una, sopra il decreto giá fatto che li soli legati proponessero; la seconda, sopra la residenzia, se fosse de iure divino; la terza, sopra l’instituzione de’ vescovi, se hanno la loro autoritá immediate da Cristo; la quarta, sopra l’autoritá del papa; la quinta, di accrescer il numero de’ secretari e tener conto minuto e fidato delli voti; la sesta, e piú importante, della riforma generale. Le quali io ho voluto recapitular in questo luoco, come per anacefaleusi di quello sopra che sin ora si era travagliato, e proemio delli travagli che seguitano da narrarsi.

Non fu novo in Trento l’avviso che andò della instanzia fatta in Roma al papa, perché giá li ambasciatori cesarei e francesi avevano pubblicato che cosí si doveva fare, per voltarsi poi al concilio unitamente a far le richieste medesme. E il Cardinal di Lorena, solito a parlar variamente, diceva che se quei principi ricevessero satisfazione che le loro petizioni di riforma fossero proposte e la riforma stabilita senza diminuzione dell’autoritá pontificia, farebbono cessar immediate quelle instanze. E aggiongeva appresso che al papa sarebbe facile riuscire della riforma e venire all’espedizione del concilio, quando si lasciasse intendere chiaramente quali fossero li capi che non volesse che si trattassero, acciocché si potesse attender all’espedizione degli altri; e che con questo si leveriano le contese che sono causa delle dilazioni. Perciocché presupponendo alcuni (che vogliono mostrarsi affezionati a Sua Santitá) che una parte di quelle petizioni sia pregiudiciale alla sede apostolica, si oppongono a tutte; e altri, negando che alcuna pregiudichi, sono causa di portar il negozio in longo: che quando Sua Santitá fosse dechiarata, le difficoltá cesserebbono. Li ambasciatori cesarei diedero copia in Trento a molti della lettera dell’imperatore scritta al papa; per la qual causa li legati vennero in opinione di far andar attorno essi ancora la copia della scritta da loro in risposta a quella Maestá, quando li mandò quella che al papa aveva scritto; la qual risposta essendo fatta secondo l’instruzione scritta da Roma, conteneva li medesimi concetti che la lettera del papa. [p. 180 modifica]

Il pontefice, confrontate le proposte fattegli da tutti gli ambasciatori con quello che era avvisato esser detto dal Cardinal di Lorena, tanto piú fermò nell’animo suo di non dover consentire alle proposizioni di riforma date da’ francesi. E veramente non solo una persona di gran spirito e molto versato nei negozi, come il pontefice era, ma ogni mediocre ingegno averebbe scoperto l’artificio ordito per tirarlo, quando fosse stato incauto, nella rete. Considerava non altro significar il dire che si dechiari quale delle petizioni non li piacciono, lasciando deliberar le altre, se non lasciar aprir la strada con quelle, per introdur doppoi le altre che fossero in suo pregiudicio. E chi poteva dubitare che l’ottener le prime fosse non fine, ma grado per passar dove si mirava? E il relasciare li precetti ecclesiastici spettanti alli riti, come la comunione del calice, il celibato de’ preti, l’uso della lingua latina, parere in primo aspetto che non possino derogar all’autoritá pontificia; nondimeno qualunque di questi riti, alterato, causerebbe immediate la total destruzione dei fondamenti della chiesa romana. Esser alcune cose che nel primo aspetto paiono potersi admetter senza diminuzione dell’autoritá; ma l’uomo prudente dover avvertire non tanto li principi, quanto li termini delle cose. Per queste ragioni risoluto di non camminar per la via di ceder a questi primi passi, e datosi a pensare che altri rimedi vi fossero, ritornò nei primi pensieri che il re di Spagna non aveva né interesse né affetto proprio per proseguir le instanzie fatte; che l’imperatore e li francesi vi mettevano pensiero grande, sperando con quei mezzi satisfar ai loro popoli e quietar le discordie civili. E quando questi fossero capaci che gli eretici inculcano la riforma per pretesto di mantenersi separati dalla Chiesa, ma non si ridurrebbono però, quando anco fosse perfetta, considerò che, fatti li principi capaci di questo, averebbono cessato dall’instanzia e lasciato finir quietamente il concilio. Si voltò tutto a tentar di superar per questa strada le difficoltá. E ben considerati tutti li rispetti, gli parve piú facile persuader l’imperatore, come quello che solo poteva [p. 181 modifica] deliberare, ed era di piú facile e buona natura, lontano dagli artifici e non costretto da necessitá di guerra; dove che in Francia, essendo il re un putto, li partecipi del governo molti e di natura artificiosa e con vari interessi, era difficile poter far frutto. Onde tutto rivoltato a questo, deliberò che il Cardinal Morone, inanzi che dar principio alle cose conciliari, andasse all’imperator per questo effetto. E raccordandosi quello che il Cardinal Lorena aveva detto in Trento dell’andar l’imperator a Bologna per ricever la corona, deliberò di tentar l’animo di quel cardinale se si potesse indur all’esser mediatore in questo, e cosí transferir anco il concilio in quella cittá. Ordinò al vescovo di Vintimiglia che, insinuatosi con lui, vedesse d’indurlo a contentarsi di adoperarsi in quest’impresa; e per darli occasione d’introdursi, fece che Borromeo gli diede carico di condolersi con lui della morte del gran priore suo fratello.

Ma essendo quest’ordine andato che giá il cardinale era partito per Padoa, il vescovo, comunicato il negozio col cardinale Simonetta, concluse che l’importanza della cosa non comportava indugio di tempo, né meno di negoziarla altramenti che a bocca. Si risolvè di seguitar Lorena, sotto pretesto di veder in Padoa un suo nepote gravemente infermo. Dove gionto, e visitato il cardinale, e presentateli le lettere di Borromeo, e fatto l’ufficio di condoglienza, non mostrando aver tanto negozio con lui, entrati in ragionamento, dimandò il cardinale che cosa era di novo in Trento dopo la sua partita, e se era vero che il Cardinal Morone fosse per andar all’imperatore, come si diceva. Dopo molti discorsi dell’uno e dell’altro, il vescovo passò a raccordarli che Sua Signoria illustrissima in Trento gli aveva altre volte detto che se il pontefice avesse voluto transferirsi a Bologna, l’imperator vi sarebbe andato, e sarebbe stata occasione d’incoronarlo; il che averebbe messo molto conto a Sua Santitá, per mantenersi nel possesso della coronazione, la quale la Germania oppugnava. Il che essendo di novo affermato dal cardinale, soggionse il vescovo che egli allora ne aveva dato avviso a Roma, e al [p. 182 modifica] presente ne aveva tal resposta, dalla quale concludeva che si rappresentava una bellissima occasione a Sua Signoria illustrissima di portar un gran frutto alla Chiesa di Dio, adoperandosi per mandar ad effetto cosí util disegno. Imperocché quando ella disponesse Sua Maestá ad andar a Bologna, chiamando anco lá il concilio, si poteva tener per certo che Sua Santitá s’averebbe risoluta d’andarci, e con l’assistenzia del papa e dell’imperatore le cose del concilio averebbono preso presto e felice successo. E mostrando il cardinale desiderio di veder quello che li era scritto, il vescovo, facendo dimostrazione di proceder con lui liberamente, li mostrò le lettere del Cardinal Borromeo e una polizza di Tolomeo Gallo, secretanrio del pontefice.

Il Cardinal, letto il tutto, rispose che, quando fosse tornato a Trento, averia avuto maggior lume dell’animo dell’imperatore e di quello che il pontefice avesse risposto a Sua Maestá, onde potrebbe poi pigliar partito, e non mancherebbe d’adoperarsi, se fosse bisogno. A che replicando il vescovo che la mente del pontefice la poteva chiaramente intendere per le lettere mostrategli, né occorreva aspettarne chiarezza maggiore, il Cardinal entrò in altri ragionamenti; né mai il vescovo, col ritornar nel medesmo, potè cavar altro in sustanzia che l’istessa risposta. Ben li disse che egli aveva parlato dell’andata a Bologna per l’intenzione che il papa dava all’imperatore della riforma; ma dappoi che in tanto tempo si era visto che, se ben Sua Santitá promette cose assai e piú di quello che si ricerca, in concilio però niente si eseguisce, l’imperator egli altri principi credono che Sua Santitá veramente non abbia avuto animo di riforma: la qual se avesse avuto, non averiano li legati mancato di eseguir la volontá sua. Disse che l’imperatore non era sodisfatto, perché avendo Sua Santitá mostrato animo al gennaro di voler andar a Bologna, si era in un subito raffreddato; e che quando Sua Maestá ha detto di voler intervenir in concilio, Sua Santitá ha fatto ogni opera per ritrarlo da tal pensiero. E usando delle sue solite varietá di parlare, disse anco che l’imperator non si risolveria [p. 183 modifica] d’andar a Bologna per non dispiacer alli principi, quali potriano dubitare che, quando fosse lá, Sua Santitá volesse governar le cose a modo suo e terminar il concilio come gli piacesse, senza far la riforma. Narrò d’aver avuto avviso dell’instanzia fatta da don Luigi d’Avila a nome del re cattolico, mostrando piacer di quell’avviso; ed estendendosi alli particolari, aggionse esser necessario che si facesse dall’alfa sino all’omega, e che saria bene che si levassero di concilio fino a cinquanta vescovi, che si oppongono sempre a tutte le buone risoluzioni. Disse ancora che per il passato egli pensava esser piú abusi in Francia che in altri luochi; ma aver conosciuto, doppoi che era in Italia, esserci da far assai. Perciocché si vedono le chiese in mano de cardinali, che non avendo altra mira se non di tirar le entrate, le lasciano abbandonate, dando la cura ad un povero prete; donde nascono ruine delle chiese, simonie e altri infiniti disordeni; al rimedio de’ quali li principi e loro ministri erano andati ritenuti, sperando che pur una volta si facesse la desiderata riforma. Che esso ancora era proceduto con rispetto; ma vedendo oramai esser tempo di operar liberamente per servizio di Dio, non voleva aggravar piú la sua conscienzia, ma nel primo voto che dicesse era risoluto di parlar di questo. Che la casa sua per la conservazione della religione e servizio di Dio aveva tanto patito, quanto ognun sa, con la perdita di due fratelli; che egli era per perdersi nella medesima opera, se ben non come loro nelle arme; che Sua Santitá non doveva dar orecchie a chi cercava di rimoverla dalla sua santa intenzione, ma risolversi d’acquistar questo merito appresso Dio con levar gli abusi della Chiesa. Disse ancora che, venendo li nuovi legati ben informati della mente del pontefice, di qui si conoscerá l’animo suo intorno la riforma; ed essi non averanno piú scusa di ritardarla. E con tutto che il vescovo piú volte lo volesse rimettere in parlar dell’andata a Bologna, voltò sempre il ragionamento altrove.

Del tutto il Vintimiglia avvisò a Roma, dandone anco il suo giudicio sopra: che quantonque il cardinale altre volte [p. 184 modifica] facesse menzione di questa andata a Bologna, nondimeno ne avesse l’animo contrario, e lo dicesse con arte, per scoprir l’intenzione di Sua Santitá e della corte; e che allora era bene averlo scoperto, perché, se avesse detto di volersi adoperare, averia potuto portar il negozio in longo e far occorrere diversi inconvenienti pregiudiciali.