Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo X
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CAPITOLO X
(21 febbraio-9 marzo 1563).
[Ritorno a Trento del Commendone, che riferisce della sua poco proficua missione presso l’imperatore. — Il «proconcilio» di Innsbruck: questioni ivi discusse, e come i legati riuscissero ad esserne informati. — Il papa sconsiglia che si propongano al concilio gli articoli francesi di riforma e pensa di ostacolare le conferenze teologiche d’Innsbruck, inviandovi il Gonzaga. — I teologi del concilio, continuando la trattazione del matrimonio, suscitano la questione della natura e dei limiti delle dispense papali. — Ritorno del Lorena a Trento: tentativi dei legati di penetrare i fini ed i risultati della sua missione. — Morte del legato Gonzaga. — Disputa sul celibato ecclesiastico e sulla facoltá di dispensa. — Il Lorena si oppone alla richiesta di dispensa che i francesi vogliono presentare pel cardinale di Borbone. — Il papa nomina legati i cardinali Morone e Navagero: malcontento dei francesi per l’esclusione del Lorena. — L’uccisione del duca di Guise contribuisce a far mutare il contegno del Lorena in concilio.]
Ritornò in questo tempo Commendone dall’imperatore. La negoziazione del quale non ebbe il fine che li legati desideravano; imperocché Cesare, udite le proposizioni sue, rispose che vi era bisogno di tempo a pensar sopra le cose proposte, per la loro importanza; e ci averebbe avuto considerazione e dato la risposta al concilio per un suo ambasciatore. Di che egli ne diede conto per lettere immediate, aggiongendo che aveva trovato l’imperatore addolorato e mal impresso delle azioni conciliari. Ma allora, ritornato, aggionse di piú: che dalle parole di quella Maestá, e da quello che aveva inteso da’ suoi conseglieri e osservato dalli loro andamenti, gli era parso conoscere che Sua Maestá era cosí ferma in quella sinistra impressione, che dubitava non segua qualche disordine. Che, da quanto poteva comprendere, li pensieri di Sua Maestá erano indrizzati a fine di ottenere che si facesse una gran riforma, con tal provvisione che si avesse da osservare; e che poteva affermar certo non esser di piacer dell’imperatore che si finisca il concilio. Aver inteso che, essendo trascorso il noncio Delfino residente a nominar suspensione o translazione, l’imperator mostrò dispiacere. Riferí appresso esser opinione della corte cesarea che il cattolico s’intendesse con l’imperatore in quello che tocca al concilio: il che da lui era creduto, per essersi certificato che dalli prelati spagnoli erano state scritte lettere all’imperatore, con querele del procedere degli italiani e con molti capi di riforma, non essendo verisimile che essi avessero ardito di trattar coll’imperatore se non sapessero la mente del loro re. Disse ancora che il conte di Luna, quando dalli ministri del pontefice gli è stato detto della troppa licenzia presa dalli prelati spagnoli in parlar liberamente, egli rispondesse interrogando che cosa s’averebbe potuto fare se quei prelati avessero detto che cosí sentivano in loro coscienzia. Disse di piú il Commendone che nell’abboccamento che fará col Cardinal di Lorena era d’opinione che fossero per concludere di far proponer dagli ambasciatori le loro petizioni. Raccontò ancora che quella Maestá faceva consultar da teologi le sue petizioni e altre cose spettanti al concilio; che se ben egli e il noncio Delfino avevano usata molta diligenzia, non avevano però potuto penetrare li particolari.
Non passò però molto tempo che quelle ancora vennero a notizia. Imperocché scrisse il gesuita Canisio al general Lainez che l’imperatore era mal animato verso le cose del concilio, e che faceva consultar molti punti per esser risoluto come procedere, quando il papa perseveri in non voler che si proponga riforma, o vero in dar parole sole, contrarie de’ fatti. Fra’ quali uno era, qual sia l’autoritá imperiale nel concilio. Che della consulta era principale Federico Stafilo, confessore della regina di Boemia. Ricercò il Canisio che li fosse mandato uno della Societá, che l’averebbe introdotto in quella consulta, e con quel mezzo s’averebbe scoperto ogni trattazione. Onde, discorso col cardinale Simonetta, risolverono di mandar il padre [Geronimo] Natale, dal quale furono le cose intieramente scoperte. Ed erano gli articoli posti in consulta diciassette, e furono questi:
I. Se il concilio generale, legittimamente congregato col favor dei principi, nel progresso possi mutar l’ordine che il papa ha determinato che si osservi nel trattar le materie, o vero introdurne un altro modo.
II. Se sia utile alla Chiesa che il concilio debba trattare e determinar le cose sí come è indirizzato dal papa o dalla corte di Roma, sí che non possi né debbia far altrimente.
III. Se morendo il papa in tempo che il concilio sia aperto, l’elezione s’aspetti ai padri del concilio.
IV. Qual sia la potestá di Cesare, vacante la sede romana e aperto il concilio.
V. Se, trattandosi delle cose spettanti alla pace e tranquillitá della repubblica cristiana, dovessero gli ambasciatori de’ prencipi aver voto decisivo, se bene non l’hanno trattandosi dei dogmi della fede.
VI. Se li principi possono revocar li suoi oratori e prelati dal concilio, senza participazione delli legati.
VII. Se il papa possi disciogliere o suspendere il concilio senza la participazione dei principi cristiani, e massime della Maestá cesarea.
VIII. Se sia opportuno che li principi s’intromettano per operare che nel concilio siano trattate le cose piú necessarie e ispedienti.
IX. Se li oratori de’ principi possino per loro medesmi esponer alli padri quelle cose che li loro principi commettono che siano esposte.
X. Se si può trovar modo che li padri, cosí mandati dal papa come dai principi, siano liberi nel dire li loro voti in concilio.
XI. Che cosa si possi fare, acciò il papa e la corte romana non s’intromettino ordinando quello che s’ha da trattare in concilio, acciò la libertá dei padri non sia impedita.
XII. Se si può trovar modo che non sia fatta fraude o violenzia o estorsione nel prononciar le sentenzie dei padri.
XIII. Se si può trattar cosa alcuna, sia dogma o cosa spettante alla reforma della Chiesa, che non sia prima discussa dai periti.
XIV. Che rimedio si potrebbe trovare, quando li prelati italiani continuassero nell’ostinazione di non lasciar risolvere le cose.
XV. Che rimedio si potrá trovare, acciò li prelati italiani non faccino conspirazioni insieme, occorrendo parlar dell’autoritá del papa.
XVI. Come si possino rimover le pratiche per venir ad una determinazione dell’articolo della residenzia.
XVII. Se è cosa condecente che la Maestá cesarea intervenga personalmente in concilio.
Ma in Roma si fece longa e seria consulta se dovevano ammetter che le petizioni de’ francesi fossero proposte; e non tanto era in considerazione quello che importassero in loro medesme, quanto le conseguenze. Imperocché, considerando quello che dal Ferrier era stato detto nell’orazione, cioè che le petizioni esibite erano le piú leggieri, e li restavano a dimandare cose piú gravi, da questo facevano giudicio che, non avendo li francesi fatte quelle dimande perché desiderassero ottenerle, mirassero a questo fine: di entrar per quella strada in possesso di proporre l’altre che avevano in animo, e che aperta la porta per quelle che chiamavano leggieri, non li potesse esser negato ogni altro tentativo. Per questi e altri rispetti fu risoluto di scrivere alli legati che assolutamente non si proponessero, né fosse data negativa libera, ma interponessero dilazione a proporle: e furono anco scritti li modi che dovevano usare. E nell’istesso tempo uscí da Roma una scrittura d’incerto autore in risposta sopra di quelle proposte, la qual immediate fu disseminata in Trento e alla corte dell’imperatore. Con queste provvisioni fu creduto in Roma d’aver dato buon ripiego alle instanze de’ francesi.
Ma era maggiormente stimata dal pontefice la novitá, instituita alla corte dell’imperatore, di consultare cose a lui tanto pregiudiciali, sapendo molto bene che la dignitá pontificia si conserva con la riverenza e certa persuasione de’ cristiani che non possi esser posta in dubbio; ma quando il mondo incominciasse ad esaminar le cose, non mancarebbono ragioni apparenti per turbare li buoni ordini. Osservava che in simili occasioni da’ suoi precessori erano stati adoperati rimedi gagliardi; e che in occasioni tali, dove si tratta il fondamento della fede, ha luoco quel precetto di opporsi gagliardamente alli principi; e che come nelle rotte de’ fiumi, non ovviando alle minime aperture degli argini, non si può tener la piena, cosí quando si fa minima apertura contra la potestá suprema, sono portate con facilitá all’estremo precipizio. Era consegnato di scrivere all’imperatore un risentito breve (come fece Paulo III all’imperator Carlo per causa delli colloqui di Spira), e arguir Cesare che in quei articoli volesse metter in dubbio le cose chiarissime; e con un altro breve riprendere li conseglieri che l’avessero a ciò persuaso; e ammonir li teologi, che vi sono intervenuti, a farsi assolvere dalle censure. Ma, ben pensato, considerò esser differente lo stato delle cose da quello che fu sotto Paulo: prima, perché allora la disputa fu pubblica, che questa era secreta e trattata quasi in occulto e con cura che non si sapesse, onde egli anco poteva dissimular la notizia; e se l’avesse pubblicata, e fosse continuata dopo la sua reprensione, si metteva a maggior pericolo; che a Carlo conveniva star unito col papa per non sottomersi alli principi tedeschi, ma questo imperatore era giá quasi soggetto; e finalmente che poteva differire il rimedio arduo, essendo sempre a tempo di farlo, e fra tanto, dissimulando, veder d’impedire obliquamente la resoluzione delle consulte che si facevano, con mandar a quella Maestá il Cardinal di Mantoa.
Della scrittura che andò intorno contra le petizioni francesi, non solo ne sentirono disgusto essi, e l’ebbero per affronto, ma all’imperator medesimo dispiacque assai. E li legati, ricevuta la commissione da Roma sopra di quelle, restarono poco sodisfatti, parendo loro che quello non fosse modo di dar commissione a presidenti di un concilio, ma piú tosto avvertenze a ministri, da servirsene in trattar per via di negoziazione. Rescrissero solamente richiedendo quello che dovessero far se li cesarei facessero istanza per la proposta delle loro; e fecero che Gabriel Paleotto, auditor di rota, scrivesse una piena informazione delle difficoltá, qual mandarono. Il Cardinal di Mantoa non giudicò che, avendo l’imperator detto a Commendone che averebbe mandato risposta al concilio per un suo ambasciatore, fosse cosa conveniente che egli vi andasse prima che intender quella resoluzione; oltre che l’esser giá Lorena alla corte imperiale, e non sapersi ancora l’effetto della sua negoziazione, rendeva incerto il modo che dovesse esser da lui tenuto. Con queste ragioni si scusò col pontefice, al quale oltre di ciò scrisse di propria mano che non aveva piú faccia di comparer in congregazione per dar solamente parole, come aveva fatto due anni continui. Che tutti li ministri de’ prencipi dicevano che, se bene Sua Santitá promette cose assai della riforma, non vedendosene esecuzione alcuna, non credono che ella vi abbia l’animo veramente inclinato; il quale se corrispondesse alle promesse, non averiano potuto li legati mancare di corrisponder alle instanzie di tanti principi. Né alcun debbe maravigliarsi che questo cardinale, principe versato per cosí lunghi anni in molti grandi affari e compitissimo nella conversazione, facesse questo passaggio, essendo cosa naturale degli uomini vicini alla morte, per certa intrinseca causa e incognita anco a loro medesmi, il disgustarsi delle cose umane e posporre le pure ceremonie. Al qual segno era molto prossimo, non li rimanendo di vita, dal dí della data di questa, se non sei giorni.
Ma nelle congregazioni l’ultimo che parlò nella seconda classe fu frate Adriano dominicano, il quale, toccata leggerissimamente la materia, tutto si estese in parlar delle dispense e in defender con forme e termini teologici le cose dal dottor Cornelio toccate, delle quali si parlava con qualche scandolo. Disse che l’autoritá di dispensare nelle leggi umane era nel papa assoluta e illimitata, essendo egli superior a tutte; e però, quando ben senza causa alcuna dispensasse, conveniva tener la dispensa per valida: ma che nella legge divina aveva parimente l’autoritá di dispensare, con causa legittima però. Allegò san Paulo, che disse li ministri di Cristo «esser dispensatori dei misteri di Dio»; e che ad esso apostolo era stata commessa la dispensa dell’Evangelio. Soggionse che, se ben la dispensa del pontefice sopra la legge divina senza causa è invalida, nondimeno quando il papa per qualsivoglia causa dispensa, ognun debbe cattivar la mente sua e credere che quella causa sia legittima, e che il metterlo in dubbio è una temeritá. Discorse poi delle cause della dispensa, le quali ridusse alla pubblica utilitá e alla caritá verso li privati. Fu questo ragionamento occasione alli francesi di parlar della medesma materia con mala sodisfazione dei pontifici.
Finita la seconda classe, per servar la promessa fatta a Lorena di non trattar in sua assenza del matrimonio de’ preti, mutato l’ordine, si parlò sopra la quarta. Gioanni [di] Verdun, trattando l’articolo settimo dei gradi di affinitá e consanguinitá, passò esso ancora immediate alle dispense, e parve che non avesse altra mira che di contradire a frate Adriano, atteso a debilitare la potestá del pontefice. Prima dechiarò li luochi di san Paulo, che li ministri di Cristo sono dispensatori dei misteri di Dio e dell’Evangelio, dicendo che era glosa contraria al testo l’introdurre in quel luoco dispensa, cioè disubbligazione dell’osservar la legge, ma che altro non significava se non un annonciar, pubblicar o dechiarar li misteri divini e la parola di Dio, che è perpetua e resta inviolabile in eterno. Concesse che nelle leggi umane cadeva la dispensa per la imperfezione del legislatore, il quale non può preveder tutti li casi, e, facendo la legge universale, per le occorrenze che portano le eccezioni ha bisogno di riservare, a chi governa la repubblica, un’autoritá di provveder ai casi particolari. Ma dove Dio è legislatore, al quale nessuna cosa è occulta e nessun accidente può avvenir non preveduto, la legge non può aver eccezione: però la legge divina naturale non si ha da distinguere in legge scritta, la qual per il rigore in alcuni casi debbia esser interpretata e indolcita, ma essa medesma è la equitá. Nelle leggi umane, dove alcuni casi per li particolari accidenti (se fossero stati preveduti dal legislatore) non sarebbono compresi nella legge, nasce la dispensa: non che il dispensatore possi in caso alcuno liberar quello che è obbligato; né meno se alcun merita la dispensa, ed egli la neghi, colui però resta sotto l’obbligo. Esser un’opinione perversa persuasa al mondo che il dispensare sia far una grazia; la dispensa è cosí ben giustizia come qualunque altra distributiva, che pecca il prelato che non la dá a chi si debbe, e se la dá a chi non debbe. E in somma disse: quando una dispensa è richiesta, o siamo in caso che, se fosse stato previsto quando la legge si fece, sarebbe stato eccettuato, e qui vi è obbligo di dispensare, eziandio non volendo; o siamo in caso che, preveduto, sarebbe stato compreso, e qui non si estende potestá dispensatoria. Soggionse l’adulazione, l’ambizione e l’avarizia aver persuaso che il dispensare sia far grazia, come farebbe un patrone ai servi, o vero uno che doni il suo. Il papa non è un patrone e la Chiesa serva, ma egli è servo di quello che è sposo della Chiesa, e preposto da lui sopra la fameglia cristiana per dar, come dice l’Evangelio, a ciascuno la propria misura, cioè quello che gli è debito. E replicò finalmente non esser altro la dispensa che una dechiarazione o interpretazione della legge; e il pontefice col suo dispensare non poter disubbligar alcun ubbligato, ma dechiarar solamente al non ubbligato che egli è esente dalla legge.
Ritornò il Cardinal di Lorena a Trento il penultimo di febbraro, dopo essersi fermato cinque giorni in Inspruc, nelli quali fu in continua negoziazione con Cesare, col re de’ romani e con li ministri imperiali. E arrivato, trovò lettere del papa, dove li diceva voler la riforma, e che non si differisse piú; e per attenderci si dovessero levar via le parole delli decreti dell’ordine che erano in difficoltá. Le quali lettere il cardinale a studio pubblicò per Trento, dove era noto appresso tutti che li legati avevano commissione contraria. Immediate dalli pontifici in Trento fu usata ogni diligenzia per investigare (dalli prelati e altri che furono in sua compagnia) il negozio del cardinale, e in particolare procuravano d’intendere qualche resoluzione presa sopra li diciassette articoli; avendo il conte Federico Maffei, venuto d’Inspruc il giorno inanzi, riferito che quel cardinale era stato ogni giorno retirato a parlamento coll’imperatore e re de’ romani, soli almeno due ore intiere. Ma li francesi, quanto agli articoli, si mostrarono novi e di non saperne niente: dissero che nessun delli teologi germani aveva trattato col cardinale se non il Stufilo, che li presentò un libro fatto da lui in materia di residenza, e il Canisio, quando andò a vedere il collegio de’ gesuiti; che li teologi non avevano parlato all’imperatore, se non che, andati a veder la biblioteca, sopraggionsero insieme Cesare col re suo figlio, e l’imperatore dimandò loro quello che sentissero circa la concessione del calice; a cui rispose l’abbate di Chiaraval, primo di loro, che non sentiva potersi concedere; e l’imperator voltato al re de’ romani disse in latino quel verso del salmo: «Quarantanni ho trattato con questa generazione, e gli ho sempre trovati star in error per volontá».
Ma Lorena nel visitar li legati non disse altro, salvo che mostrò l’imperatore aver buona mente e caldo zelo verso le cose del concilio, e desiderare che segua qualche frutto; e che, bisognando, v’interveniria in persona, e anderebbe anco a Roma a pregar il papa che avesse compassione alla cristianitá e si contentasse della riforma, senza diminuzione della sua autoritá, alla quale portava somma reverenzia, non volendo che si parlasse cosa alcuna toccante la Santitá sua e la corte romana. Ma privatamente ad altri parlando, il Lorena aggiongeva che, quando il concilio fosse stato governato con quella prudenza che conveniva, averebbe avuto presto e felice successo; che l’imperator era d’animo che onninamente si facesse una buona e gagliarda riforma, la quale se il papa seguirá di attraversare, come sin allora era avvenuto, riuscirá qualche gravissimo scandolo; che Sua Maestá aveva pensiero, se il pontefice fosse andato a Bologna, di andar a trovarlo, con disegno di ricever la corona dell’Imperio; e altre cose tali.
Non è da metter in dubbio che il Cardinal parlasse delle cose del concilio e informasse Cesare del li disordini che passavano, e dicesse il parer suo intorno alli rimedi per opporre alla corte di Roma e alli prelati italiani di Trento, per ottenere nel concilio la comunion del calice, il matrimonio de’ preti, l’uso della lingua volgare nelle cose sacre e relassazione d’altri precetti de iure positivo, e la reforma nel capo e nei membri, e il modo di fare che li decreti del concilio fossero indispensabili; e in qual maniera, non potendolo ottenere, si potesse pigliar colorata occasione di giustificare le azioni loro e pretender causa di provveder da se medesimi alli bisogni de’ suoi populi, con far qualche concilio nazionale, tentando anco di unir li germani e francesi nelle cose della religione. Ma non fu questa sola la negoziazione sua: egli trattò anco il matrimonio tra la regina di Scozia e l’arciduca Ferdinando figliuolo dell’imperatore, e quello d’una figliuola di Sua Maestá con il duca di Ferrara; e di trovar modo di componer le differenze di precedenzia di Francia e di Spagna, che, come cose domestiche, toccano li principi piú intrisecamente che le pubbliche.
Ma dopo il ritorno di Lorena, seguendosi le congregazioni, Giacomo Alano, teologo francese, entrò parimente nella materia delle dispense. Disse che l’autoritá di dispensare era data alla Chiesa immediate da Cristo, e che dalla Chiesa era distribuita alli prelati, come faceva bisogno secondo li tempi, luochi e occasioni. Innalzò in sommo l’autoritá del concilio generale che rappresenta la Chiesa, e sminuí quella del pontefice, aggiongendo che al concilio generale pertiene allargarla o restringerla.
Il 2 marzo il Cardinal di Mantoa, dopo esser stato pochi giorni ammalato, passò ad altra vita: che fu causa di molte mutazioni nel concilio. Li legati ispedirono immediato avviso al pontefice; al quale Seripando, che restava primo legato, oltra la littera comune, scrisse in particolare che averebbe caro che Sua Santitá mandasse un legato suo superiore, che avesse cura del concilio, o veramente lo levasse lui; e pure quando lo volesse lasciar primo legato, giudicava necessario che si fidasse che egli averebbe operato secondo che il Signor Iddio lo inspirasse, altrimenti meglio sarebbe assolutamente levarlo. Varmiense ancora scrisse a parte che la chiesa sua aveva gran bisogno della presenza del pastore, e vi s’introduceva la comunione del calice e altri notabili abusi, richiedendo licenza d’andar per provvedervi; e che vi era bisogno generalmente in tutta Polonia di persona che contenesse il rimanente di quei popoli in obedienzia; che egli porterebbe maggior servizio alla sede apostolica in quelle bande, che stando in concilio. Ma Simonetta, desideroso che la somma di guidar il concilio restasse a lui, e avendo speranza di condurlo bene con satisfazione del pontefice e onor proprio, considerando che Seripando era saziato di quel negozio e poco inclinato a voler guidare, e che varmiense era semplice persona, disposta a lasciarsi reggere, mise in considerazione al pontefice che, ritrovandosi le cose del concilio in poco buon stato, ogni novitá gli averebbe dato maggior crollo, e però giudicava che si dovesse seguir senza mandar altri legati, promettendo buona riuscita.
In quei giorni gionse avviso da Roma che, dovendosi proporre in rota una causa del vescovo di Segovia, fu ricusato di riceverla, e da uno degli auditori fu detto al procurator del vescovo che il suo principale era suspetto d’eresia; il che mise gran moto non solo nelli spagnoli, ma in tutti gli oltramontani, querelandosi essi che in Roma si levassero calunnie e note sinistre contra quelli che non aderivano in tutto e per tutto alle loro voglie.
Il giorno 4 marzo si diede principio a parlar sopra la terza classe. E quanto al quinto articolo tutti furono conformi che fosse eretico e dannabile: del sesto parimente non vi fu differenzia: tutti convennero che fosse eresia. Vi fu disparere, perché una parte diceva che, quantunque tra la chiesa orientale e occidentale vi fosse differenzia (perché questa non ammetteva al sacerdozio e agli ordini sacri se non persone continenti, e quella ammetteva anco li maritati), nondimeno nessuna Chiesa mai concesse che li sacerdoti si potessero maritare; e che questo s’ha per tradizione apostolica, e non per ragion del voto, né per alcuna constituzione ecclesiastica; e però che conveniva dannar per eretici assolutamente tutti quelli che dicevano esser lecito ai sacerdoti maritarsi, senza restringersi agli occidentali, e senza far menzione né di voto né di legge nella Chiesa: e questi non concedevano che si potesse per causa alcuna dispensare li sacerdoti al matrimonio. Altri, dicendo che il matrimonio era vietato a due sorti di persone, e per due diverse cause: alli chierici secolari per l’ordine sacro, per legge ecclesiastica, e alli regolari per il voto solenne; che la proibizione del matrimonio per constituzione della Chiesa può esser dal pontefice levata, e restando anco quella in piedi, il pontefice può dispensarvi, allegavano gli esempi delli dispensati e l’uso dell’antichitá, che se un sacerdote si maritava, non separavano il matrimonio, ma solo lo rimovevano dal ministerio; il che fu continuamente osservato sino al tempo d’Innocenzo II, quale primo di tutti li pontefici ordinò che quel matrimonio s’avesse per nullo. Ma per quel che tocca li ubbligati alla continenzia per voto solenne, essendo questo de iure divino, dicevano non poter il pontefice dispensarvi. Allegavano in ciò il luoco d’Innocenzo III, il quale affermò che l’osservazione della castitá e l’abdicazione della proprietá sono cosí aderenti agli ossi de’ monaci, che manco il sommo pontefice può dispensarci; soggiongendo appresso l’opinione di san Tomaso e d’altri dottori, li quali asseriscono che il voto solenne è una consecrazione dell’uomo a Dio: e non potendo alcun fare che la cosa consecrata possi ritornar agli usi umani, non può parimente fare che il monaco possi ritornare all’uso del matrimonio; e che tutti li scrittori cattolici condannano de eresia Lutero e li seguaci, per aver detto che il monacato è invenzione umana; e asseriscono che sia di tradizione apostolica, a che diametralmente repugna il dire che il pontefice possi dispensare.
Altri defendevano che anco con questi poteva il pontefice dispensare, e si maravegliavano di quelli che, concedendo la dispensa dei voti semplici, negavano quella dei solenni, quasi che non fosse chiarissimo, per la determinazione di Bonifacio VIII, che ogni solennitá è de iure positivo, valendosi appunto del medesimo esempio delle cose consecrate per provar la loro sentenzia. Perché sí come non si può far che una cosa consecrata, rimanendo consecrata, sia adoperata ad usi umani, ma ben si può levar la consecrazione e farla profana, onde lecitamente torni ad ogni uso promiscuo, cosí l’uomo consecrato a Dio per il monacato, restando consecrato non può applicarsi al matrimonio; ma levatoli il monacato e la consecrazione che nasce dalla solennitá del voto, la qual è de iure positivo, niente osta che non possi usar la vita comune degli uomini. Adducevano luochi di sant’Agostino, da’ quali manifestamente appare che nel suo tempo qualche monaco si maritava; e se ben era stimato che facendolo peccasse, nondimeno il matrimonio era legittimo, e sant’Agostino reprende quelli che lo separavano.
Si trascorse a parlar se fosse bene in questi tempi dispensare, o vero levar il precetto della continenzia ai sacerdoti. E questo perché il duca di Baviera, avendo mandato a Roma per ricercar dal pontefice la comunione del calice, aveva insieme richiesto che fosse concesso alli maritati di poter predicare, sotto il qual nome s’intendeva tutto il ministerio ecclesiastico esercitato dai parrochi nella cura d’anime. Furono dette molte ragioni a persuadere che fosse concesso, le quali si risolvevano in doi: nel scandalo che davano li sacerdoti incontinenti, e nella penuria di persone continenti, atte ad esercitare il ministerio. Ed era in bocca di molti quel celebre detto di papa Pio II: «che il matrimonio per buona ragione fu levato dalla chiesa occidentale ai preti, ma per ragione piú potente conveniva renderglielo». Da quelli di contrario parere si diceva che non è da savio medico guarir un male con causarne un peggiore: se li sacerdoti sono incontinenti e ignoranti, non per questo si ha da prostituir il sacerdozio nelli maritati. E qui erano allegati tanti luochi de’ pontefici, li quali però non lo permisero, che dicevano esser impossibile attender alla carne e allo spirito, essendo il matrimonio un stato carnale. Che il vero rimedio era con l’educazione, con la diligenzia, con li premi e con le pene provveder continenti e litterati per questo ministerio; ma tra tanto per rimedio della incontinenzia non ordinare se non persone provate di buona vita, e per la dottrina far stampare omiliari e catechismi in lingua germanica e francese, formati da uomini dotti e religiosi, li quali s’avessero da legger al populo cosí de scripto e col libro in mano dalli sacerdoti imperiti; col qual modo li parrochi, se ben insufficienti, potrebbero satisfar al populo.
Furono biasmati li legati d’aver lasciato disputare questo articolo, come pericoloso, essendo cosa chiara che coll’introduzione del matrimonio de’ preti si farebbe che tutti voltassero l’affetto e amor loro alle mogli, figli, e per consequente alla casa e alla patria, onde cesserebbe la dependenzia stretta che l’ordine clericale ha con la sede apostolica; e tanto sarebbe conceder il matrimonio ai preti, quanto distrugger la ierarchia ecclesiastica e ridar il pontefice che non fosse piú che vescovo di Roma. Ma li legati si scusavano che, per compiacer il vescovo di Cinquechiese (il qual aveva richiesto questo non solo per nome del duca, ma dell’imperatore ancora), e per render li cesarei piú facili a non far grand’insistenzia sopra la riforma, che piú importava, erano stati costretti compiacerlo.
Li francesi, veduto che l’opinione piú comune era che un prete potesse esser dispensato al matrimonio, si congregarono insieme per consultare se era opportuno dimandar la dispensa per il Cardinal di Borbone, come Lorena e gli ambasciatori avevano in commissione; e Lorena fu di parer di no, con dire che senza dubbio nel concilio vi sarebbe difficoltá nel persuadere che la causa fosse ragionevole e urgente, poiché per aver posteritá non era necessario, essendo il re giovine, con doi fratelli e altri principi del sangue cattolici; e per aver governo, mentre il re pervenisse alla maggioritá, lo poteva far restando nel clero. Che per differenzie che sono tra francesi e italiani, cosí per causa della riforma come per l’autoritá del papa e dei vescovi, quelli che tenevano opinioni contrarie alle loro studiosamente si sarebbono opposti anco a questa dimanda; che meglio era voltarsi al papa, o vero aspettar miglior occasione; ed esser assai per quel tempo l’operare che non sia stabilita dottrina che possi pregiudicarvi. Fu stimato da alcuni che Lorena nel suo interno non avesse caro che Borbon si maritasse, perché potesse ciò succedere con emulazione e diminuzione di casa sua; ma ad altri non pareva verisimile: prima, perché per questa via si levava ogni speranza a Condé, del quale egli molto piú si diffidava: anzi che il passar Borbon allo stato secolare fosse sommamente desiderato da esso Lorena, il qual, levato Borbone dal clero, sarebbe restato il primo prelato di Francia, e in occasione di patriarca (che egli molto ambiva) sarebbe a lui indubitatamente toccato; dove che essendo Borbon prete, non era possibile pensar di farlo posporre.
Ma il pontefice, ricevuto l’avviso della morte di Mantoa, avendo fra se stesso e con pochi delli piú intimi pensato che fosse necessario mandar altri legati, li quali, novi e non interessati in promesse e in trattazioni, potessero seguir piú facilmente la sua instruzione, la mattina delli 7 marzo, dominica seconda di quadragesima, senza intimar congregazione, come è sempre solito di fare, ma congregati li cardinali nella camera dei paramenti per andar alla cappella secondo il solito, si fermò, ed esclusi li cortigiani e fatte serrar le porte, creò legati li cardinali Gioanni Morone e Bernardo Navagero, acciocché per uffici de’ prencipi o cardinali non fosse costretto nominar persone di non intiero suo gusto. Credeva il pontefice far quell’azione secretamente da tutti, ma nondimeno non potè tanto fare che non pervenisse alle orecchie dei francesi; e il Cardinal della Bourdisiera tanto s’affaticò, che volle parlar al pontefice inanzi che discendesse dalla sua camera, e li considerò con molte ragioni che, volendo crear novi legati, non poteva dar quel carico a persona piú degna che al Cardinal di Lorena. Ma il papa, risoluto, e che sentí con dispiacere non aver potuto ottener la secretezza che desiderava, gli rispose liberamente che il Cardinal di Lorena era andato al concilio come capo d’una delle parti pretendenti, e che egli voleva deputar persone neutrali e senza interessi. A che opponendosi per rispondere il cardinale, il pontefice affrettò il passo e descese cosí presto, che non vi fu tempo da dar risposta. Finita la congregazione, il papa lasciò andar li cardinali alla cappella, ed esso ritornò nella sua camera, per non restar in cerimonia in tempo quando era alterato gravemente per le parole di quel cardinale.
Ma in Trento il 9 di marzo arrivò avviso che il duca di Ghisa, fratello del Cardinal di Lorena, nel tornare dalla trincea sotto Orliens fu ferito d’un’archibugiata da Giovanni Poltroto, gentiluomo privato della religione riformata, della qual archibugiata sei giorni dopo era morto, con dispiacere di tutta la corte; e che dopo la ferita aveva esortato la regina a far la pace, e detto apertamente esser inimico del regno quello che non la voleva. L’omicida, interrogato dei complici, nominò l’armiraglio Coligni e Teodoro Beza, e dopo scolpò Beza, perseverando nell’incolpar l’altro. Variò poi ancora, in maniera che lasciò incerto quello che si dovesse credere. Ma il Cardinal, ricevuta la nova, si provvide di maggior guardia attorno di quella che soleva tenere; e composto l’animo dal dolore della morte d’un fratello cosí congionto con lui, prima d’ogn’altra cosa scrisse una lettera consolatoria alla madre comune, che era Antonietta di Borbon, piena di esquisiti concetti, da comparare e, come li suoi dicevano, da anteporre a quei di Seneca; in fine della quale aggionse esser deliberato di andarsene alla sua chiesa a Reims, e il rimanente di vita che gli restava consumarlo in predicar la parola di Dio, instruir il suo popolo e educar li figli del fratello nella pietá cristiana; né da questi uffici cessar mai, se non quando il regno per le cose pubbliche avesse bisogno dell’opera sua. E la lettera non fu cosí presto da Trento partita, che quella cittá fu piena di copie di quella, che erano piú tosto importunamente offerte dalli familiari del cardinale a ciascuna persona, che richieste: tanto è difficile che l’affetto della filautia stia quieto, se ben in occasione di gran dolore! Dopo questo il cardinale, postosi a pensare allo stato delle cose sue, per quella variazione successa mutò tutti li disegni suoi, che fu anco causa di far mutar il filo dove parevano inviate le cose del concilio. Perché essendo egli il mezzo per il quale l’imperatore e la regina di Francia avevano sin allora operato, furono costretti questi ancora, mancando d’un ministro cosí atto, ad andar piú rimessi nelli disegni loro e a proceder piú rallentatamente. Ma nelli negozi umani avviene quello che nelle fortune del mare, dove, cessati li venti, le onde ancora tumultuano per qualche ore. Cosí la gran mole dei negozi del concilio non potè facilmente redursi a tranquillitá, per l’impeto preso. Ma della quiete, che successe qualche mese dopo, certa cosa è che la morte di quel duca ne fu un gran principio, massime dopo che si aggionse la morte dell’altro fratello, che era il gran priore di Francia, e pochi giorni dopo la nova della pace fatta con gli ugonotti, e finalmente le instanze della regina al cardinale, che dovesse rendersi benevolo il papa e ritornar in Francia: delle quali a suo luoco si dirá. Per le qual cose il Cardinal vidde che li negozi inviati non sarebbono stati utili né per sé né per gli amici suoi.
Tanto in Trento quanto in Roma fu sentita con dispiacere la morte di Ghisa, reputando ognuno che egli fosse l’unico sostentamento della parte cattolica nel regno di Francia, né vedendosi qual altra persona potesse succederli in sopportar quel peso, massime essendo ognuno spaventato per l’esempio della sua morte. E li prelati francesi in concilio si trovavano in ansietá, intendendo che si trattava l’accordo con ugonotti, quali tra le altre cose pretendevano che la terza parte delle rendite ecclesiastiche fossero per mantenimento del li ministri reformati.