Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo III
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CAPITOLO III
(29 giugno -14 luglio 1563).
[Risorge piú grave la questione di precedenza tra il conte di Luna e gli ambasciatori francesi. Lettera del Lorena al papa, contro il quale gli ambasciatori francesi preparano e diffondono una vivacissima protesta. La questione viene sopita. — Ad affrettare i lavori del concilio si omettono le questioni piú contrastate: l’istituzione dei vescovi e l’autoritá del papa. — Proposta del decreto di riforma degli abusi dell’ordine. — Sulla professione di fede da farsi dai vescovi avanti l’elezione. — Ancora sulla gerarchia ecclesiastica de iure divino. — Delle funzioni spettanti ai diversi ordini. — Non senza contrasti e riserve, specialmente da parte degli spagnoli, i decreti vengono approvati in congregazione.]
Dopo che il papa disgustò gli spagnoli, non avendo dato luoco all’ambasciator in Roma, per acquietarli ascoltò la richiesta di Vargas, che per piú giorni assiduamente l’aveva molestato con instanzia che, sí come s’era trovato modo come il conte ambasciator del suo re in Trento potesse intervenire nelle congregazioni, cosí, approssimando il tempo di celebrare la sessione, la Santitá sua trovasse via come potesse intervenirvi. Sopra la qual cosa avendo molto pensato e consultato con li cardinali, finalmente venne in resoluzione che anco nella sessione fosse dato al conte di Luna luoco separato dagli altri ambasciatori; e per rimediar alla competenzia che sarebbe stata nel dar l’incenso e la pace, si usassero due turibuli e fossero incensati li francesi e lo spagnolo tutti in una volta, e parimente fossero portate due paci a basciar a questi e a quello tutt’in un instante; e cosí scrisse alli legati che eseguissero, ordinando loro che il tutto tenessero secretissimo sino al tempo dell’esecuzione, acciò, risaputosi, non fossero preparate qualche inconvenienzie. Il Cardinal Morone, seguendo il comandamento del papa, tenne secreto l’ordine, che li francesi mai lo penetrarono.
Il dí 29 giugno, giorno di san Pietro, congregati nella cappella del domo li cardinali, ambasciatori e padri, e incominciata la messa, qual celebrò il vescovo d’Aosta, ambasciator del duca di Savoia, alla sprovvista uscí di sagrestia una sedia di velluto morello; e fu posta tra l’ultimo cardinale e il primo de’ patriarchi, e quasi immediate comparve il conte di Luna ambasciator spagnolo, e sedette in quella sedia. Si eccitò per questo gran mormorazione di ciascuno delli padri con li vicini. Il Cardinal di Lorena si lamentò con li legati dell’atto improvviso e celato a lui: li ambasciatori francesi mandarono il maestro delle ceremonie a far ristesse indoglienze, mettendo in considerazione le ceremonie dell’incenso e della pace. A che rispondendo li legati che si sarebbe rimediato con due turibuli e due paci, li francesi non si contentarono, ma apertamente dissero voler esser conservati non in paritá, ma in precedenza, e che d’ogni novitá averiano protestato, e partitisi dal concilio. Si continuò in queste andate e ritorni sino al fine dell’evangelio, in maniera che per i gran susurri l’epistola e l’evangelio non furono uditi. Andato il teologo in pulpito per far il sermone, si retirarono li legati con li cardinali, ambasciatori dell’imperatore e col Ferrier, uno dei francesi, in segrestia, dove si trattò questa materia; e il sermone finí prima che cosa alcuna fosse conclusa. Nel cantar del Credo, nel mezzo di quello fu inditto silenzio, e il Cardinal Madruccio col Cinquechiese e l’ambasciator di Polonia uscirono a parlar col conte di Luna, e pregarlo per nome delli legati che si contentasse che per allora non fosse dato né incenso né pace ad alcuno, a fine d’impedir il sprovvisto tumulto che potrebbe causar qualche gran male, promettendoli che ad ogni altra sua richiesta eseguirebbono l’ordine di Sua Santitá delli due turibuli e due paci in un tempo; il che facendosi alla pensata, ed egli e loro e tutti averebbono potuto risolver come governarsi con prudenzia. E finalmente dopo longo ragionamento tornarono dentro con la risoluzione, la qual fu che il conte se ne contentava. Con questa deliberazione uscirono tutti di segrestia e tornarono al proprio luoco; e la messa seguí, come si è detto, senza incenso e senza pace. E subito detto: Ite, missa est, il conte di Luna, il qual nelle congregazioni era solito uscire l’ultimo dietro a tutti, allora partí inanzi la croce, seguitato da gran parte dei prelati spagnoli e italiani sudditi del suo re. Partirono dopo li legati, ambasciatori e li prelati rimanenti al modo consueto.
Li legati, per liberarsi dall’imputazione che li era data d’aver proceduto in cosa di tanto momento clandestinamente e quasi con fraude, furono necessitati pubblicar li ordini espressi ricevuti da Roma di dover cosí operare in quel tempo, in quel modo, in quel luoco e senza comunicare. Il Ferrier pubblicamente diceva che, se non fosse stato il rispetto al culto divino, averebbe fatto la protestazione che teniva in commissione dal suo re; la qual per l’avvenire farebbe, quando non si restituissero le solite ceremonie d’incenso e pace, dando loro in quelle il debito luoco. Scrisse anco il cardinale di Lorena al pontefice una lettera assai risentita, esponendo il torto che si trattava di fare al suo re, e modestamente dolendosi che Sua Santitá li avesse fatto dire di confidare tanto in lui, che voleva li fossero comunicate tutte le cose del concilio; del che, se ben non vedeva l’effetto, non se ne doleva; ma ben li premeva che avesse comandato ai legati di non comunicarli le cose sue proprie e quello in che meglio d’ogni altro poteva adoperarsi in bene, aggiongendo non esser seguito tutto il male che sarebbe seguito se esso non si fosse messo in mezzo, soggiongendo che del tutto la colpa era attribuita alla Santitá sua, e pregandolo a non voler esser autore e causa di tanti mali. E li mandò anco in posta il Musotto, per esplicarli piú particolarmente la risoluzione delli ambasciatori francesi e il pericolo imminente. 1Il conte di Luna si lamentava della durezza de’ francesi e magnificava la molta pazienzia e modestia usata da sé; e fece instanzia con li legati che la dominica seguente fosse admesso a luoco e ceremonie uguali, secondo l’ordine del papa. Non mancava anco chi dicesse che il tutto era un stratagemma del pontefice per dissolvere il concilio; e li pontifici, chiamati «amorevoli», dicevano che, se pur s’avesse avuto a venir a dissoluzione, averebbono desiderato che piú tosto fosse occorsa per la controversia che era sopra le parole del concilio fiorentino, «che il papa è rettor della Chiesa universale», stimando che sarebbe stato piú facile giustificarne Sua Santitá e darne tutta la colpa alli francesi.
La mattina seguente, ultimo del mese di giugno, il conte, congregati li prelati spagnoli e molti italiani, disse loro che il giorno inanzi non era andato in cappella per dar occasione alcuna di disturbo, ma per conservar le ragioni del suo re e valersi dell’ordine dato dal pontefice; aver inteso dopo che, quando egli fosse tornato in cappella, i francesi volevano protestare: al qual atto se fossero venuti, egli non averia potuto mancar di risponder loro con li modi e termini che essi usassero, cosí per la parte di Sua Santitá, quanto per quel che tocca alla Maestá del suo re. Quei prelati risposero che, venendosi a questo, ciascuno di loro sarebbe stato pronto nel servizio di Sua Santitá, e non averebbono mancato ancora di tenir conto di Sua Maestá cattolica in quello che a loro si convenisse. Li pregò il conte di novo a star avvertiti a tutto quello che potesse occorrer in tal caso, dicendo che egli ancora ci verria preparato, sapendo che li francesi non potevano pigliar se non tre mezzi: o contro li legati, o contro il re, o contro esso medesmo ambasciatore: a’ quali tutti preparerebbe conveniente risposta. Li ambasciatori delli altri prencipi tutti fecero officio con li legati che dovessero trovar temperamento, acciò non seguisse piú tal disordine. Quali avendo risposto che non potevano restar di eseguir il comandamento del papa, essendo preciso e senza alcuna reservazione, e avendo anco promesso al conte di volerlo fare ad ogni sua richiesta, il Cardinal di Lorena protestò alli legati che, quando volessero farlo, esso anderia in pergolo, e mostreria di quanta importanza fosse questa cosa, e quanta rovina fosse per apportare alla cristianitá tutta; e che con crocifisso in mano grideria: «Misericordia», persuadendo alli padri e al populo di partir di chiesa per non veder un scisma cosí tremendo; e che gridando: «Chi desidera la salute della repubblica cristiana mi segua», partiria di chiesa, con speranza di esser seguito da cadauno. Dal che mossi li legati, deliberarono di far ufficio col conte che si contentasse che la seguente dominica non si tenesse cappella, né si facesse processione secondo il solito. E de tutto diedero avviso al papa.
Si facevano continue congregazioni in casa delli ambasciatori francesi e del spagnolo, il quale ora dava speranza di contentarsi, ora faceva instanza che si dovesse andar in chiesa per eseguir l’ordine del pontefice, dell’incenso e pace. E li ambasciatori francesi erano risoluti di far la protesta e partire; e dicevano apertamente che non protesterebbono contro li legati, per esser meri esecutori, né contra il re di Spagna o il conte suo ambasciatore, perché proseguivano la causa loro, né contra la sede apostolica, la quale erano sempre per onorare, seguendo li vestigi de’ loro maggiori; ma contro la persona del pontefice, dal qual veniva il pregiudicio e l’innovazione, come quello che si era fatto parte e dava causa di scisma, e per altra causa ancora; con appellazione al futuro pontefice legittimamente eletto, e ad un concilio vero e legittimo, minacciando di partire e di celebrar un concilio nazionale. Li prelati e altri francesi a parte dicevano comunemente ad ognuno che li ambasciatori avevano altre proteste contra la persona del pontefice, che si portava per papa, non essendo legittimo per causa di elezione invalida e nulla, per vizio di simonia, accennando particolarmente della polizza quale il cardinale Carafa ebbe dal duca di Fiorenza, con promissione di certa somma de danari (e la quale quel cardinale mandò poi al re cattolico, pretendendo che non potesse esser fatta se non de consenso del pontefice inanzi la sua assonzione), e a quell’altra polizza fatta di mano del papa, allora cardinale in conclave, al cardinale di Napoli, della quale di sopra s’è detto. E il presidente Ferrier preparò un’orazione assai pungente in lingua latina con la protestazione, la qual se ben non fu fatta, è però andata in stampa, e dalli francesi è mostrata, e si mostra tuttavia in stampa come se recitata fosse; della quale il portar la sostanza non è fuori del proposito presente, acciò si vegga non quel che dissero, ma che sensi portarono li francesi al concilio.
Diceva in sostanza che, essendo congregato quel concilio per opera di Francesco e Carlo fratelli, re di Francia, sentivano con molestia essi oratori regi l’esser costretti o a partirsi o acconsentir alla diminuzione della degnitá del re. Che era noto, a chi aveva letto il ius ponteficio e le istorie della chiesa romana, la prerogativa del re di Francia; e a quelli che avevano letto i volumi dei concili, qual luoco avessero tenuto in quelli. Che li ambasciatori del re cattolico nelli passati concili generali avevano seguito quelli del cristianissimo. Che in quel tempo s’era fatta mutazione, non da essi padri, che se fossero in libertá non moverebbono alcun principe dal suo possesso; né la mutazione esser fatta dal re cattolico, congiontissimo in amicizia e parentela col loro re; ma dal padre di tutti li cristiani, che per pane ha dato al figlio primogenito una pietra e per pesce un serpente, per ferir con una pontura insieme il re e la chiesa gallicana. Che Pio IV sparge seme di discordia per sturbar la pace tra li re concordi, mutando per forza e ingiustizia l’ordine del seder li ambasciatori sempre usato, e ultimamente nelli concili di Costanza e lateranense, per mostrar d’esser superior alli concili. Che né egli potrá sturbar l’amicizia delli re, né levar la dottrina delle sinodi di Costanza e Basilea, che il concilio sia sopra il papa. Che san Pietro aveva imparato astenersi dalli giudici delle cose mondane, dove quel suo successore e non imitatore pretendeva dar e levar li onori de’ re. Che per legge divina, delle genti e civile fu tenuto conto del primogenito, e vivendo e morto il padre; ma Pio ricusa preferire il re primogenito agli altri nati molto tempo dopo quello. Che Dio per rispetto di David non volse sminuire la dignitá di Salomone; e Pio IV, senza rispetto dei meriti di Pipino, Carlo, Lodovico e altri re di Francia, con suo decreto pretende levar le prerogative del successore di quelli re. Che contra le leggi divine e umane, senza alcuna cognizione, ha condannato il re, l’ha levato dell’antichissima sua possessione e ha prononciato contra la causa d’un pupillo e vedoa. Che li antichi pontefici, quando la sinodo general era in piedi, mai hanno fatto cosa senza l’approbazione di quella; e Pio ha voluto senza quel concilio, che rappresenta la Chiesa universale, levare di possesso li oratori d’un re pupillo non citato, quali non a lui, ma alla sinodo sono mandati. Che acciò non vi fosse provvisione, ha usato diligenzia acciò il suo decreto non fosse saputo, comandando alli legati in pena di scomunica di tenirlo secreto. Che considerassero li padri se questi sono fatti di Pietro e d’altri pontefici, se essi ambasciatori siano costretti partire da dove Pio non ha lasciato luoco alle leggi né vestigio della libertá del concilio, poiché nessuna cosa è proposta ai padri o pubblicata, se non prima mandata da Roma. Che contra quel Pio IV solamente protestavano, venerando la sede apostolica e il sommo pontefice e la santa chiesa romana, recusando solo di ubidir a quello e averlo per vicario di Cristo. Che quanto ai padri ivi congregati, li averanno sempre in gran venerazione; ma poiché tutto quello che si fa è fatto non in Trento ma in Roma, e li decreti che si pubblicano sono piú tosto di Pio IV che del concilio tridentino, non li riceveranno per decreti di sinodo generale. In fine comandava per nome del re alli prelati e teologi che si partissero, per ritornare quando Dio avesse restituito la debita forma e libertá alli concili generali, e il re avesse ricevuto il debito luoco.
Non vi fu occasione di far la protesta, atteso che, considerando finalmente il conte che, quantonque la parte di Spagna fosse maggior di numero di prelati che la francese, nondimeno li dependenti dal pontefice, li quali sarebbono stati a suo favore nella prima occorrenza (conoscendo il volere di Sua Santitá), passata la prima occasione e sapendo che si era giá spedito a Roma per quella causa, sarebbe stata di parere che si soprassedesse sino alla risposta e a novo ordine (onde gionti con li francesi, la parte sua sarebbe restata piú debole), piegando a contentarsi di qualche composizione, interponendosi tutti li altri ambasciatori e il Cardinal Madruccio, dopo molte difficoltá convennero che nelle ceremonie pubbliche non fosse dato piú né incenso né pace, sino alla risposta del re di Spagna. Il qual accordo dispiacque a molti, parte dependenti dal pontefice e che avevano cara quell’occasione per interromper il progresso del concilio, e parte anco che, sazi di star in Trento, né sapendo veder in che maniera il concilio potesse aver né progresso né fine, desideravano, per manco male, che fosse interrotto, acciò le discordie non si facessero maggiori. Certo è che il medesimo pontefice, avuto l’avviso dell’accordo tra gli ambasciatori, lo sentí male, per il medesimo timore che le discordie non si facessero maggiori e non succedesse qualche male; e li ministri spagnoli, che erano in Italia, tutti biasmavano il conte d’aver lasciato fuggir un’occasione tanto favorevole in servizio del re.
Sedata questa controversia, li legati, intenti al celebrar la sessione, instando il tempo, consultarono quello che si potesse fare per rimovere le differenzie. Fu proposto dal Cardinal di Lorena un partito, di ometter il trattar dell’instituzione de’ vescovi e dell’autoritá del pontefice, come cose nelle quali le parti erano troppo appassionate; e per quel che tocca ai vescovi, non parlar d’altro se non di quanto che s’aspetta alla potestá dell’ordine. Il che ad alcuni delli pontifici pareva buon rimedio, altri di loro non l’approvavano, dicendo che ciò sarebbe stato attribuito al pontefice, al qual non fosse piaciuto la formola ultimamente drizzata; e li principi averebbono potuto pigliar ammirazione perché la Santitá sua non sia restata contenta, essendogli attribuita la medesima potestá che aveva san Pietro; il che averebbe anco dato materia agli eretici di dire; oltre che gli spagnoli e francesi prenderebbono occasione di sperar poco che all’avvenire si potesse concordar insieme in cosa alcuna, dal che nasceriano infinite difficoltá ancora nelle altre materie; oltre che restava dubbio se il partito potesse sortir effetto, potendo da buon numero de’ padri esser ricercato che quei capi non fossero omessi, ma fossero dechiarati. Il Cardinal di Lorena offerí che dalli francesi non sarebbe altro ricercato, e di adoperarsi con li spagnoli che essi ancora cosí si contentassero, soggiongendo che quando li legati avessero fatto il medesimo con li italiani, che troppo affettatamente si opponevano agli altri, il tutto si sarebbe composto.
E opportunamente andò ordine dall’imperatore alli ambasciatori suoi che facessero ogni ufficio, acciò nel concilio non si parlasse dell’autoritá del papa: il che da quella Maestá fu fatto, vedendo che la disposizione della maggior parte era per amplificarla, e temendo che non fosse determinato qualche cosa, la qual facesse piú difficile la concordia de’ protestanti. Il qual ufficio essendo fatto dagli ambasciatori con li legati e col Cardinal di Lorena e con altri prelati principali, fu causa che si risolvesse d’omettere e quel capo e quello dell’instituzione de’ vescovi. Dopo che per questo furono fatte molte consultazioni, introducendo a quelle li prelati piú principali e di maggior seguito, ora in maggior, ora in minor numero, per disponer le cose in modo che tutti restassero sodisfatti, furono dati alli padri li decreti di provvisione degli abusi. E intorno al primo capo, che era dell’elezione de’ vescovi, quanto al particolare che li metropolitani avessero da far l’esame delle persone da promover alli vescovati (di che s’è parlato di sopra), si opposero l’ambasciator di Spagna e quel di Portogallo acremente, dicendo che era un sottoponer li re alli prelati loro sudditi, poiché indirettamente se li dava autoritá di reprobare le nominazioni regie. Li ambasciatori francesi, di questo ricercati, mostrarono non curarsi né che si decretasse né che si omettesse; onde li pontifici, che giudicavano cosa in diminuzione dell’autoritá del papa, dicevano che tutto quel capo si poteva omettere, massime che nella sessione quinta pareva che fosse provveduto a quella materia a bastanza. Ma a questo opponendosi altri con gran fervore, fu concluso finalmente di coimun consenso che quel capo si differisse alla seguente sessione, per aver tempo di accomodarlo in maniera che a tutti piacesse, acciò non fosse attraversata per questo la pubblicazione delle cose convenute.
La medesima difficoltá nacque sopra l’ultimo capo delli proposti, dove era prescritta una formula di professione di fede, la qual dovesse esser giurata dalli disegnati alli vescovati, abbazie e altri benefici di cura d’anime, inanzi che si venisse all’esamine loro, essendo connessa con quella della elezione, sí che non si potessero separare. Fu deliberato di differir quel capo ancora. Ma perché fu tanto differito che non si venne a risoluzione di decretarlo, e finalmente tumultuariamente fu rimesso al pontefice, come a suo luoco si dirá, non è alieno dal presente proposito recitarne qui la sostanzia. La qual era che fosse non solo ricercata dalli disegnati alli vescovati e altra cura d’anime, ma ancora con una ammonizione e precetto in virtú d’obedienzia [ordinato a] tutti li principi di qualonque maestá ed eccellenzia di non admetter ad alcuna dignitá, magistrato o ufficio persona, senz’aver prima fatto inquisizione della fede e religione di quella, e senza che abbia prima volentieri e spontaneamente confessati e giurati li capi contenuti in quella formula; la qual a questo effetto comandava anco che fosse tradotta in volgare, e letta pubblicamente ogni dominica in tutte le chiese, acciò potesse esser intesa da tutti. Li capi erano: di ricever tutte le Scritture dell’uno e l’altro Testamento, le quali la Chiesa ha per canoniche, come inspirate da Dio; di riconoscere una santa cattolica e apostolica chiesa, sotto un pontefice romano vicario di Cristo, tenendo constantissimamente la fede e dottrina di quella, atteso che, come indrizzata dallo Spirito santo, non può fallare; di aver in venerazione, come certa e indubitata, l’autoritá dei concili generali, e non revocar in dubbio le cose da quelli una volta ordinate; di creder con fede constante le tradizioni ecclesiastiche ricevute di mano in mano; di seguir il consenso e senso delli padri ortodossi; di ubidir riverentemente alle constituzioni e precetti della santa madre Chiesa; di creder e confessar li sette sacramenti e il loro uso, virtú e frutto, secondo che sino allora la Chiesa ha insegnato, ma sopra tutto che nel sacramento dell’altare vi sia il vero corpo e sangue di Cristo realmente e sustanzialmente sotto le specie di pane e vino, per virtú e potenzia della parola divina proferita dal sacerdote, solo ministro ordinato a questo effetto secondo la instituzione di Cristo, confessando anco che sia offerto nella messa a Dio per li vivi e per li morti in remission dei peccati; e di ricever finalmente e di ritener fermissimamente tutte le cose osservate pia, santa e religiosamente dalli maggiori sino a quel tempo; né lasciarsi movere in alcun conto da quelle, ma fuggir ogni novitá de dogmi come perniciosissimo veneno, fuggendo ogni scisma, detestando ogni eresia e promettendo di assister pronta e fedelmente alla Chiesa contra tutti gli eretici.
Risoluto di lasciar da canto anco questo capo, come si è detto, si attese ad accomodar il capo della residenza, levato via tutto quello che potesse dispiacere a chi la teneva de iure divino e a chi de positivo. Il Cardinal di Lorena s’adoperò con grandissima diligenzia ed efficacia a concordar le parti, risoluto che onninamente la sessione si facesse al tempo determinato. Perché avendo in quei giorni avuto dal pontefice amorevolissime lettere che l’invitavano ad andar a Roma e abboccarsi con lui, e avendo giá deliberato di dar ogni satisfazione alla Santitá sua, era risoluto di darli quella molto desiderata per caparra, cioè di metter fine alle discordie e componer le differenze tra li prelati. Ma quanto all’andar a Roma, rispose parole ambigue, volendo aspettar prima risposta di Francia.
Un altro impedimento, se ben di causa non molto importante, allongava il progresso. Questo era il trattar delle fonzioni degli ordini: di che era proposto un grande e longo capitolo, dove si esplicavano tutte, incominciando dal diaconato sino all’ostiariato. Questo fu, al principio che si formarono li decreti, dalli deputati composto come necessario per opporsi alli protestanti, li quali dicono quegli ordini non esser stati instituiti da Cristo, ma per introdozione ecclesiastica, e che, per esser uffici di buono e ordinato governo, vi sia comodo e bisogno di loro, ma non siano sacramenti. Era il capo del decreto tratto dal Pontificale, prescrivendo le fonzioni di ciascuno, che longo sarebbe riferire e superfluo, potendosi legger nel libro medesimo; e dechiarava oltre ciò il decreto che quelle non possono esser esercitate se non da chi, essendo promosso dal vescovo, ha ricevuto da Dio la grazia e impresso il carattere per poterlo esercitare. Ma quando si fu per stabilirlo, si rincontrò gran difficoltá per resolver una vecchia e vulgata opposizione: che bisogno vi fosse di carattere e potestá spirituale per esercitar atti corporali, come legger, accender candele, sonar campane, quali non solo possono esser cosí ben fatte, ma anco meglio dalli non ordinati che dagli ordinati; e massime dopo che era andato in disuso che ordinati esercitassero quelle fonzioni. Si considerava che si veniva a condannar la Chiesa, quale per tanti anni aveva intermesso l’uso. Era anco difficoltá, volendolo rimettere in piedi, come venir alla pratica; perché conveniva ordinar alli minori non putti, ma uomini, per serrar la chiesa, sonar le campane, scongiurar inspiritati; il che facendo, si opponeva a quell’altro decreto che li minori ordini fossero gradi necessari alli maggiori. Del diaconato ancora non si vedeva modo come restituirli li tre uffici: ministrar all’altare, battezzare e predicare. Similmente dell’ordine degli esorcisti, come quell’officio potesse esser da loro esercitato, essendosi introdotto per uso che da soli sacerdoti siano li spiritati scongiurati. Antonio Agostino, vescovo di Lerida, era di parere che si lasciasse in tutto e per tutto quella trattazione, dicendo che, sí come certa cosa era che questi fossero ordini e sacramenti, tuttavia difficilmente s’averebbe persuaso che nelle chiese primitive, quando pochissimi erano li cristiani, fossero introdotti; che non era dignitá della sinodo descender a tanti particolari; che bastava dire gli ordini minori esser quattro, e non descender a maggior specialitá di dottrina, e in pratica non far alcuna novitá. A questo s’opponeva che la dottrina de’ protestanti, quali chiamano quelle ordinazioni ceremonie oziose, non sarebbe condannata. Ma il cardinale di Lorena fu autore d’una via di mezzo: che si omettesse quel capo, e che bastavano quattro parole, rimettendo la esecuzione ai vescovi, che procurassero di farle osservar quanto loro fosse possibile.
Stabilite queste cose, fu risoluto di legger il tutto nella consulta di quei principali, acciocché nella congregazione generale le cose passassero con intiera quiete. Si contentarono ambe le parti, eccetto che per il sesto anatematismo, dove si dice la ierarchia esser instituita per ordinazione divina. L’arcivescovo d’Otranto e altri prelati pontifici s’insospettirono che le parole, espresse in termini cosí generali, significando che tutti gli ordini sacri, senza far differenza tra l’uno e l’altro, siano per ordinazione di Cristo, potesser inferire che i vescovi siano uguali al sommo pontefice. Ma li teologi e canonisti pontifici li esortarono a non metter difficoltá, essendo cosa chiara dalli canoni antecedenti e seguenti che non si trattava se non de cosa pertinente all’ordine, nel che il pontefice non eccede gli altri vescovi, e della giurisdizione non si faceva menzione alcuna. Li medesimi ancora ebbero in suspetto le parole del proemio del capitolo della residenzia, dove si diceva che per precetto divino tutti quelli che hanno cura d’anime sono ubbligati conoscer le pecorelle sue ecc., inferendo che quello fosse un modo di dechiarare che la residenza sia de precetto divino. Ma la maggior parte delli medesimi pontifici sentivano in contrario, dicendo che tutti quei particolari, che si dicono esser comandati da Dio a chi ha cura d’anime, si possono anco osservar in assenzia, quantonque con la presenzia si adempino piú intieramente; e massime che le parole che seguono proveggono in maniera che non può esser d’alcun pregiudicio a Sua Beatitudine: aggiongendo anco che, essendo stato accomodato in quella forma dal Cardinal di Mantoa, era stato piú e piú volte posto in consultazione, né mai era stato fatto quel dubbio sopra; e che a Roma medesmamente non l’avevano giudicato pregiudiciale. Non per questo fu possibile rimover dall’opinione sua Otranto e altri che lo seguivano.
Alcuni delli spagnoli fecero diligente instanza della dechiarazione per l’instituzione de’ vescovi e per la residenzia de iure divino; ma furono costretti a desistere, essendo persuasi la maggior parte de’ loro colleglli dal Cardinal di Lorena, il quale usò con loro termini di conscienzia, dicendo che non fosse cosa sicura e grata a Dio, vedendo di non poter far il bene che si desiderava, voler con una superflua e vana instanzia causar qualche male; che assai era l’aver impedito il pregiudicio che altri pensavano fare alla veritá con stabilir contrarie opinioni; e se non si poteva ottener tutto quello che si desiderava, si poteva però sperare qualche cosa nel tempo futuro con l’aiuto divino. Con tutto questo Granata e Segovia con alcuni altri de loro non poterò esser rimossi; sí come né manco fu possibile superar dall’altro canto il patriarca di Gerusalern e l’arcivescovo d’Otranto con altri aderenti, quali erano convenuti di contradire a tutto quello che si proponesse, come a cose che non servivano a levar le differenzie, ma solo ad assopirle, con certezza che, camminando inanzi, sarebbono date fuori con maggior forza e impeto; e che quando s’avesse avuto a rompere, meglio era farlo inanzi celebrar la sessione che dopo. Né fu possibile che li legati potessero persuaderli.
Con tutto ciò, non ostanti queste due contradizioni, stabilite cosí le cose con gli altri principali, il dí 9 del mese di luglio s’incominciarono le congregazioni generali. Dove essendo prima letto quello che appartiene alla dottrina e canoni dell’ordine, il Cardinal di Lorena diede esempio, parlando brevemente e non mettendo alcuna difficoltá. Fu seguito dagli altri sino al luoco di Granata, il qual disse esser cosa indegna aver tanto tempo deriso li padri trattando del fondamento dell’instituzione dei vescovi, e poi adesso tralasciandola; e ne ricercò la dechiarazione de iure divino, dicendo maravigliarsi perché non si dechiarasse un tal punto verissimo e infallibile. Aggionse che si dovevano proibire come eretici tutti quei libri che dicevano il contrario. Al qual parere aderí Segovia, affermando che era espressa veritá, che nessuno poteva negarla, e si doveva dechiarare per dannar l’opinione degli eretici che tenevano il contrario. Seguivano anco Guadice, Alife e Montemarano con gli altri prelati spagnoli, de’ quali alcuni dissero la loro opinione esser cosí vera come li precetti del decalogo. Il vescovo di Coimbria si lamentò pubblicamente che con astuzia si pregiudicasse alla veritá, concedendo che potessero esser ordinati vescovi titolari, perché questo era dechiarare che la giurisdizione non fosse essenziale al vescovato, né si ricevesse immediate da Cristo; e fece instanzia che il contrario fosse dechiarato, replicando il concetto piú volte detto: esser cosí essenziale al vescovo aver chiesa e sudditi fedeli come al marito aver moglie. Dopo, proposto il decreto della residenzia, il Cardinal di Lorena l’approvò con la stessa brevitá; solo raccordò che al passo dove si raccontano le cause dell’assenzia, ponendo tra le altre l’evidente utilitá della Chiesa, si aggiongesse quella parola «e della republica», e questo per rimover ogni impedimento che quel decreto potesse apportare all’esser ammessi i prelati agli uffici e consegli pubblici: di che ebbe l’applauso universale. Seguí il Cardinal Madruccio, parlando nel medesimo tenore. Il patriarca di Gerusalem, l’arcivescovo Verallo e Otranto non volsero dir il parer loro sopra quel decreto. Di che l’arcivescovo di Braganza, quando fu il luoco del voto suo, si voltò alli legati, quasi in forma di reprensione, con dire che dovessero usar la loro autoritá e astringer li prelati a dire il loro parere; e che era una cattiva introdozione in concilio, quasi che o fossero costretti a tacere, o avessero ambizione di non parlar, salvo che con séguito. Onde altri che avevano deliberato imitargli, mutato proposito, consentirono al decreto. Seguirono approvando concordamente gli altri decreti, secondo che letti erano. Se non che Granata fece instanzia che fosse dechiarata la residenzia de iure divino con parole aperte, poiché (diceva egli) le parole ambigue del proemio erano indegne di un concilio il qual sia congregato per levare, non per accrescer le difficoltá; e che fossero proibiti li libri che ne parlavano in contrario; e che nel decreto fossero espressamente e nominatamente compresi li cardinali. Questa ultima instanzia toccante li cardinali si vedeva che a molti aggradiva, onde dal Cardinal Morone fu risposto che si averebbe avuto considerazione sopra, per parlar un’altra volta. Del rimanente si passò inanzi; e in fine il patriarca e li doi arcivescovi assentirono essi ancora al decreto. E questo fu il principio che fece aver speranza di poter celebrar la sessione al suo tempo; cosa stimata per inanzi impossibile, ma per desteritá del Cardinal di Lorena ridotta a buon porto.
Nelli giorni seguenti si diedero li voti sopra gli altri capi di riforma dalli padri, da’ quali non fu proposta altra variazione di momento; se non che per grand’instanzia di Pompeo Zambeccari, vescovo di Solmona, fu levata dal capo della prima tonsura una particola, dove si diceva che se li promossi commetteranno delitto fra sei mesi dopo l’ordinazione, si presumino ordinati in fraude e non godino il privilegio del fòro: e dove si decreta che nessun sia ordinato senza esser ascritto a chiesa particolare, era aggiorna l’innovazione delli decreti del concilio lateranense, che anco li ordinati a titolo di patrimonio dovessero esser applicati al servizio di qualche chiesa, nel quale attualmente si esercitassero, altrimenti non potessero esser partecipi delli privilegi: la qual parimente fu levata. E nel rimanente, con leggier variazione di parole poco spettanti alla sostanzia, fu data satisfazione a tutti i padri.
Li spagnoli, che non avevano potuto ottener in congregazione la dechiarazione desiderata dell’instituzione de’ vescovi, si congregarono la sera delli 13 in casa del conte di Luna, dove Granata con li aderenti lo persuasero a far una protesta alli legati, quando si fosse tralasciato di determinare quel capo. E dissuadendo alcuni altri, come cosa che potesse esser causa di gran moto, si consumò la congregazione tutta in dispute e si finí in contenzione, con differir la resoluzione alla mattina seguente: quando il conte, uditi di novo li diversi pareri e considerato che sarebbe stato gran dispiacer al pontefice, a tutti li vescovi italiani e a tutti li francesi ancora, che si erano accomodati, pregò Granata e li aderenti di voler esser dell’opinione degli altri, poiché qui non si metteva di conscienzia, mentre non si trattava di difinire piú in un modo che in un altro, ma solo di difinire o tralasciare. Né volendo Granata accomodarsi, ma dicendo che per conscienzia sentiva esser necessaria la determinazione, lo ricercò che dicesse la sua opinione quietamente e liberamente, contentandosi però se dagli altri non era abbracciata, e astenendosi dalle contenzioni. E cosí promise egli e gli altri ancora di fare.
Si fece il dí seguente, che fu precedente alla sessione, congregazione generale, nella quale propose il Cardinal Morone se piaceva a’ padri che nel capo della residenzia e in quello che tratta dell’etá delli ordinandi si facesse menzione delli cardinali, e nel particolare dell’etá. Furono pochi che consentissero, discorrendo la maggior parte che non nasce occorrenzia di far cardinali giovani se non principi, in quali non si ha d’attender all’etá, perché in qualonque modo onorano l’ordine ecclesiastico; e però che era fuor di proposito, dove non era abuso, far decreto. Ma nel particolare della residenzia la maggior parte fu di parere che si nominassero, contradicendo però alcuni con dire che questo sarebbe un approvare che li cardinali avessero vescovati, e per consequenza un approvare le commende; il che non era giusto di fare, ma piú tosto lasciare che la loro conscienzia riconoscesse di non esser esenti dal precetto generale, che con nominarli approvar doi abusi insieme: la pluralitá di benefici e le commende. Trattati poi alcuni altri particolari di poco rilievo, e conclusi, fu letto di novo tutto quello che si dovesse nella sessione pubblicare, dicendo il parer loro li padri con la sola parola placet. Alcuni spagnoli e alquanti italiani risposero che non li piaceva, e in tutto furono al numero di ventotto; gli altri tutti, in numero centonovantadue, consentirono: e in fine concluse Morone che si sarebbe fatta la sessione. Ringraziò li padri che avevano accettato li decreti, ed esortò gli altri ad unirsi con loro; e pregò il conte di Luna a far buon officio con li suoi prelati, acciò, vedendo l’universal concorso di tutto il concilio in un parere, non volessero dissentire. Di che parlando piú specificatamente con lui dopo la congregazione, gli promesse che, ogni volta che si fosse dechiarata la potestá del papa secondo la forma del concilio fiorentino, si dechiarerebbe anco la instituzione de’ vescovi esser de iure divino. Li prelati spagnoli, essendosi il medesimo giorno, la sera, congregati in casa del conte, dopo molti discorsi, fondandosi sopra la promessa che dal cardinale era fatta al conte, conclusero di accettar ogni cosa.