Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
(15 luglio 1563).
[Sessione ventitreesima. I quattro articoli e gli otto canoni del decreto sul sacramento dell’ordine, e i diciotto capitoli del decreto di riforma. L’istituzione dei seminari. — Osservazioni ai decreti della sessione. — L’accordo fra gli spagnoli e il Lorena comincia a spezzarsi. — I legati, desiderosi d’affrettare la fine, cercano di preparare per una sola sessione la rimanente materia, affidandone l’esame ad una commissione. — Ostacoli suscitati dal conte di Luna, il quale propone anche di rinnovare l’invito ai protestanti. — Il papa, informato di ciò dai legati, lagnasi del conte con l’ambasciatore in Roma e con Filippo II. — In Trento non tutti i padri concordano nell’opportunitá di affrettare i lavori a scapito di precise deliberazioni.]
Venuto adonque il 15 luglio, la mattina per tempo col solito ordine andarono tutti nella chiesa. Si fecero le consuete ceremonie. Celebrò lá messa il vescovo di Parigi, fece l’orazione il vescovo di Alife, nella quale offese li francesi con aver nominato il re di Spagna prima che il re loro, e li polacchi, nominando quello di Portogallo inanzi Polonia, e li veneziani, col far prima menzione del duca di Savoia e poi della loro repubblica. Disse anco parole, per le quali mostrava che quella celebrazione di concilio era una continuazione con li precedenti di Paulo e Giulio, di che ebbero mala satisfazione gl’imperiali e li francesi insieme. Entrò anco a parlare della fede e delli costumi degli eretici e cattolici; e disse che, si come la fede dei cattolici era migliore, cosí li costumi degli eretici erano molto migliori che quelli de’ cattolici: nel che diede molto disgusto, massime a quelli che si raccordavano del detto di Cristo e di san Giacomo, che la fede non si dimostra se non per le opere. Non fa però detta cosa alcuna in quell’istante, avendo ciascuno rispetto a turbar le cereinonie pubbliche. Ma il dí seguente li ambasciatori francesi, polacco e veneti fecero instanzia alli legati che non lasciassero stampar l’orazione né metterla negli atti del concilio. Finita la messa e le altre preci, furono letti li brevi della legazione delli cardinali Morone e Navagero, li mandati del re di Polonia e del duca di Savoia, la lettera della regina di Scozia e il mandato del re cattolico. Poi furono letti li decreti spettanti alla dottrina della fede: dove non vi fu contradizione, se non che dalla maggior parte de’ spagnoli fu detto che assentivano, con questo: che s’osservasse dalli signori legati la promessa fatta all’ambasciatore del loro re.
Conteneva il decreto della fede in sustanzia:
I. Il sacrificio e sacerdozio esser in ogni legge congionti; imperò, essendo nel Novo Testamento un sacrificio visibile, cioè l’eucarestia, esser anco necessario confessare un visibile ed esterno sacerdozio, nel quale per divina instituzione sia data potestá di consecrar, offerir e ministrar l’eucarestia, e di rimetter e ritener i peccati.
II. Il qual sacerdozio essendo cosa divina, convenire che abbia molti ordini de ministri che li servino, li quali ascendino dalli minori alli maggiori ministeri, poiché le sacre lettere fanno menzione del nome de’ diaconi, e dal principio della Chiesa fu posto in uso li ministeri de’ subdiaconi, accoliti, esorcisti, lettori e ostiari, ponendo però il subdiaconato tra gli ordini maggiori.
III. E perché nella sacra ordinazione è conferita la grazia, l’ordine esser vera e propriamente uno delli sette sacramenti della Chiesa.
IV. Nel quale imprimendosi carattere che non si può scancellare, la sinodo condanna quelli che affermano li sacerdoti aver la potestá sacerdotale a tempo, sí che li ordinati possino ritornar laici, non esercitando il ministerio della parola di Dio. E cosí parimente condanna quelli che dicono tutti li cristiani esser sacerdoti, ovvero aver ugual potestá spirituale; il che altro non è se non confonder la ierarchia ecclesiastica, che è ordinata come un esercito de soldati. Al qual ordine ierarchico principalmente appartengono li vescovi, che sono superiori alli preti, a’ quali appartiene ministrar il sacramento della confirmazione, ordinar li ministri e far altre fonzioni. Insegna anco la sinodo che nell’ordinazione de’ vescovi, sacerdoti e altri gradi non è necessario il consenso, vocazione o autoritá del magistrato o d’altra potestá secolare; anzi quelli che, solamente chiamati o instituiti dal popolo, o secolar potestá, o vero magistrato, o per propria temeritá ascendono ai ministeri ecclesiastici, esser non ministri, ma latroni.
A questa dottrina seguono otto anatematismi:
I. Contra chi dirá che nel Novo Testamento non vi sia sacerdozio visibile, o non vi sia potestá di consecrare e offerire e di rimetter li peccati, ma solamente un officio o nudo ministerio di predicar l’Evangelio, e quelli che non predicano non esser sacerdoti.
II. Che oltra il sacerdozio non vi siano altri ordini maggiori e minori, per quali, come per gradi, si va al sacerdozio.
III. Che la sacra ordinazione non sia propriamente sacramento, o vero esser invenzione umana, o solamente certo rito di elegger li ministri della parola di Dio e delli sacramenti.
IV. Che per la sacra ordinazione non sia dato lo Spirito Santo o non sia impresso carattere, o che il sacerdote possi deventar laico.
V. Che la sacra unzione e le altre ceremonie che la Chiesa usa non siano requisite, ma potersi tralasciare, ed esser perniciose.
VI. Che nella chiesa cattolica non vi sia la ierarchia instituita per ordinazione divina, la qual consta di vescovi, preti e ministri.
VII. Li vescovi non esser superiori alli preti, o non aver potestá di confirmare e ordinare; o vero che quella potestá l’abbiano anco li preti; o che gli ordini, conferiti senza il consenso o vocazione del populo o della potestá secolare, siano nulli, o pure che siano legittimi ministri della parola di Dio e delli sacramenti quelli che non sono legittimamente ordinati dalla potestá ecclesiastica.
VIII. Che li vescovi assonti per autoritá del romano pontefice non sono legittimi e veri, ma invenzione umana.
Fu poi letto il decreto della riforma, il qual conteneva diciotto capi. Il I, spettante alla tanto debattuta materia della residenzia, dove si diceva che per precetto divino ognuno a cui è data cura d’anime debbe conoscer le sue pecorelle, offerir per loro sacrificio, pascerle con la predicazione, sacramenti e buon esempio, aver cura dei poveri e attender ad altri uffici pastorali: le qual cose non potendo esser adempite da chi non invigila e assiste al suo gregge, la sinodo li ammonisce a pascere e reggere con giudicio e veritá. Ma acciocché, mal interpretando le cose statuite sotto Paulo III in questa materia, nessun intenda essergli lecita un’assenza di cinque mesi, dechiara che qualonque ha vescovati, sotto qualsivoglia titolo, eziandio li cardinali, sono ubbligati a reseder personalmente, non potendo restar assenti se non quando lo ricerchi la caritá cristiana, l’urgente necessitá, la debita ubidienza e l’utilitá della Chiesa o della repubblica: vuole che tali cause dell’assenzia siano approvate per legittime dal pontefice o dal metropolitano, eccetto quando saranno notorie o repentine; dovendo nondimeno il concilio provinciale conoscere e giudicare le licenze concesse, acciò non v’intervenga abuso; provvedendo tuttavia li prelati assenti che il populo per l’assenzia non patisca danno alcuno. E perché una breve assenzia non è degna di questo nome, eziandio senz’alcuna delle suddette cause, dechiara che questa tale non possi ecceder il spazio di due mesi o di tre al piú, o sia continuo o in diversi tempi, purché vi sia qualche ragione d’equitá, e senza danno del gregge; il che sia rimesso alle conscienzie dei prelati, ammonendo ciascuno a non restar assente le dominiche dell’advento e quaresima, le feste della Nativitá, Resurrezione, Pentecoste o Corpo di Cristo. Al qual decreto chi contravvenirá, oltra le pene imposte contra li non residenti sotto Paulo III, e il peccato mortale, non possi con buona conscienzia goder li frutti per la rata del tempo; decretando le medesime cose di tutti gli altri che hanno cura d’anime, li quali, quando con licenzia del vescovo si assenteranno, debbino sustituir un vicario idoneo approvato dal vescovo, con la debita mercede. E che quel decreto, insieme con l’altro sotto Paulo III, siano pubblicati nei concili provinciali e diocesani.
Degli altri capi spettanti agli ordini, che il decreto conteneva, il II era: che qualonque tiene vescovato, sotto qual si voglia titolo, eziandio li cardinali, non ricevendo la consecrazione fra tre mesi, perdino li frutti; e differendo oltre tre altri, siano privati del beneficio; e che la consecrazione, quando si fará fuori della corte romana, si celebri nella propria chiesa, o veramente nella provincia, quando vi sia il comodo.
III. Che li vescovi celebrino le ordinazioni in propria persona; e quando siano impediti d’infirmitá, non mandino li sudditi per esser ordinati da altro vescovo, se non esaminati e approvati da loro.
IV. Che la prima tonsura non si dia se non a chi è confirmato e abbia imparato li principi della fede, sappia leggere e scrivere, ed elegga la vita clericale per servizio di Dio, non per fuggir il giudicio secolare.
V. Agli ordini minori chi doverá esser promosso, abbia testimonio dal parroco e dal maestro di scola; e dal vescovo sia commesso che li loro nomi siano proposti pubblicamente in chiesa, e sia fatta inquisizione del nascimento, etá, costumi e vita loro.
VI. Che nessun possi aver beneficio ecclesiastico inanzi il quattordicesimo anno, né goder l’esenzione del fòro, se non abbia beneficio ecclesiastico, o, portando l’abito e tonsura, non servi a qualche chiesa per commissione del vescovo, o abiti nel seminario o in scola o vero universitá con licenza del vescovo. E intorno a’ chierici maritati, si osservi la constituzione di Bonifacio VIII, con condizione che quelli parimente servino alla Chiesa in abito e tonsura, per deputazione del vescovo.
VII. Che quando si tenirá ordinazione, tutti siano chiamati, il mercordi inanzi, alla cittá, e sia fatta diligente inquisizione ed esanime di loro dal vescovo, con assistenzie di chi gli parerá.
VIII. Le ordinazioni non siano tenute se non nei tempi statuiti dalla legge, nella chiesa cattedrale, presenti li canonici; e quando si tenirá in altro luoco della diocesi, si faccia nella chiesa piú degna, e presente il clero. Ognuno sia ordinato dal proprio vescovo, e a nessun sia concesso ordinarsi da altro, se non con littere testimoniali del proprio.
IX. Che il vescovo non possa ordinar un suo familiare non suddito, se non averá abitato con lui tre anni, e conferendoli immediate beneficio.
X. Nessun abbate o altro prelato possi conferir la prima tonsura o gli ordini minori se non a’ sudditi loro regolari; né questi o altri prelati, collegi o vero capitoli, possino conceder lettere dimissorie a chierici secolari per ricever gli ordini.
XI. Che gli ordini minori siano conferiti a chi intende lingua latina, e con interposizione de tempi tra l’uno e l’altro; ed essendo questi gradi agli altri, nessun sia ordinato, se non vi sia speranza che possi deventar degno degli ordini sacri; e dall’ultimo di essi minori s’interponi un anno al suddiaconato, se dal vescovo per utilitá della Chiesa non sará giudicato altrimenti.
XII. Nessun sia ordinato al suddiaconato inanzi il vigesimosecondo; al diaconato inanzi il vigesimoterzo; al presbiterato inanzi il vigesimoquinto; né da questo siano esenti li regolari.
XIII. Che li suddiaconi e diaconi siano prima esperimentati negli ordini minori, e sperino di poter viver in continenzia, servino alla chiesa alla quale sono applicati, e reputino molto conveniente il ricever la comunione la dominica e giorni solenni, quando ministrano all’altare. Li suddiaconi non passino a grado piú alto, se non esercitati per un anno nel proprio; ma per virtú di qualsivoglia privilegio non siano dati due ordini sacri in un giorno.
XIV. Al presbiterato non sia ordinato, se non sará diacono esercitato nel ministerio almeno per un anno, e trovato idoneo ad insegnar il populo e amministrar li sacramenti; e abbia cura il vescovo che questi tali celebrino almeno la dominica e feste solenni, e, avendo cura d’anime, che satisfacciano al loro carico; e se alcuno sará ordinato alli ordini superiori inanzi li inferiori, il vescovo possi dispensare se vi sará causa legittima.
XV. Che se ben li preti nell’ordinazione ricevono potestá di assolver dalli peccati, però nessuno può udir le confessioni, se non ha beneficio parrocchiale o sia dal vescovo approvato.
XVI. Che nessun sia ordinato senza esser ascritto a qualche chiesa o luoco pio per esercitar il ministerio di quell’ordine; e se abbandonerá il luoco senza conseglio del vescovo, gli sia proibito il ministerio; e nessun chierico forestiero senza lettere del suo ordinario sia ammesso all’esercizio del ministerio.
XVII. Per ritornar in uso le fonzioni degli ordini del diaconato sino all’ostiariato, che, usate dal tempo degli apostoli, in molti luochi sono intermesse, acciò non siano derise come oziose dagli eretici, li ministeri non siano esercitati se non da chi averá ricevuto quegli ordini, e li prelati restituiscano quelle fonzioni; e se per gli esercizi degli ordini minori non averanno chierici continenti, ne ricevino de maritati, purché non siano bigami, e nel rimanente siano atti a quell’esercizio.
L’ultimo capo fu per l’instituzione dei seminari. In quello è statuito che ogni chiesa episcopale abbia un certo numero de putti, che siano educati in un collegio appresso la chiesa o in altro luoco conveniente; siano almeno d’anni dodici, di legittimo matrimonio; siano dal vescovo distribuiti in classi, secondo il numero, etá e progresso nella disciplina ecclesiastica; portino l’abito e la tonsura; attendino alla grammatica, canto, computo ecclesiastico, alla sacra Scrittura, a legger le omilie de’ Padri, imparar li riti e ceremonie de’ sacramenti, e sopra tutto quello che appartiene ad udir le confessioni. E per far queste spese, dove vi è entrata deputata per educar putti, sia applicata a questo seminario; e per quello di piú che faccia di bisogno, il vescovo con quattro del clero debbino detraer una porzione da tutti li benefici della diocesi e applicarci benefici semplici; e constringer quelli che hanno scolasterie o altro carico di leggere, ad insegnar nelle scuole del seminario, o per se medesimi o per sustituti idonei; e per l’avvenire le scolasterie non siano date se non a dottori o maestri in teologia o in canonica. E se in qualche provincia le chiese fossero tanto povere che non si potesse erigere in quelle seminario, se ne statuisca uno o piú nella provincia; e nelle chiese di gran diocesi possi il vescovo, giudicando opportuno, oltre il seminario della cittá, erigerne uno o piú di essa, che dependa però da quello della cittá.
In fine fu letto il decreto, intimando la futura sessione per il 16 di settembre, con espressione di dover allora trattar del sacramento del matrimonio e delle altre cose pertinenti alla dottrina della fede, delle provvisioni dei vescovati, dignitá e altri benefici, e diversi altri articoli di riforma. Durò la sessione dalle nove sino alle sedici ore, con gran piacere delli legati e delli prelati pontifici che le cose fossero passate quietamente e con universal consenso: e lodavano sopra tutti il cardinale di Lorena, confessando che di questo bene egli era stato principalissima causa.
Non fu veduto dal mondo atto alcuno di questo concilio piú desiderato, quanto quello della presente sessione, quando uscí in luce, per la curiositá che ciascuno aveva di vedere una volta che cosa era quello che aveva tenuto in contenzione dieci mesi cosí gran numero de prelati in Trento, e in negozio tutte le corti de’ principi cristiani. Ma, secondo il proverbio, riuscí stimato un parto de monti e nativitá d’un topo. Non fu chi sapesse trovarci dentro cosa che meritasse non solo opera di tanto tempo, ma né meno breve occupazione di tanti personaggi. Ed ebbero gli uomini alquanto versati nelle cose teologiche a desiderare che una volta fosse dechiarato che cosa intendeva il concilio per la potestá di ritener li peccati secondo il senso suo, la qual era fatta una parte dell’autoritá sacerdotale, avendo dichiarato come intendesse l’altra, cioè rimetter li peccati. Fu da altri ancora letto con ammirazione la dechiarazione fatta che gli ordini inferiori non fossero salvo che gradi alli superiori, e tutti al sacerdozio, apparendo chiaro per la lezione dell’antica istoria ecclesiastica che li ordinati ad un carico o ministerio erano per ordinario perpetuamente trattenuti in quello; ed era cosa accidentale e di rara contingenzia, e usurpata per sola ragion di necessitá o grand’utilitá, simil transazione e ascesa a grado piú alto. Delli sette diaconi instituiti dagli apostoli nessun esser passato ad altro grado; e nella medesima chiesa romana, nell’antichitá li diaconi attendendo alle «confessioni» dei martiri, non si vede che passassero ai titoli presbiterali. Esser descritta l’ordinazione di sant’Ambrosio in vescovo, di san Gerolemo e di sant’Agostino e di san Paulino in preti, e di san Gregorio Magno in diacono, senza che fossero passati per altri gradi. Non esser da biasmar il modo nelli tempi posteriori introdotto; ma parer maraviglia il portarlo come cosa sempre usata, constando manifestamente il contrario.
Era giudicato molto specioso il decreto che li ministeri degli ordini dal diaconato sino all’ostiariato non fossero esercitati se non dalli promossi all’ordine proprio di quelli; ma pareva cosa assai difficile da osservare che in nessuna chiesa potessero esser sonate le campane o serrate e aperte le porte se non da ostiari ordinari, né meno accese le lampade e candele se non da accoliti, li quali esercitassero quei carichi manuali a fine di pervenire al sacerdozio; e pareva un poco di contradizione l’aver assolutamente determinato che quei ministeri non fossero esercitati se non da persone ordinate, e poi comandato alli prelati che li restituissero in quanto si potesse farlo con comoditá; poiché, servando il decreto assoluto, è ben necessario che, dove non si possino aver persone ordinate per l’esercizio delle fonzioni, si resti senza esercitarle; e se possono esser esercitate senza ordini, mancando il comodo, si poteva con piú decoro tralasciar la definizione assoluta. Nel decreto dell’ordinazione de’ preti fu giudicato molto conveniente l’averci prescritto quella condizione che fossero atti ad insegnar il populo; ma ciò non pareva molto coerente con quell’altra dottrina e uso, che al sacerdozio non sia essenziale l’aver cura d’anime; onde li preti che si ordinano con pensiero di non riceverla mai, non è necessario che siano atti ad insegnar il populo. E l’assegnar per condizione necessaria negli ordini minori il saper la lingua latina, dicevano alcuni che era un dechiararsi di non esser concilio generale di tutte le nazioni cristiane; né questo decreto poter esser universale, e obbligar le nazioni di Africa e Asia e di gran parte d’Europa, dove la lingua latina non ha mai avuto luoco.
In Germanica fu assai notato il sesto anatematismo, che fa un articolo di fede della «ierarchia», voce e significazione aliena, per non dir contraria, alle Scritture divine e all’uso dell’antica Chiesa, e voce inventata da uno, se ben di qualche antichitá, che però non si sa bene chi e quando fosse, che del rimanente è scrittor iperbolico, non imitato nell’uso di quel vocabolo (né degli altri di sua invenzione) da alcuno dell’antichitá; e che seguendo lo stile di parlare e di operare di Cristo nostro Signore e delli santi apostoli, e dell’antica Chiesa, conveniva statuire non una «gerarchia» ma una «gerodiaconia», o «gerodulia». E Pietro Paulo Vergerio nella Valtellina faceva soggetto delle sue prediche queste e altre obiezioni contra la dottrina del concilio, narrando anco le contenzioni che erano tra li vescovi, e detraendo a tutto quello che poteva, non solo con parole, ma ancora con lettere alli altri ministri protestanti ed evangelici; le quali erano anco lette alli populi nelle loro chiese. E quantonque il vescovo di Como, per ordine del pontefice e del Cardinal Morone, facesse ogni opera, eziandio con qualche modi assai straordinari, per farlo partir da quella regione, non potè mai ottenerlo.
Ma intorno al decreto della residenza, della qual materia ognuno ragionava e aspettava qualche bella risoluzione, poiché giá tanto se n’era parlato e tanto scritto (parendo in quei tempi che nessuna cosa fosse piú in voce di tutti), [notavasi che] in fine si fosse per decisione di controversia prononciato quello che a tutti era chiaro, cioè esser peccato non reseder senza causa legittima, quasi che non sia per legge naturale chiaro ed evidente a tutti, peccar ognuno che si assenta dal suo carico, sia di che genere si voglia, senza legittima causa.
Il successo di questa sessione levò la buona intelligenzia che sino allora era stata tra il Cardinal di Lorena e li spagnoli, li quali si dolevano d’esser stati abbandonati nella materia dell’instituzione de’ vescovi e della residenzia, nelle quali egli aveva innumerabili volte attestato che sentiva con loro, e promesso d’operare efficacemente per far decretare quell’opinione, senza rimettersi per causa alcuna. Aggiungevano di esser senza speranza di vederlo constante in altre cose promesse da lui, e che era stato guadagnato dal pontefice con la promessa della legazione di Francia; e altre cose di poco suo onore. Ed egli dall’altro canto si giustificava, dicendo quell’oblazione esserli stata fatta per metterlo in diffidenzia con gli amici suoi, alla qual egli aveva risposto di non voler dar orecchie, se prima non era fatta la riforma in concilio. Ma, con tutto questo, non era creduto che egli dovesse perseverar nel medesimo parere meno in questa parte.
Ma li legati, desiderosi di venir presto al fine del concilio, non cosí tosto finita la sessione, proposero di facilitar il rimanente, che quanto alla materia della fede era le indulgenzie, l’invocazione de’ santi e il purgatorio. E a questo effetto elessero dieci teologi, doi generali de frati e doi per ciascun principe, cioè del papa, Francia (che pochi piú rimanevano), Spagna e Portogallo, dandoli carico di considerare in che modo si potesse brevemente confutar l’opinione de’ protestanti in tal materia; e che resoluti essi, si proponessero in congregazione generale li pareri loro, sopra quali si formassero li canoni nel medesimo tempo che si tratterebbe del matrimonio, per venir presto a capo delle materie, senza udir le dispute delli teologi, come s’era fatto per il tempo inanzi.
In materia della riforma trattarono col Cardinal di Lorena, con li ambasciatori imperiali e di Spagna, se si contentavano che si proponesse anco della reforma de’prencipi; da’ quali avuto parola che era cosa giusta levar gli abusi dovunque fossero, fecero metter insieme tutti li capi, con pensiero di decider tutto quello che restava in una sola sessione. Ma all’ambasciator spagnolo, per li rispetti del suo re, quell’accelerazione non piaceva, e cominciò ad attraversarci molte difficoltá. Primieramente propose che era necessario inanzi il fine del concilio far opera che li protestanti vi intervenissero, allegando che vana sarebbe la fatica fatta, quando che li decreti non fossero da loro accettati, né essendoci speranza che, senza intervenir in concilio, li accettassero. A che avendo risposto li legati che il pontefice aveva dal canto suo in ciò fatto tutto quello che se gli conveniva, avendo scritto lettere e mandato anco nonci espressi a tutti, che niente di piú si poteva fare per render chiara la loro contumacia, replicò il conte di non richiedere che ciò si facesse a nome di Sua Santitá, essendo chiara cosa che averebbe servito non a farli venire, anzi ad allontanarli maggiormente, ma che fossero ricercati a nome del concilio con quelle promesse che fossero state convenienti, adoperando l’intercessione dell’imperatore. A che avendo per conclusione detto li legati di averci sopra considerazione, ne diedero conto al pontefice, acciò potesse operare in Spagna, cosí per divertir simili ragionamenti, come per persuader il fine del concilio. Ricercò anco il conte che li teologi parlassero pubblicamente, secondo il solito, sopra li particolari delle indulgezie e altre materie; e fece ufficio con li prelati che non si mutasse modo di procedere, e non si levasse la riputazione al concilio con tralasciar di esaminar quelle cose che piú delle altre ne avevano bisogno.
Delle qual cose tutte il pontefice avvisato, si perturbò assai, avendo avuto parola da don Luigi d’Avila e dal Vargas, ambasciator del re appresso sé, che quella Maestá si contentava che si venisse a fine del concilio. E fattigli chiamar a sé, fece gravissima indoglienza per la proposizione del conte. E prima, per conto d’invitar li protestanti, disse che nessuno piú desiderava di ridurli alla Chiesa che lui; esserne indizio quello che dalli precessori suoi era stato per quarant’anni operato, e da lui con mandar nonci espressamente a tutti loro, non riguardando alle indignitá a che sottoponeva sé e la sede apostolica; che aveva adoperato l’interposizione dell’imperatore e gli uffici di tutti li principi cattolici; esser certificato che la indurazione loro è volontaria, deliberata e ostinata; e però doversi pensar non piú come ridurli, essendo impossibile, ma come conservar li obedienti. Mentre che vi fu scintilla di speranza di racquistar li perduti, ricercava il tempo che si facesse ogn’opera per raddolcirli; estinta tutta la speranza, era necessario, per conservar li buoni, fermar bene la divisione e render le parti irreconciliabili l’una all’altra. Che cosí comportavano li rispetti del loro re che si trattasse; il qual si sarebbe tardi accorto che cosí è necessario fare, quando avesse temporeggiato nella Fiandra e avesse usato termini di mediocritá. Risguardasse il re che buoni effetti erano nati dalle severe esecuzioni fatte nel suo ingresso in Spagna, dove se avesse lentamente proceduto e pensato ad acquistar la grazia del li protestanti, per acquistar la loro benevolenza col dolce proceder sentirebbe di quei accidenti che si vedono in Francia. Passò a dolersi che il conte anco volesse prescrivere il modo di esaminar le materie di teologia e determinar esso quando fossero ben digeste. In fine si querelò che da loro gli fosse stato promesso che il re si contentava che il concilio si finisse, e pur li uffici del conte tendevano al contrario. E avendo gli ambasciatori scusato il conte, e soggiontogli esser verissimo quanto detto gli avevano della volontá del re circa il fine del concilio, mostrò restar sodisfatto quando essi si contentassero che lo dicesse dove giudicasse di bisogno. Al che consentendo essi, il papa ordinò al noncio suo in Spagna di far indoglienza col re e dirgli che non sapeva penetrar la causa perché li ambasciatori di Sua Maestá in Roma e a Trento parlassero diversamente; e quello che piú importa, facendo egli tutto il possibile per compiacerlo, dall’altro canto fosse contraoperato; perché, essendo il concilio in piedi, egli veniva impedito di far molti favori e grazie alla Sua Maestá. Che se per le cose sue di Fiandra, o vero per li interessi dell’imperatore in Germania, desiderava dal concilio alcuna cosa, poteva ben dall’esperienzia esser certo quanta difficoltá vi fosse di redur alcuna cosa a fine in Trento; ma che da lui si potevano prometter ogni cosa; e che giá ha deliberato, finito che sia il concilio, di mandar in tutte le provincie per provveder al li bisogni particolari di ciascuna; dove che in Trento non si possono far se non provvisioni generali, che hanno infinite difficoltá per accomodarsi a ciascun luoco.
Ma gli uffici che il conte faceva con li prelati in Trento partorirono divisione, desiderando alcuni che quelle materie fossero disputate esattamente; massime che dalli scrittori scolastici di quelle era stato parlato o poco o niente, e che delle altre cose trattate nella sinodo vi erano decisioni o d’altri concili o di pontefici, o concorde parere de dottori, ma in queste materie le cose erano ancora tutte in oscuro, e se non fossero state ben poste in chiaro, s’averebbe detto il concilio aver mancato nelle cose piú necessarie. Altri dicevano che se nelle cose giá decise s’erano attraversate tante difficoltá e contenzioni, quanto maggiormente si poteva temere che in queste, piene di oscuritá, dove non vi è lume abbastanza mostrato da’ dottori, si potesse andar in infinito, avendo quelle materie larghissimo campo, per molti abusi entrati a fine di cavar danari per quei mezzi, e per le difficoltá che nascerebbono nell’interpretazione delle bolle, e massime per le parole che in alcune si usano, di pena e di colpa, e del modo col quale possono le indulgenze esser pigliate per li morti. Però che di quelle e della venerazione de’ santi si poteva trattar solamente dell’uso, tralasciando il rimanente; e del purgatorio con dannare l’opinione dei eretici; altrimenti era un non voler mai veder il fine, né venir a risoluzione di questa difficoltá.