Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo II

Libro ottavo - Capitolo II (7-25 giugno 1563)

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CAPITOLO II

(7-25 giugno 1563).

[Si discute sulla risposta da farsi al Birague. — Consulta per definire la dottrina dell’istituzione dei vescovi. Aspro contrasto fra il Lorena e l’arcivescovo d’Otranto. — Il conte di Luna domanda la revoca della formula Proponentibus legatis. Contegno dilatorio del Morone. — Si fissa la sessione al 15 luglio. — Un discorso del Lainez in difesa delle pretese papali suscita molte proteste, specialmente da parte dei francesi.— I decreti sull’istituzione e la residenza dei vescovi, comunicati a Roma, non vengono approvati dal papa. — Difficoltá sorte a Roma per l’ambasceria inviata da Massimiliano ad annunziare la sua elezione. — Nonostante il consenso del papa, il Morone si oppone alla revoca del Proponentibus legatis. — Si approva la risposta al Birague. — Nuove dispute sull’istituzione e la elezione dei vescovi. — Tentativo d’introdurre la riforma dei cardinali.— L’imperatore lascia Innsbruck, sfiduciato dell’opera del concilio.]

Cessò per se medesma una delle difficoltá che vertevano per causa del vescovo tilesio secretario, per rispetto del quale era fatta frequente instanza che gli atti fossero scritti da dua. Perché egli, non potendo piú sopportar il dolore che gli causava la pietra, fece risoluzione di farsi tagliare. Fu dopo la sua ritirata dato il carico al vescovo di Campagna, dal quale la prima azione fatta fu nella congregazione del dí 7 giugno, con legger la risposta che li legati avevano fabbricato per dar al presidente Birago. Quella essendo longa, e proposta alla sprovvista, e non aiutata in voce da alcuno delli legati, essendo anco assai ambigua, con tali parole che si potevano tirare in commendazione e in biasmo dell’accordo fatto dal re, non fu da tutti intesa nel medesimo senso, onde ne riuscirono diverse opinioni de prelati. Il Cardinal di Lorena primo parlò sopra di essa a longo, senza lasciarsi intendere [p. 226 modifica] se gli piacesse o no. Finito che ebbe di dire, il Cardinal varmiense, spinto a ciò da Morone, lo interpellò che dechiarasse apertamente quello che sentiva; ed egli rispose che non gli piaceva; con gran disgusto di Morone, il quale gliel’aveva fatta vedere prima, e Lorena aveva mostrato di restarne contento. Madruccio, che seguí, si rimise alli padri: degli altri, chi l’approvò e chi disse non piacergli. Li prelati francesi si dolsero che, contra gli ordini servati nella sinodo in simili occasioni, la risposta fosse differita e disputata. Il vescovo ambasciator del duca di Savoia, quando fu suo luoco di parlare, disse che il negozio era da rimettersi assolutamente alli legati e alli doi cardinali. Finiti di dir tutti li voti, si levò l’arcivescovo di Lanciano, e disse che se ben aveva nel voto suo altramente concluso, nondimeno, dopo aver udito l’ambasciatore, era entrato nel parere di quello. Onde a voce quasi di tutti insieme fu approvato il medesimo.

Il dí 11 giugno si tenne una consulta delli legati, cardinali e da venti prelati per trovar modo di stabilir la dottrina dell’instituzione de’ vescovi. Il Cardinal di Lorena, dicendo il suo parere, passò a toccar l’opinione de’ francesi che il concilio sia sopra il papa, allegando anco che cosí fosse difinito dal concilio di Costanza e di Basilea. Concluse che non ricercava un’altra dechiarazione da quel concilio, ma ben diceva che, volendo esser d’accordo con francesi, era bisogno che nelli decreti che si fossero fatti non vi fossero parole che potessero pregiudicar a quella loro opinione. Venendo il luoco di dire all’arcivescovo d’Otranto, si estese con molte parole a redarguir quel cardinale, ripigliando e rifiutando tutto quello che aveva detto a favor della superioritá del concilio; poi soggionse esser alcuni che tenevano quell’opinione della superioritá del concilio per cosí vera come Verbum caro factum est, soggiongendo che non sapeva come potessero assicurarsene in loro conscienzia: nel che accennò Lorena, del quale era sparso per tutto che avesse usato tal comparazione. E descendendo poi a ragionare dell’instituzione de’ vescovi, accennò che non sarebbe stata controversia alcuna in quella [p. 227 modifica] materia, se la formula proposta dal Cardinal di Lorena non avesse dato occasione. Il Cardinal rispose che quando gionse a Trento trovò giá mosse quelle difficoltá; che fabbricò quelle formule essendo stato richiesto, con intenzione di metter pace e concordia e rimediar alle differenzie; il che non essendogli successo come desiderava, si sarebbe rallegrato con l’arcivescovo quando egli avesse ottenuto in questo l’onore che esso non aveva potuto riportare; ringraziandolo in oltre che, come maestro, gli raccordasse quando mancava in alcuna cosa. E quanto alla questione della superioritá del concilio, disse che, per esser egli nato in Francia dove era comune quell’opinione, non poteva né esso né gli altri francesi lasciarla; e che per tenerla, non credeva dovessero esser costretti a fare un’abiurazione canonica. Replicò l’arcivescovo che reprendeva la formula per esser imperfetta, dal che le difficoltá erano nate; ma del rimanente che quello non era luoco da rispondergli, e che stimava poco l’ingiurie fatte a sé; ma ben si doleva di alcuni che professavano di accusar le azioni dei legati, nel che non mostravano buona mente. Tacque il cardinale, senza mostrar in apparenza di restar offeso.

Di questo fatto il conte di Luna, o per proprio moto o ad instanza de’ francesi, riprese l’arcivescovo, dicendogli che, andando all’orecchie di Sua Maestá cattolica, non saria se non per dispiacerli. E un prelato francese, o per ordine datogli da Lorena o pur spontaneamente, avvertí il Cardinal Morone che quell’arcivescovo passava molto li termini; che usò anco cattive maniere contra il cardinale giá trattandosi della residenzia; e che il cardinale era avvisato come in casa di quello continuamente era lacerato, e il piú onorato titolo datogli era chiamandolo «uomo pieno di veneno»: onde, essendo anco successo quell’ultimo accidente, sarebbe stato ben non chiamarli ambidoi insieme a consulta, perché il cardinale non sarebbe restato sodisfatto. A che rispose precisamente il Cardinal Morone che teneva ordine da Roma di chiamar quell’arcivescovo in tutte le consulte, e che conveniva far stima di lui, perché aveva da quaranta voti che lo seguivano. Questo, [p. 228 modifica] referto a Lorena, lo alterò gravemente contra il Cardinal di Morone; aggionto che pochi dí inanzi, consultandosi tra loro legati e cardinali la risposta da dar a Birago remessagli dalla congregazione, Morone lo rimproverò che si fosse contentato della risposta prima formata, e poi in congregazione generale avesse detto il contrario. E pensò assai Lorena come risentirsi della poca stima che vedeva farsi di lui, massime essendo anco avvisato che a Roma il papa l’accusava per scandaloso, e che dimostrasse desiderare di unire li cattolici con protestanti. Nondimeno, a non si separar maggiormente, anzi cercar di riunirsi con Roma, la ragion di utile prevalse allo sdegno, e perseverò nella risoluzione di continuare in aiutar il fine del concilio e dar sodisfazione al pontefice.

Ma il presidente Birago, avendo aspettato la risposta quanto gli parve dignitá, il dí 13 parti di Trento per andar in Ispruc a negoziare l’altro capo dell’instruzione sua con l’imperatore. Il qual era di congratularsi per l’elezione del re de’ romani, dargli conto delle cause perché era fatta la pace con gli ugonotti, e rispondergli sopra la restituzione di Metz e delle altre terre imperiali. Portava anco l’instruzione sua ordine di trattar coll’imperatore che, giontamente col re di Spagna, si facessero da tutti uffici per la translazione del concilio in Germania, comunicato questo particolare col Cardinal di Lorena, per ricevere da lui avviso delli modi piú propri per quella trattazione o per tralasciarla, come s’era fatto in Trento. Ma il cardinale per le ragioni medesme risolvè che ne facesse esposizione all’imperatore, come di cosa piú tosto da desiderare che da sperare né tentare.

Il conte di Luna ebbe nell’instruzione sua un capitolo con espresso ordine di far instanzia che fosse retrattato il decreto Proponentibus legatis; e dopo gionto, in quei giorni gli sopravvenne una nova lettera del re, dove avvisava esser stato ricercato dalla regina di Francia che il concilio si transferisse in Germania, acciò fosse in luoco libero; che egli aveva risposto che non gli pareva necessario, essendovi modo di operare si che avesse ogni libertá, rimanendo in Trento: però gli [p. 229 modifica] commetteva di adoperarsi a questo fine che vi fosse piena libertá, incominciando dalla revocazione del decreto, perché, stando quello, non si poteva in modo alcuno chiamar libero. Per il che, non parendo all’ambasciator di poter differir piú, diede conto alli legati della commissione; conforme alla quale fece efficace instanza per nome del re che fosse o levato o dechiarato, dicendo esser ciò conveniente, per esser restati li germani di venir al concilio tra le altre cause per quella, e perché anco l’imperator giudicava che ciò fosse necessario per poterli indurre a ricever il concilio. A che risposero li legati che quel decreto era passato di comun consenso di tutti li padri; con tutto ciò averebbono avuto sopra considerazione per risolvere quello che sarebbe stato giusto, quando esso gli avesse presentato l’instanzia in scritto. L’ambasciator la diede, e fu dalli legati mandata al pontefice; se ben Morone diceva che era superfluo e che si dovesse, senza dar altra molestia a Sua Santitá, portar la resposta in longo. Nelli negoziati de’ prencipi, massime che non toccano il sostanziale del loro stato, avviene che, se ben essi per le mutazioni delle cose mutano opinione, nondimeno per li uffici da loro fatti inanzi la mutazione succedono cose contrarie alla nova volontá. Cosí avvenne che gli offici fatti dalla regina col re di Spagna, prima che risolvesse di sodisfar al pontefice totalmente nel fatto del concilio, produsser l’effetto della lettera di quel re. Però Morone, che penetrava il fondo, non ne tenne quel conto che altri stimava.

Nella congregazione delli 15 giugno propose il Cardinal Morone che fosse statuito il giorno determinato per la sessione a’ 15 di luglio. Segovia con alcuni altri pochi disse che non vedeva come si potessero in cosí breve spazio di tempo risolvere le difficoltá, che si avevano per le mani, della gerarchia, dell’ordine, dell’instituzione de’ vescovi, della preeminenzia del papa, della residenzia, e che meglio era prima decider le difficoltá, che poi sempre si poteva statuire un breve termine al giorno della sessione, che prononciarlo, per dover poi allongarlo con indignitá. Ma essendo pochi quelli che [p. 230 modifica] contradissero, la proposta fu stabilita quasi senza difficoltá. Ma il dí seguente il Lainez, general de’ gesuiti, nel voto suo s’indrizzó a rispondere a tutte le cose che dagli altri erano state dette non ben conformi alla dottrina della corte, con affetto cosí grande, come se si fosse trattato della propria salute. Nella materia delle dispensazioni si allargò assai. Disse che irragionevolmente era stato detto non esservi altra potestá di dispensare, salvo che interpretativa e dechiarativa, perché a questo modo maggior era l’autoritá d’un buon dottore che d’un gran prelato: e che il dire che con la dispensa il papa non possi disubbligar quello che appresso Dio è ubbligato, non è altro che insegnar agli uomini il preferir la propria conscienzia all’autoritá ecclesiastica; la qual conscienzia poiché può esser erronea, e per il piú anco è, il rimettersi a quella non esser altro che profondar ogni cristiano in abisso di pericoli. Che siccome non si può negare che in Cristo non sia l’autoritá di dispensare in ogni legge, né che il pontefice sia vicario di Cristo, essendo il medesmo tribunale e il medesmo consistoro del principale e del vicegerente, doversi confessare che il papa abbia la medesma autoritá. Che questo era privilegio della chiesa romana; e doversi ognun guardare che è eresia il levar li privilegi di quella Chiesa, non essendo altro se non negare l’autoritá che Cristo gli ha dato. Passò anco a parlar della riforma della corte, e disse che chi era superior a tutte le chiese particolari, era anco superiore a molte radunate insieme; e se alla corte romana appartiene riformar ciascuna delle chiese che ha vescovo in concilio, e nessuna di quelle può riformar la romana, perché «non vi è discepolo sopra il maestro né servo sopra il suo patrone», ne resta per necessaria consequenza che il concilio non abbia autoritá di metter mano in quell’opera. Che molti parlavano attribuendo ad abuso cose che, quando si esaminassero bene e si penetrasse al fondo, si ritroverebbono esser o necessarie o vero almeno utili. Che alcuni pretendono di volerla redur come nel tempo degli apostoli, o come nella primitiva Chiesa; ma questi non sanno distinguer li tempi, e che cosa convenga a [p. 231 modifica] questi e che convenisse a quelli. Esser cosa chiara che per divina provvidenzia e bontá la Chiesa è fatta ricca; nessuna cosa esser piú impertinente da dire, quanto che Dio abbia donato le ricchezze e non l’uso. Delle annate disse esser de iure divino che dai populi siano pagate le decime e le primizie all’ordine ecclesiastico, sí come dal populo ebreo alli leviti; e parimente sí come li leviti pagavano la decima delle decime al sommo sacerdote, cosí aver l’istesso obbligo tutto l’ordine ecclesiastico verso il papa: l’entrate de’ benefici esser le decime, e le annate esser le decime delle decime.

Il discorso dispiacque a molti, e particolarmente a’ francesi; e ci furono prelati che da quello notarono diverse cose, con qualche pensiero di parlarne, se fosse nata occasione, quando fosse toccato loro a dire. Li spagnoli e francesi tennero opinione che quel padre avesse cosí trattato per ordine, o almeno consenso delli legati, allegando per argomento li molti favori che da loro gli venivano in ogni occasione fatti, e specialmente perché dove era solito che li altri generali nel dir il loro parere stassero in piede e a loro luoco, il Lainez era chiamato in mezzo e fatto sedere; e che piú volte s’era fatta congregazione per lui solo, per dargli comoditá di parlar quanto voleva: e con tutto che nessun mai fosse gionto alla metá della prolissitá sua, egli era lodato; e quelli, contra chi esso parlò, non mai tanto brevi che non fossero represi di longhezza. Ma il Lainez, saputo l’offesa che pretendevano aver avuto li francesi, mandò il Torre e il Cuvillon suoi soci a farne scusa con Lorena, con dire che le redarguzioni sue non furono inviate a Sua Signoria illustrissima né ad alcuno delli prelati francesi, ma si bene contra li teologi della Sorbona, le opinioni delli quali sono poco conformi alla dottrina della Chiesa. Il che essendo riferito al cardinale in congregazione de’ francesi tenuta in sua casa, l’iscusa fu dalli prelati sentita con disgusto, e da alcuni di loro reputata petulante, da altri anco derisoria; e con maggior sentimento fu ricevuta da quei pochi teologi rimasti, in modo che sino l’Ugonio, che era comprato, la reputava [p. 232 modifica] incomportabile. Al Verdun pareva d’esser toccato singolarmente, ed esser in obbligo di replicare; e pregò il cardinale che gliene dasse licenza e occasione. Prometteva di parlare con modestia, e mostrare che la dottrina della Sorbona era ortodossa, e quella del gesuita nova e inaudita; che mai per l’inanzi nella Chiesa era stato inteso da Cristo esser stata data la chiave di autoritá senza chiave di scienza; che lo Spirito santo, donato per il reggimento della Chiesa, dalla divina Scrittura è chiamato spirito di veritá; e la sua operazione nelli governatori di essa e ministri di Cristo esser condurli in ogni veritá; che perciò Cristo ha partecipato alli ministri l’autoritá sua, perché insieme gli ha comunicato il lume della dottrina; che san Paulo a Timoteo, scrivendo d’esser constituito apostolo, si dechiara cioè dottor delle genti; che in due luochi prescrivendo le condizioni del vescovo, dice che sia dottore; che guardando l’uso della Chiesa primitiva si trovará che per tanto li fedeli ricorrevano per le dispense e dechiarazioni alli vescovi, perché erano assonti a quel carico li piú instrutti nella dottrina cristiana che si ritrovassero; che si poteva anco tralasciar l’antichitá, imperocché li scolastici e la maggior parte de’ canonisti hanno constantemente detto esser valide le dispense dei prelati clave non errante, e non altrimenti.

L’Ugonio ancora si offerí trattare sopra quell’asserzione «che l’istesso sia il tribunale di Cristo e del papa» come proposizione empia e scandalosa che uguagli il mortale all’immortale e il giudicio corruttibile al divino, e che nasceva da ignoranza, essendo il papa quel servo preposto sopra la fameglia di Cristo, non per far l’ufficio di padre di famiglia, ma solo per distribuire a ciascuno, non arbitrariamente, ma quello che dal medesmo padre è ordinato. Che restava pieno di stupore che orecchie cristiane potessero udire che tutta la potestá di Cristo sia comunicata ad altra persona.

Tutti parlarono, chi censurando una, chi un’altra delle asserzioni del gesuita. Ma il cardinale gli considerò che non si sarebbe fatto poco, ottenendo che nelli decreti pubblici del [p. 233 modifica] concilio non fosse aperto adito a quella dottrina, e a questo tanto conveniva che tutti mirassero; al qual fine piú facilmente sarebbono pervenuti, passando le cose con silenzio, e cosí lasciandole andar in oblivione, ché contradicendole averebbono fatto qualche pregiudicio alla veritá. Si quietarono, ma non sí che nelli privati congressi non se ne parlasse assai.

Ma li legati accomodarono li dui capi dell’instituzione de’ vescovi e della residenzia con parole cosí generali, che davano sodisfazione ad ambe le parti, e in maniera che piacquero anco a Lorena. Ma avendoli dopo consultati con li teologi pontifici e alquanti prelati canonisti, questi fecero opposizione che pativano interpretazione pregiudiciale all’autoritá della sede apostolica e alli usi della corte. Il vescovo di Nicastro, che molte volte aveva conteso di quella materia a favore delle cose romane nelle congregazioni, diceva apertamente che con quella forma di dire s’inferiva che tutta la giurisdizione delli vescovi non proveniva dal papa, ma una parte di essa da Cristo immediate, la qual cosa non era da tollerare in modo alcuno. Il medesmo sostenevano gli altri pontifici, interpretando in sinistro ogni parola, se apertamente non si diceva li vescovi aver tutta la giurisdizione dal papa. Per il che li legati mandarono li capitoli cosí riformati al pontefice, non tanto acciocché a Roma fossero esaminati, quanto anco per non propor in materia di tanta importanza cosa non saputa dal pontefice. Li quali veduti ed esaminati dalli cardinali preposti a questi negozi, giudicarono che quella forma bastasse per far tutti li vescovi nella propria diocesi uguali al papa. E il pontefice riprendeva li legati che gliel’avessero mandata, poiché sapeva molto bene la maggior parte nel concilio esser buoni cattolici e devoti della chiesa romana, e di questi confidandosi, si contentava che le proposizioni e resoluzioni fossero deliberate in Trento senza sua saputa; ma non doveva però esso acconsentire ad alcuna cosa pregiudiciale, per non dar cattivo esempio a loro ed esser causa che essi ancora vi assentissero contra la loro conscienzia. [p. 234 modifica]

Ebbe il pontefice in questo tempo un’altra negoziazione assai dura. Perché dovendo il re de’ romani mandar ambasciatori per dar conto dell’elezione sua, non volle far come gli altri imperatori e re, quali, non essendovi alcuna difficoltá, promisero e giurarono tutto quello che alli pontefici piacque; ma egli, avendo rispetto di non offender li principi e altri protestanti di Germania, volse prima che si dechiarasse che parole avesse da usare. Posta la cosa in consultazione de’ cardinali, quelli deliberarono che dovesse dimandar la conferma dell’elezione e giurar obedienzia secondo l’esempio di tutti gli altri imperatori. Al che egli rispose che quelli furono ingannati, ed egli non era per acconsentir cosa che dovesse esser poi presa a pregiudicio de’ suoi successori, come le azioni de’ suoi precessori si adoperavano a pregiudicio suo; e che era un dechiararsi vassallo; e propose che l’ambasciator suo userebbe queste parole: «che la Maestá sua presterá ogni reverenzia, devozione e ossequio alla Santitá sua e alla sede apostolica, con promessa non solo di conservare, ma di ampliar quanto potrá la santa fede cattolica». Non potendo concordare, durò il negoziato tutto quest’anno; e credettero a Roma d’averci finalmente trovato buon temperamento, proponendo che giurasse obedienzia non come imperatore, ma come re d’Ongaria e di Boemia, poiché dicevano non potersi negare che il re Stefano l’anno della nostra salute 1000 non donasse il regno alla sede apostolica, riconoscendolo poi da lei col titolo regio e facendosi vassallo, e che Vladislao duca di Boemia non ricevesse da Alessandro II la facoltá di portar la mitra, obbligandosi di pagar cento marche d’argento ogn’anno. Le qual cose consegliate in Germania, e veduto non essercene altri documenti che l’affermativa di papa Gregorio VII, furono derise, e rispostogli che desideravano esempi piú recenti e piú certi, e titoli piú legittimi. Andarono inanzi indietro méssi con varie proposte, risposte e repliche; delle quali per non parlar piú, sará bene riferir al presente l’esito. Il qual fu che venti mesi dopo arrivò in Roma il conte d’Elfestein, ambasciator di quel re, col quale si renovarono le medesime [p. 235 modifica] trattazioni di dimandar la conferma e giurar obedienzia. Ma dicendo egli d’aver in scritto l’orazione che aveva da recitar pontualmente, con commissione di non alterarne un iota, il papa, fatta congregazione generale, propose il negozio alli cardinali; li quali dopo longa consultazione vennero a conclusione che, se ben la conferma non sarebbe addimandata né l’obedienzia promessa, che nondimeno nella risposta all’ambasciatore si dovesse dire «che la Santitá sua confirmava reiezione, supplendo tutti li defetti de fatto e de iure intervenuti in quella, e che riceveva l’obedienzia del re», senza dire che fosse dimandata o non dimandata, promessa o non promessa. E riuscí quella ceremonia con poco gusto del pontefice e minor del collegio de’ cardinali.

Ma ritornando alli tempi de’ quali scrivo, restava al papa provveder alle frequenti instanzie, fatte dagli ambasciatori appresso di sé e dal conte di Luna in Trento, che si levasse il decreto del Proponentibus legatis; onde, saziato di tanta molestia, scrisse alli legati che si proponesse in congregazione di sospenderlo. Ma il Cardinal Morone alli ambasciatori, che dell’ordine venuto dal pontefice gliene fecero instanzia, rispose che non era per assentirvi mai, e piú tosto che condescender a tal dechiarazione desiderava che Sua Santitá lo levasse. Questa risposta, data senza partecipar con gli altri legati, aggionta ad altre cose che quel cardinale aveva risoluto solo, li posero in gelosia, come che s’innalzasse troppo sopra gli altri, parendo loro che se ben aveva distruzione a parte, non dovesse però eseguirla senza avvisargli prima e comunicargli intieramente tutte le cose, almeno nell’esecuzione.

Nella congregazione delli 21 giugno fu letta la risposta da far al presidente Birago, formata dalli legati e dal Cardinal di Lorena, la qual passò senza nessuna discrepanzia; e poiché non era presente, che potesse essergli intimata in voce, se gli mandò dietro in scrittura. E fu deputato Adamo Fumano per secretario aggionto al tilesio, il qual continuava nella sua indisposizione.

Ma durando tuttavia, anzi piú tosto accrescendosi, le differenzie sopra li capitoli dell’instituzione de’ vescovi e [p. 236 modifica] dell’autoritá del papa, e vedendosi che il parlarne in congregazione non era altro che un accrescer le difficoltá, quasi d’una comune concordia si posero li prelati a trattarne particolarmente e a propor partiti per trovar qualche temperamento alle differenzie. Alcuni, desiderosi di sopir le controversie e di far qualche progresso, vedendo che non vi era modo alcuno di concordia, consegnavano che l’una e l’altra materia si dovesse totalmente omettere; e se ben questo parere in fine fu ricevuto, nondimeno nel principio ebbe diverse contradizioni. S’opponevano li spagnoli, li quali onninamente volevano difinir che la giurisdizione episcopale venisse da Cristo (e il Cardinal di Lorena passava ancora piú inanzi, volendo difinir che la loro vocazione e l’attribuzione del luoco fosse immediate da Dio), e li francesi, che volevano dechiarata l’autoritá del pontefice, in maniera che non potesse né contravvenire né dispensare li decreti del concilio generale. Altri dicevano che questo partito non serviva se non a differire, senza certezza che la dilazione potesse esser di giovamento; perché volendosi poi venire al fine del concilio, saria necessario trattar di difinire tutte le materie esaminate, onde tornerebbono le difficoltá; e caso che li francesi partissero prima, come s’intendeva che erano risoluti di fare, era cosa pericolosa di scisma, dopo la loro partita, trattar alcuna cosa controversa; oltre che per l’intelligenzia di Lorena con l’imperatore, da chi non sapeva li novi pensieri dell’uno e dell’altro, si teneva che, partendo essi, quella Maestá dovesse rechiamar gli ambasciatori suoi, nel qual caso il continuar il concilio sarebbe stato con poca riputazione, e il determinar cosa alcuna sarebbe riputata da molti cosa fatta senz’autoritá.

Un’altra difficoltá non minore era nel capo dell’elezione de’ vescovi, perché gran parte de’ padri volevano che si dicesse esservi obbligo di elegger li piú degni; e in confirmazione di questo portavano numero grande di canoni e d’autoritá de santi dottori. Al qual parere si opponevano li pontifici, allegando che era un restringere l’autoritá del papa in maniera che non potesse mai gratificar alcuno, e che l’uso praticato nella corte da tempo immemorabile era che bastasse elegger [p. 237 modifica] persona degna. Li ambasciatori ancora francesi e spagnolo non acconsentivano, ché era un restringer troppo la potestá delli re nelle nominazioni, quando fossero stati in obbligo d’andar cercando il piú degno. Parecchi prelati andavano facendo pratiche acciò quel capo non fosse recevuto, eziandio senza l’aggionta dell’elegger li piú degni. E specialmente il vescovo di Bertinoro e il general Lainez gesuito, distribuendo alcune annotazioni e avvertimenti fatti da loro, andavano mostrando che sarebbono seguiti grandi inconvenienti da quel decreto, imperocché in quello si conteneva che, vacante una cattedrale, il metropolitano scrivesse al capitolo il nome del promovendo, il qual poi fosse pubblicato in pulpito in tutte le parrocchiali della cittá in giorno di dominica e affisso anco alle porte della chiesa; e poi il metropolitano, andato alla cittá vacante, dovesse esaminar testimoni sopra le qualitá della persona; e lette in presenzia del capitolo tutte le sue patenti e testificazioni, fosse anco ascoltato ognuno che volesse opponer cosa alcuna alla persona di quello: e di tutto ciò fosse fatto instrumento, e mandato al papa per esser letto in consistoro. Questa constituzione andavano discorrendo che sarebbe stata causa di sedizioni e di calunnie, e che con questo si dava certa autoritá al popolo, con la quale averebbe usurpato reiezione de’ vescovi, sí come altre volte la soleva avere. Dal che altri eccitati facevano le medesme opposizioni al capo dove si tratta di quelli che s’hanno a promover agli ordini maggiori; nel quale si diceva che li nomi loro dovessero esser pubblicati al populo per tre dominiche e affissi alle porte della chiesa, e le lettere testimoniali dovessero esser sottoscritte da quattro preti e da quattro laici della parrocchia; allegando che non era da dar alcuna autoritá ai laici in questi affari, che sono puri ecclesiastici. In queste perplessitá li legati altro non sapevano che fare, se non goder il beneficio del tempo, e aspettar che si facesse qualche apertura per venir al fine, al quale non si vedeva come poter giongere.

Un’altra nova trattazione fu incominciata intorno la riforma dei cardinali. Imperocché il pontefice, intendendo che per tutte le corti di questo si parlava, e che in Trento li ambasciatori [p. 238 modifica] di Francia, Spagna e Portogallo erano concertati di dimandarlo al concilio, scrisse alli legati dimandando conseglio se era ben trattarla a Roma o in Trento; e questo medesimo lo propose in consistoro, ordinando anco una congregazione sopra di questo, e particolarmente per trovar modo come ovviare che li principi non s’intromettessero nel conclavi nella elezione del papa. E per proceder con ogni avvertimento in negozio di tanto momento, mandò a Trento molti capi di riforma cavati da’ concili, con ordine alli legati di comunicarli con li prelati principali, e scriver il parer loro. Li cardinali di Lorena e Madruccio risposero di non voler dir il proprio parer senza saper prima la mente del pontefice, dopo il che sarebbe anco stato bisogno pensarvi molto bene; e in particolare quel di Lorena disse esservi molte cose stimate degne di correzione, che egli però non riputava potersi reprender, e altre che in parte si potevano biasmare, ma non assolutamente. Descese al particolar dell’aver vescovati, dicendo non esser alcun inconveniente che un cardinale prete tenesse vescovato, ma che non gli pareva bene che fosse vescovo un Cardinal diacono; e per questa causa egli aveva consegnato il Cardinal suo fratello a lasciar l’arcivescovato di Sens. Ma questa materia di reforma de’ cardinali presto si mise in silenzio, perché inclinando tutti quelli che erano in Trento piú tosto che fosse trattata dal papa e dal collegio, e quelli che pretendevano il cappello dubitando che non nascessero molti impedimenti ai loro desideri, fu causa che con facilitá si cessasse di parlarne.

Ebbe ancora il pontefice pensiero di far una constituzione che vescovi non potessero aver in Roma e nello stato ecclesiastico offici di maneggio temporale; ma dal legato Simonetta e da altri suoi prelati fu avvertito che sarebbe con gran pregiudicio delli ecclesiastici in Francia, Polonia e altri regni, dove sono conseglieri dei re e hanno altri uffici principali, potendo avvenir facilmente che ne fossero privati, valendosene li principi dell’esempio di Sua Santitá, ed eccitandosi la nobiltá secolare per li propri interessi a procurarlo. Per il che, se pur voleva dar esecuzione alla deliberazione sua, lo facesse con [p. 239 modifica] effetti e senza scrittura, per non portar tanto danno all’ordine ecclesiastico negli altri regni.

Il 25 del mese di giugno l’imperator, essendosi dall’esperienza delle cose certificato, o in questo tempo o ver due mesi prima, quando fu con lui il Morone, che la sua vicinitá al concilio non solo non faceva quel buon frutto che egli aveva stimato, ma piú tosto contrari effetti, perché li prelati pontifici, entrati in sospetto che Sua Maestá avesse disegni contra l’autoritá della corte romana, prendevano ombra d’ogni cosa, onde le difficoltá e suspicioni erano per aumentarsi in acerbitá e crescer anco in numero; e avendo altri negozi dove piú utilmente implicarsi, se ne partí, avendo scritto al Cardinal di Lorena che, essendosi toccata con mano l’impossibilitá di far cosa buona nel concilio, teneva esser ufficio di principe cristiano e prudente piú tosto contentarsi di sopportar il mal presente che, per rimediarlo, causarne di maggiore. E al conte di Luna, che tre giorni prima era andato a trovarlo in posta, ordinò di scriver al re cattolico sopra il decreto del Proponentibus legatis, esortando quella Maestá in nome suo a contentarsi di non cercar revocazione né dechiarazione; e quando pur restasse dubbio a Sua Maestá che, non dechiarandosi, potesse apportar pregiudicio alli futuri concili, si poteva, quando fosse bisogno, in fine di quello far la dechiarazione. Ed essendogli andata notizia che a Roma e in Trento si trattava di proceder contra la regina d’Inghilterra, scrisse al pontefice e alli legati che, non potendosi aver quel frutto che si desiderava dal concilio di veder una buona unione in tutti li cattolici a riformar la Chiesa, almeno non si dasse occasione agli eretici di unirsi tra loro maggiormente, che se gli prestava col trattar di proceder contra la regina d’Inghilterra; perché da quello senza dubbio gliene sarebbe nata una lega generale de tutti contra li cattolici, la qual averebbe partorito grand’inconvenienti. E fu cosí efficace l’ammonizione dell’imperatore, che il papa fece desistere in Roma, e revocò la commissione data alli legati in Trento.