Istituzioni di diritto romano/Introduzione/Sezione III/Secondo periodo/Capitolo I
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CAPITOLO I.
avvenimenti politici.
§. 66. La lotta fra Plebe e Patriziato, cominciata nel periodo antecedente, seguita in questo; cessa soltanto con la sconfitta dei Patrizj, ai quali vengono parificati i Plebei. Lo Stato Romano estende i suoi confini, l’Italia diviene Romana, ed il suo territorio è parificato all’antico Agro Romano. I paesi conquistati fuori di Italia sono ridotti in Provincie. Di cotali avvenimenti è prezzo dell’opera parlare con qualche diffusione, ed esaminarne gli effetti.
§. 67. La legge delle XII. Tavole fu compilata per uguagliare i Diritti del Patriziato e della Plebe. Ma l’uguaglianza dinanzi alla legge (aequalis legibus) se fu stabilita per riguardo al Diritto Privato, non lo fu per riguardo al Diritto Pubblico. Fusione fra i due ordini non si volle dal Patriziato; tanto che nelle due ultime Tavole fu confermato l’antico divieto dei connubj fra i patres e la plebs. Ne connubium patribus cum plebe esto. Tuttavolta nell’anni 309, dalla fondazione di Roma, il Tribuno Canulejo propose un Plebiscito, il quale aboliva il divieto di siffatti Connubj; e questa Lex Canuleja fu accolta.
§. 68. Mancava ai Plebei l’eligibilità alle Magistrature più dignitose della Repubblica. Ma nell’anno 310, i Tribuni della Plebe reclamarono pel loro ordine l’onore del Consolato. Ad eludere queste domande, i Patrizj fecero sostituire ai Consoli sei Tribuni Militari (Tribuni Militum), dei quali tre potevano essere scelti fra i Plebei. Più presto che ammettere la Plebe al Consolato, fu momentaneamente sospesa questa magistratura. Ma sebbene i Plebei potessero rivestire la dignità di Tribuni Militari aventi potestà consolare (tribuni militum consulari potestate,) di fatto riusciva ai Patrizj brogliando nei Comizj di escluderli, in special modo, con pretesti religiosi, facendo annullare dai Pontefici le elezioni dei Plebei. Il Potere di questi Tribuni Militari fu intermittente, e durante quaranta anni il Consolato e questo Tribunato alternativamente si succederono, secondo che la Plebe od il Patriziato aveva il disopra nella guerra fra questi due ordini combattuta.
§.69. I Patrizj fattisi accorti, che alla perfine non sarebbe loro venuto fatto di escludere la Plebe dal Consolato, nella impossibilità di difenderlo ulteriormente, lo smembrarono; togliendo ai Consoli le attribuzioni di capitale importanza, per conservarle all’ordine loro. Di quì ebbero origine la Pretura, la Censura, la Questura, e l’Edilità Patrizia.
§. 70. Ma invano i Patrizj così si maneggiarono. Imperocchè dopo un contrasto di bene 70 anni, Licinio Stolone Tribuno riuscì a fare ammettere le Plebe al Consolato, anzi la lex Licinia dell’anno 385 ordinò, che uno dei Consoli avesse necessariamente ad essere eletto fra la Plebe; e nell’anno 412, ambedue i Consoli poterono essere Plebei. Nel 418 furono i Plebei ammessi alla Pretura, e Quinto Publilio Filone fu il primo Pretore plebeo; nel 450, all’Edilità Patrizia o Curule, giunse perfino il figlio di un Liberto; e nel 502, Tiberio Coruncanio, plebeo di origine, ottenne la Dignità di Pontefice Massimo; capo di quel Sacerdozio, il quale nei primi tempi si reclutava soltanto fra i Patrizj.
§. 74. Una fra le cause del potere dei Patrizj, come dicemmo, era il loro privilegio di ottenere la possessio dell’ager publicus in modo illimitato; la quale se non era una assoluta proprietà, ne aveva pressochè tutti i vantaggi, senza il grave carico del pagamento delle imposizioni. Licinio Stolone per farsi sempre più accetto alle Plebe, e specialmente alla parte più povera della medesima, che era indifferente nella questione del Consolato, fece un altra rogazione (Lex Licinia de modo agri) per la quale si voleva che nessuno potesse possedere più di 500 jugeri nell’agro pubblico, nè mantenere sui pascoli dello stato (saltus publici) più di cento capi di grosso bestiame, e cinquecento di minuto. Ed anche questa legge fu approvata. E questa Lex Licinia (385) fu una delle prime leggi Agrarie, delle quali tanto si parla e che tanto vengono svisate; perocchè mentre si attribuisce loro l’intendimento non so se più stolto, o odioso, di allivellare le proprietà private, di uguagliare le ricchezze; esse miravano invece, a fare argine alle usurpazioni che sulla proprietà pubblica si commettevano per parte di un solo ordine di cittadini; a stabilire, che tutti indistintamente potessero godere dei vantaggi, da quella proprietà derivanti.
§. 73. Piaga dell’ordine Plebeo erano le usure rovinose, e rese più acerbe da esecuzioni personali crudeli a carico degli insolventi. I Patrizj, padroni di grandi ricchezze, prestavano ai Plebei il danaro ad un interesse eccessivo. Nella impotenza in cui questi ultimi si trovavano di dimettere i debiti contratti, erano obbligati a darsi in pegno, adoperando una vendita solenne per aes et libram, per la quale rimanevano in Mancipio del Creditore (Nexi), finchè non avevano scontato il debito; oppure il Creditore se li faceva aggiudicare in proprietà dal Magistrato quasi come schiavi (addicti). Il Tribuno Licinio aveva di già cercato di migliorare le condizioni dei Debitori con la sua rogazione sui debiti; la quale portava che le usure omai pagate si diffalcassero dal capitale, e che il residuo fosse rimborsato ad un tanto l’anno, dentro il termine di tre anni; quando nell’anno 428, le rigorose disposizioni della Legge delle XII Tavole sui Nexi, furono modificati da una Lex Petilia Papiria. Per questa legge fu proibito, che i Debitori si dessero per aes et libram in pegno ai Creditori. Ed ai Creditori, se fu lecito tuttora di imprigionare i Debitori insolventi, non fu più permesso di tenerli in ceppi, nè di esporli in vendita.
§. 73. Altre Leggi concederono alla Plebe non pochi vantaggi; esempigrazia mentre per lo innanzi ognuno doveva armarsi e militare a proprie spese, onere gravissimo pei poveri, fu stabilito pel futuro un soldo pei militi. Furono altresì ordinate delle distribuzioni di grano (frumentariæ largitiones). Fu soppresso per i proprietarj dei fondi limitrofi alle strade, l’obbligo di mantenerle; furono abolite le imposizioni repartite sul Censo.
§. 74. La maggior parte di queste Leggi favorevoli alla Plebe, ed alla parte più povera della medesima, furono provocate da Sempronio Gracco, dal quale ebbero nome. Egli fece rinnuovare la lex agraria di Licinio; e per le sue rogazioni non soltanto un certo numero di uomini liberi fu impiegato a coltivare l’ager pubblicus, ma a niuno fu lecito occuparne una maggiore estensione di quella, che con le proprie braccia potesse coltivare.
§. 75. Ancora nel Potere Legislativo la Plebe ebbe più larga parte, e ciò principalmente in forza delle Leggi Valeria Orazia (anno 305), della Legge Publilia (416), delle Legge Menia (467), e della Legge Ortensia (468), delle quali parleremo fra breve. Per le quali cose apparisce, come i Patres in questo periodo perdessero ogni giorno più la preponderanza, che avevano nel Governo della Repubblica. A questo resultamento conferì non poco la progressiva diminuzione di numero delle loro casate; diminuzione derivante dalle guerre che la Repubblica faceva continue, e dalla avversione, che per i perduti costumi il Patriziato aveva al Matrimonio. Aggiungasi esser fatto constatato dalla istoria di tutti i popoli, che la linea mascolina di qualunque stirpe a capo d’un certo numero di anni si estingue; lo chè anche in Roma intervenne. Così sparivano le differenze fra le due caste; esse insensibilmente si confusero insieme, ed ebbe termine quella lotta, che aveva avuto origine dalla diversa condizione giuridica, nei primi tempi di Roma, fra la schiatta dei vinti e quella dei vincitori.
§. 76. Ma al cessare di questa lotta, ne surse un’altra più triste e minacciosa, la lotta fra il povero ed il ricco. I Plebei divenuti diviziosi e potenti, ammessi a tutte le Magistrature, imitarono le arti degli antichi Patrizi; adoperarono lo stesso sistema di oppressione a carico dei poveri; col numeroso stuolo dei loro Servi impedirono la concorrenza del lavoro degli uomini liberi, i quali per maggiore sventura, disprezzando ogni industria come indegna di loro all’infuori dell’agricola, non potevano con i sottili proventi di questa, sopperire a’ loro bisogni. Le immense ricchezze affluite in Roma per lo spoglio dei popoli debellati fecero germogliare la più fatale corruzione; le prische virtù latine si fecero più rare; la mollezza, il lusso, il mal costume, le discordie intestine, indebolirono a poco a poco la Repubblica; talchè facilmente finì soffocata dalla tirannide Imperiale. Tale è il quadro degli avvenimenti politici più sporgenti che occorrono nell’epoca attuale; ma a colorirlo, importa accennare quale era l’organamento politico dello stato.
§. 77. Tre assemblee popolari differenti esistono sul principiare di questo periodo. Agiscono l’una a lato dell’altra, e le relazioni fra i loro poteri, sono per qualche tempo mutabili; esse hanno nome: di Comizj, Centuriati, Tribuni, e Curiati.
§. 78. A) I comizj Centuriati (Comitia Centuriata, Comitiatus maximus), hanno l’esercizio più incontestato del potere Legislativo. Votano sulle leggi che vengono loro proposte, eleggono i più notabili magistrati, specialmente i Consoli. Le Curie avevano un tempo la facoltà di approvare le leggi votate dalle Centurie, o di rifiutare a quelle il loro assenso; ma dopo la lex Publilia (415) questa approvazione fu dichiarata inutile. Le Curie dovevano per lo innanzi, sanzionare le elezioni alle Magistrature fatte dalle Centurie; per la Lex Moenia anche il bisogno di questa sanzione fu tolto. La Legge Decemvirale eresse i Comizj Centuriati in Tribunali Criminali, competenti a giudicare qualunque Cittadino; tuttavolta per molto tempo ancora i Patrizj si arrogarono il Diritto, di giudicare nuovamente nei Comizj Curiati, quelli della loro casta giudicati dalle Centurie; e viceversa i Tribuni della Plebe citarono spesso dinanzi ai Comizj Tributi, i Magistrati, che dalle Curie erano stati assoluti.
§. 79. È da osservare che in questo periodo, ma in epoca che non sappiamo precisare, nello organamento delle Centurie si verificò una notabile mutazione. Le Classi e le Centurie vennero ridotte a suddivisioni delle Tribù, ed alle Tribù furono ascritti non soltanto i Patrizj, ma ben anco i Plebei. La Riforma in discorso, pare che fosse attuata nel modo seguente. Ogni Tribù, che comprese d’ora innanzi anche i Patrizj, fu divisa nelle cinque classi istituite da Servio Tullio, fondate sul Censo. Ogni Classe fu suddivisa in due Centurie, una di Juniores l’altra di Seniores, di modo che ogni Tribù venne ad avere cinque classi e dieci Centurie. E quando sul cadere della Repubblica, le Tribù furono trentacinque in tutte, constarono di trecentocinquanta Centurie, delle quali 175 di Juniores, ed altrettante di Seniores. Ed essendo ognuna delle trentacinque Tribù divisa in cinque Classi, ed ogni Classe in due Centurie, le cinque Classi istituite da Servio Tullio vennero cumulativamente ad avere ciascheduna trentacinque Centurie di Juniores e trentacinque di Seniores, cioè settanta Centurie per Classe. Per siffatta maniera scomparve la preponderanza, che per la costituzione di Servio Tullio, aveva la prima Classe (da esso composta di ottanta Centurie) sulle altre, che constavano di venti Centurie, come la seconda la terza e la quarta; o al più di trenta Centurie, come la quinta. Nel nuovo sistema, per lo contrario, ogni Classe ebbe settanta Centurie, sparse due a due nelle trentacinque Tribù. I cittadini di ognuna delle cinque classi votavono nella respettiva Tribù, e quando tutti avevano votato, lo spoglio dei voti si faceva per Tribù. La prima Classe conservò in ciascheduna Tribù il privilegio di votare la prima.
§. 80. B) I Comizj tribuni, ossia della Plebe, si occupavano degli affari risguardanti la medesima. In essi erano eletti i Tribuni, ed altri Magistrati di minor conto. La Plebe discuteva in questi Comizj sulle proposizioni, che poi dovevano essere sottoposte alle Centurie. Le Decisioni dei Comizj Tributi chiamavansi Plebiscita, mentre quelle dei Comizj Centuriati, Populiscita. Un Plebescito aveva forza di legge quando era stato sanzionato dai Comizj Curiati e dal Senato; ciò per disposto della lex Horatia Valeria (305). Ma la Lex Publilia (416) dispensò i Plebisciti dalla Sanzione delle Curie, come da questa sanzione, vedemmo, che dispensò anche i Populisciti, o Decreti delle Centurie. Finalmente la lex Hortensia (468) diede forza di legge a qualunque Plebiscito, ancorchè non sanzionato dal Senato. I Plebisciti obbligarono allora universum populum, e le leges populi o populiscita ebbero lo stesso valore dei plebiscita. Da questo momento in poi, la Plebe divenne parte dello Stato; ed i Tribuni furono Magistrati della nazione, e non di un solo ordine della medesima.
§. 81. C) I Comizj Curiati vennero meno nell’importanza loro primitiva, a mano a mano che aumentò quella dei Comizj Tributi; e sull’ultimo non ebbero altro potere, che di conferire l’imperium ai Magistrati eletti, ossia di dare loro l’investitura dell’ufficio. Rimase per qualche tempo una reminiscenza di questi Comizj nella assemblea dei trenta Littori, assistiti dagli Auguri e dai Pontefici; finchè essa pure disparve.
§. 82. In questo secondo periodo, al Senato spettava l’amministrazione degli affari pubblici sì interni che esterni; provvedeva all’ordinamento del culto; vegliava alla sicurezza esterna dello stato; trattava gli affari internazionali; presiedeva all’organamento dell’esercito; decretava le imposizioni, e amministrava le pubbliche rendite; statuiva sul bottino e sul territorio conquistato, e nominava nel suo seno i commissarj destinati a reggere ed ordinare i paesi sottomessi. I Decreti del Senato dovevano essere obbediti, quando regolari, e purchè un Tribuno non avesse opposto ai medesimi il suo veto. Questi Decreti (Senatusconsulta) erano trascritti nei libri pubblici e deposti nel Tempio di Cerere, ove erano gli Archivj, custoditi dagli Edili Plebei. Dal momento di questa trascrizione e deposito, acquistavano forza di legge. Quando a un Decreto del Senato fosse stato opposto il veto da un Tribuno, o quando quel Decreto per qualche ragione di forma non fosse stato regolare, doveva essere redatto in iscritto, ma come semplice autorevole opinamento (senatus auctoritas), e se ne traeva motivo per una proposizione nuova al Senato o al popolo. I Consoli, ed in loro assenza i Pretori, come pure i Tribuni della Plebe, potevano convocare il Senato con un Editto, o in caso di urgenza per mezzo di Cursori; e le adunanze si facevano in un luogo sacro; non è certo se fossero o no periodiche. Il Decano del Senato era il primo a votare, in seguito votavano gli altri per ordine di anzianità, e poi di dignità derivante da orrevoli uffizj esercitati nella Repubblica. Quei Senatori, che avevano rivestito dignità curule, potevano motivare il loro voto. Dopo i Re, furono i Consoli, e quindi i Censori, che scelsero i membri del Senato. Senatori furono da primo i soli capi delle Gentes, in seguito i più notevoli Patrizj; finalmente i Magistrati insigniti di dignità curule, ebbero seggio, e voto in Senato; e quivi rimanevano, anche deposto l’ufficio loro, fino al prossimo lustro; allora non venendo eletti dai Censori, uscivano. Negli ultimi tempi della Repubblica fu stabilito un Censo Senatorio in 800,000 Sesterzj, il doppio di quello dei cavalieri, censo che Augusto poi accrebbe. La Dignità di Senatore in origine limitata ad un lustro, fu a vita; ma si perdeva per cagione di infamia e di esclusione censoria.
§. 83. Una parola ora, delle Magistrature. Erano queste Ordinarie e Straordinarie.
A) Ordinarie, cioè elette ad epoche fisse, erano: a) I Consoli b) i Pretori c) i Censori d) gli Edili Curuli, e) i Questori.
§. 84. a) I Consoli erano due, ed il loro ufficio durava un anno. Succeduti ai Re, ne ereditarono quasi tutti i poteri; quindi anch’essi furono capi del potere esecutivo, e generali degli eserciti. In origine ebbero competenze giudiciarie, tennero il Censo dei cittadini, ordinarono le feste pubbliche; ma perderono queste attribuzioni, quando i Patrizj smembrarono il Consolato, affinchè tanta somma di poteri non cadesse in mano di un Plebeo. Stando in Roma, presiedevano al Senato ed ai Comizj Centuriati; e fino agli ultimi tempi della Repubblica, dalle sentenze del Pretore si appellava a loro. Ma essendo pressochè continuo lo stato di guerra, poco si occupavano degli affari interni, ed alle faccende belliche quasi esclusivamente attendevano, dividendosi fra loro o a sorte, o per accordo, il comando. Negli ultimi tempi della Repubblica cessarono dal capitanare gli eserciti, e passarono ordinariamente l’anno in Roma, scorso il quale ottenevano l’amministrazione di una qualche provincia (pro consule.)
§. 85. b) Una magistratura, più delle altre prossima a quella dei Consoli, era la Pretura. La voce Praetor deriva da præ ire, ed indica il primo uffizio della Repubblica; e però questo nome prima si attribuiva ai Consoli, dei quali il Pretore poi fu collega e sostituto nella Città, nel Senato, e nelle Assemblee Popolari, quando i Consoli, erano al campo. Quello che nel primo periodo era il Custos urbis, in questo, sotto il titolo di Praetor Urbanus, lo fu il Pretore; il suo impero era minore di quello dei Consoli, ai quali prestava ossequio ed obbedienza. Allorquando la Plebe fu ammessa al Consolato, la Pretura fu riconosciuta qual Magistratura indipendente e separata dal Consolato, rivestita di competenze giudiciarie, e conseguibile soltanto dai Patrizj. Il Pretore Urbano non poteva giudicare se non che nelle liti insorte fra i cittadini Romani. Lo Straniero, lo dicemmo, per far valere i proprj Diritti in Roma, era astretto a nominarsi un Patrono fra i cittadini, che lo rappresentasse ed agisse per lui in giudizio. Ma aumentate le relazioni dei Romani con gli Stranieri, e molti di questi stabilitisi in Roma, siffatto sistema come incomodo troppo fu abbandonato, e nel 507. fu creato un Pretore per amministrare la Giustizia fra gli Stranieri, o fra Cittadini e Stranieri; Esso fu detto Prætor Peregrinus. Allora uno dei Pretori fu sempre Patrizio, l’altro Plebeo. Il Pretore Peregrino aveva la sua residenza in Roma, da dove partiva per fare un giro nelle Provincie, nelle quali la sua presenza era reclamata dal bisogno di decidere liti. Estese le conquiste del popolo Romano, fu di mestieri eleggere dei Pretori speciali per le Provincie; così due Pretori furono eletti per la Sicilia e la Sardegna, e due per la Spagna citeriore ed ulteriore. Il loro numero poi si accrebbe fino a dieci; ma il Pretore Urbano ebbe sempre supremazìa sugli altri; e tanto grande reputavasi l’importanza del suo ufficio, che non gli era lecito assentarsi da Roma per più di dieci giorni. Dopo l’anno del loro ufficio i Pretori passavano a governare le Provincie (pro prætore.)
§. 86 c) I Censori, eletti dalle Centurie nel seno del Senato, non si ingerivano se non che in affari di economia pubblica. Dirigevano l’ufficio del Censo, regolavano le imposizioni, e gli appalti delle pubbliche rendite; amministravano il demanio, ed allogavano a cottimo i lavori e le costruzioni, richiesti dai bisogni dello Stato. Questa Magistratura durava diciotto mesi e si rimuoveva ogni cinque anni, nè poteva essere esercitata da un cittadino più di una volta in sua vita. Sindacava rigorosamente i costumi e le azioni di tutti: ed a suo libito, taluno premiava inalzandolo, tal altro abbassando puniva; avvegnachè i Censori, come rettori del Censo, potessero far mutare ai cittadini, classe, centuria, o tribù, degradare i Senatori ed i Cavalieri, sospendere in qualunque cittadino l’esercizio dei Diritti Politici, escludendolo dal Censo, e collocandolo fra gli Ærarii. Di quì la reverenza ed il rispetto con cui si proseguiva questo uffizio, che si deferiva ai consolari più illustri.
§. 87. d) Gli Edili Curuli furono due Magistrati, che i Patrizj vollero creati per la classe loro, a somiglianza degli Edili Plebei, ma che furono rivestiti di attribuzioni più elevate. Gli Edili Plebei erano in origine incaricati della Polizia sotto la direzione dei Tribuni; istituiti gli Edili Curuli, a quei primi rimasero funzioni subalterne, come la sorveglianza dei mercati, della nettezza delle vie, dell’esattezza nei pesi e nelle misure; e questi ultimi ebbero invece l’alta Polizìa; quindi ebbero a sopravvedere al mantenimento delle Strade, dei ponti, dei templi e degli anfiteatri, allo approvigionamento della città; ai giuocchi pubblici, all’uso legale dei campi e dei pascoli pubblici, al rispetto pel culto dello Stato, alla punizione degli avvelenatori degli Stregoni, Usuraj ec. In cotali ingerenze avevano una giurisdizione loro propria. Queste due Classi di Edili si confusero con l’andar del tempo, ma non sappiamo come, nè perchè.
§. 88 e) I Questori erano i Depositarj e Custodi del Tesoro. Due in origine, il loro numero venne raddoppiato (335) quando i Plebei furono ammessi a quest’uffizio; ed allora due furono urbani, e due militari. Questi ultimi accompagnavano i Consoli al campo in qualità di Commissarj. Silla portò il numero dei Questori a venti, Giulio Cesare a quaranta. Tali Questori del Tesoro furono una Magistratura ben diversa dai Questori Giudici, cioè dai quæstores seu duumviri perduellionis et parricidii, di cui parlammo nel primo periodo, e dal quæsitor o quæstor, col qual nome si indicò, dopo la istituzione di tribunali permanenti, (quæstiones perpetuæ), il Pretore che li presiedeva.
§. 89. B) Magistrati Straordinarj erano: a) il Dittatore b) L’ Interrè.
a) Il Dittatore aveva la somma di tutti i poteri dello Stato; le altre Magistrature, esclusi i Tribuni, alla sua nomina cessavano dalle respettive funzioni; il suo uffizio durava sei mesi; a questo fu eletto, dai Consoli, da primo con la ratifica delle Curie, poi del Senato. Appena eletto gli si dava per compagno un magister equitum. In origine il suo assoluto potere non pativa limitazione, ed inappellabili erano le sue decisioni; ma i Patrizj ottennero ben presto la facoltà di appellarsene alle Curie, e poi i Tribuni riuscirono con artifizj diversi ad opporsi alla sua arbitraria autorità. A mano a mano che la Plebe crebbe in importanza nel governo della cosa pubblica, diminuì il potere dittatoriale; in seguito il Dittatore fu eletto in emergenze di poco rilievo, ed insensibilmente questo Magistrato sprarì. Invece di nominare un Dittatore, allora usò il Senato nei casi di urgente pericolo, di estendere i poteri dei Consoli con la celebre formula: Videant consules ne quid detrimenti respublica capiat.
§. 90. b) Interrè (Interrex) fu in origine il Senatore, che durante la vacanza del Trono, esercitava le funzioni ed i poteri regali. Poi fu chiamato con questo nome, chi esercitava i poteri Consolari, mancando i Consoli. Questa Magistratura, lungamente interrotta, occorre ancora sul finire della repubblica. L’Interrè durava in uffizio cinque giorni, scorsi i quali se ne nominava un altro. La sua incumbenza più importante era quella di presiedere i Comizj per la elezione di nuovi Consoli, in surroga di quelli usciti di uffizio. Questa Dignità fu sempre riserbata ai Patrizj, i quali oltre ad essere esclusivamente eligibili a quella, ne furono eziandio costantemente gli elettori.
§. 91. I Tribuni della Plebe non erano primitivamente Magistrati, poichè non avevano amministrazione, ma dovevano soltanto per via di intercessioni e di proposizioni, tutelare gli interessi della Plebe, e fare da arbitri nelle questioni che insorgevano fra Plebei e Plebei. Poi si arrogarono il Diritto di citare dinanzi ai Comizj Tributi i Patrizj, che avessero offeso la Plebe. Protetti dalla loro inviolabilità, spinsero tanto oltre la loro audacia da fare arrestare, coloro che ad essi si opponevano; non si lasciarono atterrire dall’aurorità Consolare, e Censoria, e sfidarono perfino il potere Dittatoriale. Quando cessò l’antagonismo fra Plebei e Patrizj, i Tribuni non tutelarono più soltanto gli interessi della Plebe; si opposero invece a qualunque atto arbitrario di ogni Magistratura, frenandone col sindacato più rigoroso ogni abuso di autorità, ed opponendo il loro veto ai suoi Decreti. Mutata la costituzione delle Centurie, i Tribuni divennero Magistrati di tutta la Nazione, ai quali i Patrizj stessi ebbero ricorso per avere difesa e protezione. Presiedevano i Comizj Tributi, ed avevano il Diritto di convocare il Senato. Allorchè la preponderanza dei Patrizj teneva i Tribuni uniti e concordi, ordinariamente deliberavano in comune ed a pluralità di voti, sulla linea di condotta che dovevano seguitare nel favorire gli interessi della Plebe; ma in progresso di tempo furono visti disuniti, e non di rado si valsero della facoltà, che ebbero sempre, di opporsi l’uno ai provvedimenti ordinati dall’altro. Il potere Tribunizio non si estendeva, al di là di un miglio da Roma, onde di notte non potevano assentarsi, ed ove dovevano stare sempre parati a qualunque evento. I Tribuni, il numero dei quali nell’anno 360 di Roma fu esteso fino a dieci, erano eletti nei Comizj Tributi, presieduti da un Tribuno tratto a sorte, ed i membri del Collegio Tribunizio erano obbligati, sotto minaccia di pena capitale, a surrogare nuovi Tribuni a quelli che uscivano di uffizio. Eligibili a questo uffizio furono sempre i Plebei, esclusi oltre i Patrizj anche coloro che cuoprivano una dignità curule, o che erano figli di persona che quella dignità avesse rivestito. Nessun Tribuno poteva divenire Senatore; e nessun Senatore poteva divenire Tribuno; cosí fino al 541, anno nel quale il Plebiscito Antiniano tolse questo divieto; ai tempi di Silla per lo contrario, i soli Senatori poterono essere Tribuni.
§. 92. Ma le Magistrature di Roma non erano queste sole: ve ne erano altre, ma di tanto minore importanza che basterà indicarle coi loro nomi; tali erano i Decemviri litibus judicandis, giudici civili, i tresviri capitales che avevano attribuzioni di polizìa giudiciaria, i tribuni aerarii esattori delle imposizioni, i quatuorviri viarum, i tresviri monetales ed altri ancora.
§. 93. I Magistrati avevano poi, come loro ausiliarii e sottoposti, degli scrivani, degli usceri o cursori, ed i più importanti come i Consoli, dei littori; i quali impiegati subalterni erano pagati dallo Stato e formavano delle corporazioni. Un Consiglio assisteva ogni pubblico ufficiale; il Senato era il Consiglio dei Consoli di Roma. I Magistrati si distinguevano ancora in Curuli e non Curuli, ossia in maggiori o minori; i primi avevano come distintivo onorifico una sedia curule; onde il loro nome, ed avevano gli auspicia maxima. I Consoli, i Pretori ed i Censori erano, fra i Magistrati ordinarj, quelli che godevano di questo privilegio. Ai magistrati non si dava stipendio, ma la Repubblica li forniva di tutto il necessario, e provvedeva a tutte le loro spese, affinchè facessero orrevole mostra nelle comparse pubbliche, nelle legazioni, ed in generale nel disbrigo di tutte loro incumbenze. Una certa età si richiese ben presto, per essere eligibili alle Magistrature, le quali non potevano essere conseguite che passando per una progressione di uffizj, l’ordine della quale fu stabilito da Silla. Vietato era il cumulo degli impieghi, e niuno poteva prima di dieci anni essere rieletto alla medesima dignità. I Magistrati maggiori nell’esercizio delle proprie funzioni, avevano il Diritto di fare eseguire i proprj Decreti o le proprie Ordinanze, con multe e sequestri; ed alcuni, che godevano l’imperium, potevano punire col carcere e con castighi afflittivi i disobbedienti. Bene definite erano in Roma le attribuzioni di ciascheduna Magistratura, ma nella periferia di quelle, il potere del pubblico ufficiale era illimitato; niuno era sottoposto allo altro; nè ricevevano un comando cui dovesse obbedire. Garanzìe contro gli abusi di potere dei Magistrati erano: la brevità della durata di loro funzioni, dopo le quali dovevano render conto del loro operato, ed anche soffrire una accusa quando fossero stati creduti colpevoli; l’esistenza contemporanea di più persone esercenti lo stesso ufficio, ognuna delle quali poteva opporre il proprio veto al fatto dei colleghi; finalmente l’intervento di un Augure. Ogni Magistrato doveva adempire il suo ufficio secondo la volontà degli Dei, e gli auspicii erano il mezzo per riconoscerla; ma gli auspicii erano interpretati e giudicati dall’Augure, il quale quando li dichiarava contrarj (obnuntiatio,) vietava al Magistrato di agire. Vero è bene, che l’Augure non ricorreva agli auspicii, senza esservi eccitato dal Magistrato (spectio.) Gli auspicii erano anche il mezzo col quale alcune Magistrature, e precisamente quelle che avevano gli auspicia maxima, paralizzavano l’attività di altre; giacchè si riconosceva, che potessero interrogarli e proporli non solo per i proprj fatti, ma anche per quelli altrui. Onde un Magistrato poteva con l’obnuntiatio impedire una adunanza popolare, convocata da un altro, che avesse gli auspicia minora. Era questo una specie di veto religioso, analogo a quel veto politico, che sotto il nome di diritto di intercessione, intercessio, esercitavano specialmente i Tribuni.
conquiste della repubblica nell’italia e nelle provincie
(A) L’Italia.
§. 94. Le inclinazioni armigere dei Romani, il loro coraggio indomito, la strategia raffinata dei loro condottieri, procaccciarono loro estese conquiste, tanto che alla fine del quinto Secolo, tutti i popoli dell’Italia erano sotto la dipendenza di Roma.
§. 95. Allorquando i Romani soggiogavano un popolo, ordinariamente riducevano in condizione servile gli abitanti, confiscavano i beni immobili a favore della Repubblica; i mobili dividevano fra i soldati. La nazione, che desiderava evitare queste sventure, doveva sottomettersi a discrezione (deditio) I Deditizj conservavano la maggior parte dei loro beni territoriali, ma perdevano la loro autonomìa.
§. 96. Ma non sempre veniva fatto ai Romani di ottenere, che presi da spavento, i loro avversarj si dessero a discrezione; nè sempre potevano pienamente soggiogarli. Allora offrivano a questi popoli o di unirsi a Roma come alleati (Socii, fœderati,) o di venire a far parte dello Stato Romano. I popoli incorporati pei primi, furono ricevuti ad ottime condizioni, come avvenne ai Tizj ed ai Luceri; i successivi non ugualmente; ed in vero ad essi fu accordata una cittadinanza imperfetta e manchevole, come quella dei primitivi Plebei, ai quali era vietato contrarre nozze romane (connubium) coi Romani primitivi (patres), ed impedito di prender parte attiva alle assemblee pubbliche, dandovi il voto (suffragium). Le alleanze o federazioni, che i Romani strinsero con i popoli non pienamente debellati, ponevano questi ultimi realmente in una relazione di dipendenza da Roma. I Socii o federati infatti, perdevano il Diritto di far guerre per conto proprio, ed incorrevano nell’obbligo di ajutare i Romani nelle guerre loro con sussidii di uomini armati, di provvisioni e di danaro. Seguitavano per altro, a reggersi nell’interno con leggi proprie, con i loro magistrati, e con assemblea popolare simile a quella di Roma.
Vuolsi avvertire che la qualità di queste alleanze era varia, tanto per riguardo a tutto Stato alleato, quanto per riguardo alle relazioni dei membri del medesimo con Roma. Cotali federazioni erano più o meno svantaggiose ai federati a seconda della circostanze propizie o sfavorevoli per i Romani, nelle quali erano state concluse. Talvolta agli alleati i Romani accordavano la cittadinanza (civitas), tal altra, alcuni dei Diritti della medesima.
§. 97. Per fare intendere l’importanza di queste concessioni, è necessario accennare quali facoltà giuridiche la cittadinanza Romana comprendesse. L’Jus quiritium, l’Jus civitatis, del quale godevano i cittadini Romani, si componeva di Diritti pubblici, come il suffragium e gli honores, e di Diritti privati come il connubium ed il commercium. Il Connubium era la facoltà di contrarre nozze legittime (justæ nuptiæ,) vale a dire nozze coerenti al disposto del Diritto Romano, le quali sole producevano effetti civili, come la Patria Potestà Romana, e l’Agnazione Romana. Il Commercium era la facoltà di concludere, negozj giuridici secondo l’Jus Civile, di acquistare la proprietà Romana (dominium ex jure. quiritum,) di far testamento con le forme Romane, di figurarvi come Erede, Legatario o Testimone (testamentifactio). Da questo Commercium in senso tecnico, bisogna distinguere il Commercium nel senso generale, e proprio dell’Jus gentium; vale a dire la possibilità della trasmissione dei beni e delle contrattazioni, senza forme ed effetti Romani. Il suffragium era il Diritto di votare nei Comizj di Roma. Gli honores costituivano l’eligibilità alle Romane Magistrature. L’essenza dell’Jus Civitatis risiedeva nel godimento del commercium e del connubium; tanto è vero che gli ærarii, i quali pure erano cittadini, non godevano del suffragium, nè degli honores. Si chiamavano Optimo jure Cives coloro che godevano di tutti i prefati Diritti sì pubblici che privati, non optimo jure Cives, coloro che godevano dei soli diritti privati. I non cittadini, non cives o Peregrini sebbene mancassero del connubium, avevano facoltà di contrarre nozze secondo il Diritto delle genti; come pure, sebbene non avessero il commercium nel senso tecnico e rigorosamente Romano, avevano facoltà di comprare e di vendere, ed acquistare la proprietà secondo quel Diritto.
§. 98. Fra i Socii meritano una speciale menzione i Latini (nomen Latinum.) Essi ebbero il Commercium, e di più furono dichiarati capaci di acquistare la cittadinanza Romana sotto alcune condizioni, delle quali avremo occasione di parlare in seguito. Di quì ebbe origine quel particolare Diritto (jus) che fu detto Jus Latinorum, Jus Latii, Latinitas, e che fu quasi una transizione fra la Romana Cittadinanza e la Peregrinità.
§. 99. Diciotto città Latine, che erano rimaste fedeli a Roma durante la guerra (avvenuta nel 416) dichiaratale da molte città del Lazio, avevano una onorifica partecipazione ai Diritti Politici. Gli abitanti di queste città, detti Latini veteres, se si trovavano in Roma nell’epoca dei Comizj, potevano prender parte alle pubbliche assemblee, e darvi il loro suffragium in una Tribù che la sorte designava.
§. 100. La diversità nelle condizioni di alleanza dei Socii o federati col popolo Romano, era stata da Roma studiosamente cercata nell’opinione, che la differenza degli interessi, li avrebbe dissuasi dal fare causa comune a danno dei loro, più presto oppressori, che alleati. Ma l’esperienza dimostrò la fallacia di questa che pareva accorta politica, imperciocchè sia che la disuguaglianza delle sorti mal contentasse tutti, sia che la supremazìa Romana riuscisse incomportabile generalmente; gli alleati o Socii si collegarono contro Roma, e cominciarono (anno 662) quella famosa guerra, detta Sociale, che pose in grave pericolo lo Stato Romano. Il Senato fu astretto a concedere la cittadinanza a molte città, con la celebre legge Julia De Civitate Sociis danda (662) per mantenersele amiche; e tre anni dopo, a quelle che erano state vinte dopo una ostinata resistenza, affinchè non tornassero alle ostilità, dovè estendere lo stesso benefizio mediante la legge Plautia de civitate.
§. 101. Ad ovviare al pericolo che questo ingente numero di nuovi cittadini, sparsi in tutte le Tribù, non acquistassero predominio sugli antichi, vennero allora create otto nuove Tribù nelle quali furono accumulati; le quali in seguito, sembra che fossero repartite fra le 35 di già esistenti. In questa guisa tutti gli abitanti dell’Italia giunsero a godere della Romana Cittadinanza; ma a questo non si limitarono i loro vantaggi; il territorio da essi abitato godè anche dello Jus Italicum.
§. 102. L’Jus Italicum portava seco l’esenzione dal pagamento di ogni tributo fondiario a Roma, l’attitudine del Suolo ad essere obietto di proprietà quiritaria, la possibilità di acquistarlo, trasferirlo e trasmetterlo con le forme civili Romane. I paesi ai quali non era conceduto l’Jus Italicum erano a cattivo partito. E valga il vero, in conseguenza della conquista, il popolo Romano si reputava proprietario di tutti i beni territoriali dei popoli sottomessi, e sebbene ordinariamente li rilasciasse agli antichi proprietarj perchè li coltivassero e ne usufruissero, non considerava costoro se non che come detentori aventi un semplice possesso ed usufrutto, derivante dalla concessione sua, in correspettività della quale esigeva un tributo.
§. 103. In Italia, dall’anno 665 in poi, tutte le città goderono di una libera amministrazione interna, fossero esse Municipj, Prefetture o Colonie.
a) Chiamavansi Municipj, le antiche città italiane i cui abitanti avevano la cittadinanza Romana, e potevano esercitare magistrature in Roma. Quanto all’amministrazione dei loro affari interni, avevano assoluta indipendenza da Roma. A capo di questi Municipj era un’assemblea popolare, e poi un più limitato consiglio o Senato (Curia,) i cui membri chiamavansi Decuriones. Due o quattro Magistrati, con un potere analogo a quelli dei Consoli Romani, ma senza autorità militare, per un anno esercitavano il potere supremo, ed amministravano la giustizia civile e criminale (duumviri o quatuorviri juridicundo.) Vi erano inoltre degli Edili, degli Amministratori delle Finanze, ed altri Magistrati inferiori, eletti tutti dagli abitanti. Il censo, sebbene modellato sul Romano, era da quello indipendente; ed ogni Municipio godeva la proprietà di beni particolari municipali; ma non poteva cambiare le leggi votate dai Comizj di Roma, nè i Senatusconculti.
b) Prefetture erano quei Municipj, che avevano essi pure la libera amministrazione dei loro affari interni, ma nei quali un Prefetto nominato dal Popolo Romano o dal Pretore, esercitava il potere giudiciario.
c) Le Colonie erano stabilimenti militari fondati da Roma per tenere in rispetto i popoli conquistati, impedire le invasioni nemiche; presidii e fortezze dello stato, piazze d’arme che servivano di appoggio alle operazioni guerresche (Vedi Walter Storia del Diritto di Roma Libro I, cap. 25.) Fra queste distinguevansi le Coloniæ civium, e le Coloniæ latinæ. Le Coloniæ civium o Coloniæ Romanæ, erano composte di cittadini Romani emigrati spontaneamente, o mossi dall’attrattiva di assegnazioni di terre, i quali conservavano la cittadinanza Romana, ma si constituivano in comune speciale con una amministrazione propria, I precedenti abitanti del luogo erano soggetti al nuovo comune fondato dai coloni, ottenendo probabilmente la civitas sine suffragio, e senza ingerenze nella pubblica amministrazione. Queste Colonie avevano in sostanza, gli stessi Diritti dei Municipj. Le Coloniæ Latinæ erano composte principalmente di Latini o di altri popoli alleati, che la politica di Roma mandava sul territorio conquistato, al quale voleva assicurata una speciale protezione e difesa. I cittadini Romani, che venivano a far parte di queste Colonie, perdevano la pienezza del loro Diritto quiritario, ritenendo soltanto la personalità giuridica che portava seco l’Jus Latii, che era la legge di tali Colonie Latine. Questa fu la ragione, per la quale così pochi cittadini Romani le popolarono. Soltanto i più poveri, adescati dalle distribuzioni di terre, che ivi loro si facevano, vi concorsero.
(B) Le Provincie.
§. 104. Conquistata l’Italia, e così chiamavasi allora quella parte della penisola compresa fra il Mediterraneo e la Magra, l’Adriatico ed il Rubicone, non fecero sosta le armi vittoriose dei Romani. La Sicilia, la Sardegna e la Corsica, poi la parte meridionale della Spagna; le Gallie, la Brettagna, più tardi l’Illiria, la Macedonia, la Grecia, l’Asia minore, l’isola di Cipro, la Siria, la Fenicia e la Palestina, Cartagine, la Numidia e l’Egitto, furono successivamente sottomesse; ai tempi di Cesare, Roma era padrona di tutti i paesi bagnati dal Mediterraneo. Questi paesi, fuori d’Italia, sottoposti al dominio Romano, e governati da un Magistrato Romano, chiamavansi Provincie.
§. 105. Il primo assetto di queste Provincie si faceva dal capitano, che le aveva conquistate. Il Senato poi, emanava un ordinamento stabile e speciale (forma provinciæ), insomma la costituzione provinciale. Cotali costituzioni, con le quali si riduceva in provincia (in provinciam redigere) il paese sottemesso, ne alteravano non poco il pristino governo. Abbenchè le forme governative date ad ogni provincia, non fossero assolutamente uguali, e diversificassero a seconda delle varie condizioni della sommissione, tuttavìa alcuni caratteri comuni riscontransi in tutte, e questi è prezzo dell’opera l’indicare brevemente.
§. 106. La somma dei poteri risiedeva nelle mani di un Governatore, che da primo fu un Pretore speciale, poi un Magistrato uscito di uffizio, e specialmente un ex-pretore, o un ex-console (pro prætore pro consule fungebantur.) Il Proconsole o il Propretore aveva nelle provincie, le attribuzioni dei Pretori in Roma; pubblicava il proprio Editto, e faceva un giro nelle provincie per amministrarvi la giustizia (conventum facere, judicia ordinata habere); cumulava in se anche le altre facoltà, che in Roma spettavano ai diversi magistrati. Aveva una specie di corte (comitatus), un consiglio (auditorium, assessores), una guardia (cohors prætoria) molti subalterni impiegati (scribæ, tabellarii, lictores); dei legati, ai quali in caso di bisogno affidava parte dei suoi poteri (jurisdictionem delegare), ed uno stato maggiore militare (tribuni militum.)
§. 107. Le finanze erano affidate ad un Questore, indipendente dal Proconsole o dal Propretore, che lo rappresentava in caso di morte o di richiamo.
§. 108. Generalmente il Diritto Civile, che esisteva nelle Provincie prima che fossero conquistate, era rispettato, ma i Pretori con le loro ordinanze lo modificavano, e lo avvicinavano a quello di Roma.
§. 109. La Religione del paese era conservata, e si lasciavano in vigore le feste e solennità ivi consuete.
§. 110. Milizie Romane provvedevano alla difesa della provincia, e la tenevano in subiezione. Sebbene nei tempi della Repubblica, i provinciali non fossero ammessi all’onore del servizio militare romano, in seguito gli eserciti più numerosi furono reclutati nelle provincie.
§. 111. Il territorio conquistato si considerava proprietà della Repubblica Romana, ma essa non ne confiscava che una parte, e generalmente quella che non era proprietà privata; il rimanente si restituiva agli antichi proprietarj, i quali erano considerati d’allora in poi, come semplici detentori ed usuarj del medesimo; di quì l’obbligo loro di pagare un tributo, che fu l’origine delle imposizioni fondiarie. Esso consisteva od in una somma di danaro, od in una parte proporzionale dei frutti, ordinariamente la decima. Il suolo Provinciale dunque non era in diritto una vera proprietà privata; e perciò nessuno, e neppure i romani, poteva avere sul medesimo un dominium ex jure quiritium; non poteva essere acquistato e trasferito, secondo le regole del Gius Civile Romano; su di esso si aveva una possessio, una specie particolare di proprietà di diritto naturale (juris gentium), che non escludeva l’onere del pagamento di un imposta prediale. Oltre quest’imposta, i provinciali pagavano un testatico o tassa personale. La repubblica riscuoteva ancora delle somme, in correspettività dell’uso da essa conceduto delle pubbliche pasture, e dei terreni confiscati. Era cosa rara, che si abolissero le contribuzioni indirette trovate in vigore nel momento della conquista; anzi talvolta se ne creavano delle nuove, e delle straordinarie. Tutte queste entrate, per lo più non erano percette direttamente da Roma, ma da degli appaltatori (publicani); questi appalti furono scaturigine di grandi ricchezze pei cavalieri Romani, che costituitisi in società (Societas vectigalis) li esercitavano.
§. 112. Nelle Provincie occorrevano delle Città favorite per alcune esenzioni, e perciò privilegiate di fronte alle altre. I loro privilegj erano molto differenti; consistevano per alcune nel godimento dell’jus italicum; per altre nella recognizione della loro proprietà pubblica e privata, nel diritto di governarsi ad arbitrio proprio, senza subiezione immediata al Pretore Romano; per altre ancora, il privilegio risiedeva, oltre che nella libera amministrazione, nella esenzione dalle imposte ordinarie, e dall’onere degli acquartieramenti invernali per le milizie romane.
§. 113. Negli ultimi tempi della Repubblica furono fondate delle Colonie così latine, come romane, anche nelle Provincie, le quali ebbero una amministrazione comunale propria, ma non proprj magistrati che applicassero il Diritto. Per questo rispetto dipendevano dal rettore della Provincia, come avveniva p. e. nella Gallia Cisalpina, prima che fosse riunita all’Italia.