Istituzioni di diritto romano/Introduzione/Sezione III/Secondo periodo/Capitolo II

Secondo periodo - Capitolo II - Fonti del diritto.

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CAPITOLO II.

fonti del diritto

Fonti del Diritto Scritto, sono:

A) Le leges et Plebiscita B) I Senatusconsulta C) Gli Edicta Magistratuum D) I Responsa Prudentum. Del Diritto non Scritto: la Consuetudo, i Mores Majorum.

A) Leges et Plebiscita

§. 114. Le Deliberazioni delle pubbliche assemblee, per qualche tempo si distinsero in Leges o Populiscita, e Plebiscita.

a) Leges o Populiscita erano le deliberazioni del populus, che prima si riunì nei Comizj Curiati, poi nei Centuriati; le deliberazioni insomma della nazione. Lex est (dice Gajo nelle sue Istituzioni, e ripetono le Istituzioni Imperiali) quod populus Romanus, Senatorio magistratu interrogante, veluti consule, constituebat. (Gajo I, 3. - Ist. Imp. §. 4. I. 2.)

b) Plebiscita erano le deliberazioni della Plebe riunita nei suoi Comizj Tributi, Plebescitum est (aggiunge Gajo) quod plebs, plebejo magistratu interrogante, veluti tribuno, constituebat. Parificati i decreti delle Tribù a quelli delle Centurie, leges furono chiamati i Plebisciti ancora. La lex era prima della convocazione dei Comizj affissa in progetto, e stava esposta al pubblico (lex promulgabatur) per tre giorni di mercato conscutivi (nundinæ). Tenevansi delle adunanze preventive alla convocazione solenne dei Comizj, simili agli attuali meetings degli Inglesi, nelle quali si cercava persuadere al popolo l’opportunità, e l’utilità delle legge proposta. Tuttociò dicevasi legem auferre. Riunitisi i Comizj, il Magistrato proponeva la legge (lex ferebatur), e chiedeva che si votasse sulla medesima (rogare legem), con la formula: Velitis jubeatis hoc, Quirites rogo. Dicevasi auctor legis chi sosteneva la legge. Suasores erano coloro, che a lui si univano a difenderla; dissuasores gli avversarj. La di[p. 70 modifica]scussione terminava al pronunziarsi della parola: Discedite, udita la quale i cittadini si recavano al respettivo posto per votare. Ognuno di essi aveva due tavolette; sull’una stavano le due letter U, R iniziali delle parole uti rogas, sull’altra la lettera A, iniziale della parola Antiquo, (antiqua probo.) Quella prima era il voto favorevole, questa seconda il contrario. Adottato il progetto di legge, dicevasi lex jussa. Il popolo votava sulle leggi, ma proposte in una forma generale e compendiosa; lo svolgimento delle medesime, il loro disteso legale non era obietto di discussione nè di deliberazione della assemblea, sibbene era opera e cura del Magistrato che le aveva proposte. E questo disteso era esatto e preciso, ed indicava in che relazione la nuova legge stava con l’antica. Su questo proposito usavano i Romani alcune espressioni tecniche, che Ulpiano riferisce (Fragm. Lib. Reg. Sing. Prin. §. 3.) Abrogare, significa abolire intieramente una legge anteriore. Derogare, abolirla in parte, Subrogare, aggiungerle una qualche cosa, Obrogare, modificarla in qualche parte. Una lex Cecilia Didia (656) proibì le leges saturæ; in questo modo chiamavansi quei progetti di leggi, contenenti disposizioni eterogenee; i quali venivano in cotal guisa artificiosamente redatti e presentati, affinchè il popolo, il quale era astretto a votare sull’insieme del progetto, e non poteva scinderlo; per far passare quelle disposizioni della legge che esso desiderava, tollerasse che ne passassero insieme altre, a lui meno che gradite. Le leggi erano per ordinario divise in Capitoli, e terminavano con una sanzione penale contro chiunque ne contravvenisse al disposto (leges sacratæ.) L’atto contrario ad una legge, generalmente era dalla legge stessa dichiarato nullo. Allora la legge dicevasi perfecta. Se la legge non conteneva la dichiarazione di nullità, dicevasi imperfecta; se conteneva soltanto la minaccia di una pena, ma non la dichiarazione della prefata nullità, chiamavasi minus quam perfecta (Vedi Ulp. l. cit. §. 2.). Fra le leges, che conosciamo, più sono quelle che si riferiscono al Diritto pubblico, che al privato; nessuna ha l’importanza, nè la comprensione della legge Decemvirale, chè anzi sono tutte sopra singoli argomenti. Le leggi [p. 71 modifica]venivano designate col nome del Magistrato, che le aveva proposte. Quelle proposte dai Consoli, portavano il nome di ambedue, come la Lex Valeria Horatia. Talora si aggiungeva l’argomento della legge, come nelle leggi: Julia de Vi privata, Lex Sempronia Judiciaria etc.

B) Senatusconsulta

§. 115. Il Senatusconsulto è definito nelle Istituzioni (§. 5. Tit. II.) quod Senatus jubet atque constituit, e Gajo (I. 4.) aggiunge: idque legis vicem obtinet; quamvis fuit quæsitum. Pare dunque, che fosse questione se avessero o no forza di legge, e che ciò fosse argomento di lotta politica. Di quì forse è derivata la discordia, che si riscontra nei documenti istorici giunti fino a noi, relativi a questo argomento, e di quì la dubbiezza degli attuali scrittori d’Istoria del Diritto Romano nel valutarli. Vi fu infatti chi ritenne, che soltanto dopo Tiberio i Senatusconsulti avessero forza di legge; mentre altri, (ed è l’opinione dei più recenti scrittori) sostengono, che eziandìo durante la Repubblica avessero quella efficacia. È vero che di Diritto Privato non doveva occuparsi il Senato, le sue ingerenze limitandosi alla religione, alle finanze, alle relazioni internazionali; ma i Patrizj considerando il Senato come elemento fondamentale dello Stato, volevano che le sue deliberazioni non avessero effetti minori delle Deliberazioni dei Comizj; quindi le volevano considerate come leges. Il partito popolare a questo si ricusava; di quì lotta e constrasto. Certo per altro si è, che anche in questo periodo occorrono dei Senatusconsulti, relativi al Diritto Privato. (Vedi Livio 26, 34. - 39, 3, - 41, 9., e Hugo Istoria del Diritto Romano 2° Periodo §. 174). Certo è altresì, che molti sono gli scrittori autorevoli dell’antichità, i quali attestano, che ai tempi della Repubblica i Senatusconsulti avevano forza obbligatoria, e costituivano una sorgente di Diritto assai importante. Non è dato precisare l’epoca nella quale cessò l’accennato contrasto, ed il Senato trionfò dell’opposizione popolare; non è impossibile, che questo avvenisse quando i Plebesciti acquistarono forza di legge generale, in grazia della legge Hortensia. [p. 72 modifica](Vedi Teofilo Parafrasi delle Istituzioni I, 2. §. 5. Pomponio al fr. 2. §. 9. Dig. De origine juris I, 2). Tacito lasciò scritto, che sotto Tiberio i Comizj furono trasferiti in Senato Tum primum e campo comitia ad patres translata sunt (Vedi Ann. I. 15), ma evidentemente quì l’istorico allude alle elezioni dei Magistrati, e non alla potestà legislativa.

C) Edicta Magistratum

§. 116. Editto, significa Ordinanza di un Magistrato. Entrando in ufficio i Magistrati suolevano esporre i principj in coerenza ai quali avrebbero deciso le controversie, che fossero state presente al loro giudizio, e specialmente facevano queste dichiarazioni intorno a quelli argomenti, che non erano preveduti dalle Leggi. Questi Editti chiamavansi perpetui, per distinguerli da quelli che repentinamente (repentini) i Magistrati stessi emettevano, quando ne sorgeva il bisogno (prout res incidit). La Legge Cornelia (687) impose ai Pretori di rispettare religiosamente i proprj editi, durante tutto l’anno della loro magistratura. Non i soli Pretori, ma eziandìo i Consoli, i Censori, gli Edili, avevano diritto di emanare Editti, giacchè era questa una facoltà propria di tutti i magistratus majores; ciò nonostante i più importanti sono gli Editti dei Pretori, perchè a costoro era specialmente affidata l’amministrazione della Giustizia. Gli Editti erano scritti sopra una tavola bianca (in albo), e si affiggevano nel foro unde recte de plano legi possint. La consuetudine aveva creato l’obbligo morale pei magistrati, che entravano in uffizio di promulgare il loro Editto: ed essi stessi avevano interesse a farlo, affinchè ognuno fosse in grado di giudicare i loro principj, e di sindacare i loro atti. Facevano ordinariamente redigere questa lex annalis, da un Giureconsulto. Ogni Magistrato poteva, entrando in ufficio, pubblicare un nuovo Editto; ma generalmente conservava quanto di buono, reputava esistere nell’Editto del suro predecessore. Le regole che passavano così da Editto in Editto (tralatitium), aquistavano naturalmente una grandissima autorità, pel carattere che assumevano di Diritto consuetudinario. [p. 73 modifica]I Romani chiamavano gli Editti viva vox juris civilis; e Papiniano scrisse, che il Diritto Pretorio fu introdotto per l’utilità di tutti i cittadini, perchè soccorresse, supplisse, e perfino correggesse il Diritto Civile, Jus prætorium (prætores introduxerunt) ajuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris civilis gratia, propter utilitatem publicam fr. 7. dig. De just e Jure I, 1. Ed in vero, ora il Pretore protesse dei Diritti riconosciuti, ma non garantiti dalla legge (adiuvandi gratia), ora applicò disposizioni esistenti a casi non preveduti, colmando così delle lacune legislative (supplendi gratia), e talvolta ancora andò contro il disposto della legge (corrigendi juris civilis gratia) Fra meraviglia a prima giunta, che un Magistrato incaricato di applicare la legge, ardisse di modificarla e ancora di violarla, e che le sue Ordinanze avessero autorità uguale a quella della legge stessa. Ma la meraviglia cessa quando si riflette, che i Pretori, come tutti i Magistrati Romani, godevano di tale potere nell’esercizio delle loro funzioni, che non aveva altri limiti se non se nella loro responsabilità. Qualora il Pretore con le sue innovazioni avesse contradetto all’indirizzo della pubblica opinione, al termine del suo ufficio sarebbe stato accusato; ma se egli invece a quella pubblica opinione aveva satisfatto, non correva rischio di essere censurato; i suoi successori adottavano allora le innovazioni sue, e l’abitudine di rispettarle ingenerava il convincimento, che fossero obbligatorie quanto la legge. Prætor jus facere non potest, il Pretore non poteva far leggi vere e proprie, ma i principj che egli emetteva avevano efficacia per la protezione che accordava ai medesimi (tuitio prætoris). Egli non creava dunque un jus civile, ma il gius da lui introdotto, e che fu detto jus honorarium, jus prætorium, (honorarium da honores, magistrature; prætorium, perchè derivante dal pretore) in fatto ne aveva la stessa efficacia; e così il Pretore adattava le istituzioni antiche ai bisogni nuovi, o le modificava coi principj dell’equità, sostenuto sempre dal sentimento giuridico popolare. I mezzi dei quali si valsero i Pretori per supplire, sussidiare o modificare il Diritto Civile furono diversi: introdussero azioni nuove, crearono delle ec[p. 74 modifica]cezioni, prescrissero delle garanzìe (cautiones), ordinarono delle immissioni in possesso (missiones in bona), diedero il possesso dei beni (bonorum possessiones), accordarono delle restituzioni in intiero (in integrum restitutiones), fecero dei Decreti (interdicta). Nell’esposizione dommatica delle istituzioni, spiegheremo queste diverse manifestazioni dell’attività pretoria. ― L’Editto dei Pretori, che più conferì alla modificazione del Diritto Romano antico, fu quello dei Pretori di Roma (edictum urbanum o urbicum). I Pretori delle Provincie seguitavano nel loro Editto (edictum provinciale) i principj dell’Editto urbano. Importanza quanto al Diritto Privato ebbero, dopo gli Editti dei Pretori, gli Editti degli Edili Curuli (jus ædilicium).

D) Responsa Prudentum

§. 117. L’applicazione pratica del Diritto è causa costante di controversie; il principio più semplice non è sempre il più facile ad applicarsi, per la complicanza di certi fatti, o pel loro carattere spesso malamente qualificabile. La legge procede per formule generali, non può espressamente comprendere tutti i casi, alcuni sfuggono sempre alla sua parola; estenderla anche a questi col criterio della analogìa, facendo valere lo spirito della legge, ed interpetrandola, è un bisogno cui non può satisfare se non se chi è molto perito in quella. Conoscere la lettera della legge, non è saperla applicare ai casi pratici, e molto meno sapere ottenere dai Magistrati, che nelle loro Sentenze sanzionino il Diritto reclamato. Di quì deriva l’importanza delle funzioni dei Giureconsulti; ed essa fu fortemente sentita anche in Roma. In quella città i Giurisprudenti o Giurisperiti, come chiamavansi, non avevano bisogno di una matricola, di un diploma per esercitare la loro professione. Quelli che si sentivano forze per assistere nei processi i litiganti, per dare consigli o pareri, per redigere istrumenti, lo facevano. Qui fiduciam studiorum suorum habebant, consulentibus respondebant, dice Pomponio fr. 2. §. 47. Dig. De origine juris, I, 2. I principj derivanti da questa attività intellettuale dei Giureconsulti furono rispettati, come lo sono oggi le massime giurisprudenziali [p. 75 modifica]derivanti dalle conformi decisioni dei Tribunali; ed i Romani chiamarono jus civile il loro insieme, perchè al dire di Pomponio, non si trovava un nome più adatto a designarlo (Vedi Warnkoenig Storia esterna del Diritto Romano 2° periodo §. 14). L’autorità di questo Diritto non era quella della legge, ma nessun giudice avrebbe osato decidere contro il parere di uomini generalmente stimati, senza evidenti ragioni in contrario. Anzi i Magistrati stessi volentieri mettevano al coperto la loro responsabilità, seguitando il parere dei Prudenti, che dalla pubblica opinione veniva quasi loro imposto.