In morte di Lorenzo Mascheroni (1891)/Canto primo

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Canto secondo
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CANTO PRIMO


Contenuto: L’anima di L. Mascheroni, dopo essersi sciolta dal corpo, s’alza al cielo; e le virtú che l’adornarono in vita cingono il mesto letto e piangono (1-54). Ella, intanto, salendo, riceve inviti da questa e quella stella: da Venere, sede degli amanti; da Giove, ov’è Galileo; dal sole, in cui stanno molti sapienti, specie italiani (55-111). L’anima vaga vorrebbe di tutte godere (112-126); ma poi, incontrato il Borda, è condotta da lui nella costellazione della lira, ove sono lo Spallanzani e il Parini (127-171), il quale le narra come, per gli orribili vizi e mali onde vide funestata la patria, egli desiderasse ed ottenesse di morire; e poi le chiede che si faccia Italia (172-234). L’altra s’apparecchia a rispondergli (235-244). — Lorenzo Mascheroni, poeta e scienziato, nacque a Castagneta nel Bergamasco il 13 maggio 1750. Vestito l’abito ecclesiastico, studiò e insegnò prima nel seminario di Bergamo belle lettere e filosofia, poscia (1785) matematiche nell’università pavese. Nel ’97 fu de’ Deputati al Corpo legislativo in Milano, e nel ’98 fu mandato a Parigi per farvi parte della Commissione universale di pesi e misure. Occupata la Lombardia dagli Austro-Russi (cfr. la nota [p. 130 modifica]d’introduzione a p. 125), perdé gli stipendi che godeva, e non avrebbe saputo come vivere, se il Lagrangia non l’avesse fatto nominare professore in un collegio di quella città con 1300 lire di stipendio, vitto e alloggio. Morí nel 19 luglio 1800, poco piú d’un mese dopo la battaglia di Marengo, senza aver potuto rivedere l’Italia. Le principali sue opere poetiche sono queste: L’invito, ch’egli, sotto il nome arcadico di Dafni Orobiano, mandò alla poetessa Lesbia Cidonia (contessa Paolina Secco-Suardo Grismondi di Bergamo) per ricordarle la promessa fattagli di visitarlo in Pavia, ove le avrebbe mostrato gli splendidi musei universitari (prima ediz.: Pavia, Comino, 1793); un sermone, pubblicato nel ’79, Su la falsa eloquenza del pulpito; un’elegia latina composta nel ’99 per la morte del grande matematico francese Bartolommeo Borda ecc. ecc.; e le scientifiche, queste altre: Nuove ricerche su l’equilibrio delle volte, che, pubblicate nell’85, gli fruttarono la cattedra universitaria; Problemi per gli agrimensori con varie soluzioni (1793), Geometria del compasso (1797), ch’egli dedicò, con un’epistola in versi sciolti, a Napoleone; Annotazioni al calcolo integrale di Eulero ecc. ecc. — La morte di questo personaggio e il suo transito al cielo è il soggetto fondamentale di questa cantica, che fu composta subito nell’800, e della quale i primi tre canti furono pubblicati in Milano, per le stampe del Genio tipografico, anno IX (1801), e tutti e cinque i canti interi a Capolago, tipografia Elvetica, nel 1831. — Alla cantica il M. prepose queste vere e magnanime parole: «Ben provvide alla dignità delle Muse quella legge del divino Licurgo, la quale vietava l’incidere non che il cantar versi sulla tomba degli uomini volgari, non accordando questo alto onore che alle anime generose e della patria benemerite. Non sarò dunque, spero, accusato di aver violato il decoro di questa legge prendendo a cantare di L. M. di Bergamo. Insigne matematico, leggiadro poeta ed ottimo cittadino, egli ha giovato alla patria illustrandola co’ suoi scritti, conquistando nuove e peregrine verità all’umano intendimento, provocando con gli aurei suoi versi il buon gusto nella primogenita e piú sacra di tutte arti, nella quale son pochi tuttavia i sani di mente e molti i farnetici e ciurmadori; egli ha giovato finalmente alla patria lasciandole l’esempio delle sue virtú; beneficii tutti meno strepitosi, gli è vero, ma piú cari e d’assai piú durevoli che tanti altri partoriti o per valore di armi o per calcoli di mercantile e sempre perfida e scellerata politica. Le repubbliche greche e la romana son morte; il tempo ha divorate le conquiste di Alessandro e di Cesare; pochi anni bastarono a distruggere il frutto delle famose giornate di Maratona e di Salamina: ma durano tuttavia per conforto dell’umanità i divini precetti di Socrate; e la luce uscita dalle selve dell’Accademia e del Tuscolo, superata la caligine e i delitti di tutti i secoli, illumina ancora e illuminerà eternamente gli umani intelletti, perché la verità sola e la virtú sono immortali. — Ma ti sei tu proposto, dirà taluno, di piangere qui soltanto la perdita del tuo amico? Nol so: le cagioni del piangere sono tante. Guai a colui che a’ dí nostri ha occhi per vedere e non ha cuore per fremere e lagrimare! Lettore, se altamente ami la patria e sei verace italiano, leggi: ma getta il libro, se per tua e nostra disavventura tu non sei che un pazzo demagogo o uno scaltro mercatante di libertà». — Giuseppe Lattanzi, uno de’ piú severamente sferzati in questa cantica (cfr. la nota al v. 198 del c. I), fece, in opposizione alla Mascher., un poema che intitolò Inferno, con le stesse rime del M., ma di sentimenti, [p. 131 modifica]com’è naturale, opposti. Sono versi «da fare spiritare i cani». Ne vegga, chi vuole, un saggio in Vicchi VI, p. 298. L’Inferno del L. fu edito in Milano da Luigi Veladini nel 1801. — Lo Zumb., al quale sembra che la Mascher. «sia da anteporre a tutti gli altri primi poemi del M.», quantunque levasse «minor grido ed ancor oggi sia meno letta» della Bassvilliana, scrive (e son parole giustissime) a p. 182: «Tanto in proposito dell’Italia, quanto della Francia, egli nella «Mascheroniana» ebbe l’intuizione piú schietta che si avesse mai avuto della verità storica, e ne fece un’interpretazione non meno schietta e felice». — Il metro è la terza rima: cfr. la nota d’introduzione a p. 10.


Come face1 al mancar dell’alimento
     Lambe gli aridi stami, e di pallore
     Veste il suo lume ognor piú scarso e lento;
E guizza irresoluta, e par che amore
     5Di vita la richiami, infin che scioglie
     L’ultimo volo e sfavillando muore2:
Tal quest’alma gentil3, che morte or toglie
     All’italica speme e su lo stelo
     Vital, che verde ancor fioría, la coglie,
10Dopo molto affannarsi entro il suo velo4
     E anelar stanca su l’uscita, alfine
     L’ali aperse e raggiando alzossi al cielo.
Le virtú, che diverse e pellegrine
     La vestîr mentre visse, il mesto letto
     15Cingean, bagnate i rai, scomposte il crine5:
Della patria l’amor santo e perfetto,
     Che amor di figlio e di fratello avanza.
     Empie a mille la bocca, a dieci il petto:
L’amor di libertà, bello se stanza
     20Ha in cor gentile, e, se in cor basso e lordo,
     Non virtú, ma furore e scelleranza:
L’amor di tutti, a cui dolce è il ricordo
     Non del suo dritto, ma del suo dovere,
     E l’altrui bene oprando al proprio è sordo:
25Umiltà, che fa suo l’altrui volere:
     Amistà, che precorre6 al prego e dona,

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     E il dono asconde con un bel tacere7:
Poi le nove virtú8 che in Elicona
     Dànno9 al muto pensier con aurea rima
     30L’ali, il color, la voce e la persona:
Colei che gl’intelletti apre e sublima10,
     E col valor di finte cifre il vero
     Valor de’ corpi immaginati estima:
Colei che li misura11, e del primiero
     35Compasso armò di Dio la destra, quando
     Il grand’arco curvò dell’emispero,
E spinse in giro i soli, incoronando
     L’ampio creato di fiammanti mura.
     Contro cui del caosse il mar mugghiando
40E crollando12 le dighe entro la scura
     Eternità rimbomba e paurosa
     Fa del suo regno dubitar natura.
Eran queste le dee che lamentosa
     Fean corona alla spoglia che d’un tanto
     45Spirto di vita nel cammin fu sposa.
Ecco il cor, dicea l’una, in che sí santo
     Sí fervido del giusto arse il desiro:
     E la man pose al core, e ruppe in pianto.
Ecco la dotta fronte onde s’apriro
     50Sí profondi pensieri, un’altra disse:
     E la fronte toccò con un sospiro.
Ecco la destra, ohimè!, che li descrisse,
     Venía sclamando un’altra: e baci ardenti
     Su la man fredda singhiozzando affisse.
55Poggia intanto quell’alma alle lucenti
     Sideree rote, e or questa spera or quella
     Di sua luce l’invita entro i torrenti.
Vieni, dicea del terzo ciel13 la stella:
     Qui di Valchiusa è il cigno14, e meno altera

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     60La sua donna con seco e assai piú bella;
Qui di Bice il cantor15, qui l’altra schiera
     De’ vati amanti: e tu, cantor lodato
     D’un’altra Lesbia16, ascendi alla mia spera.
Vien, di Giove dicea l’astro lunato17:
     65Qui riposa quel grande che su l’Arno
     Me di quattro pianeti ha coronato.
Vien quegli occhi a mirar che il ciel spïarno
     Tutto quanto, e, lui visto, ebber disdegno
     Veder oltre la terra e s’oscurarno18.
70Tu, che dei raggi di quel divo ingegno
     Filosofando ornasti i pensier tui,
     Vien; tu con esso di goder se’ degno.
Ma di rincontro folgorando i sui
     Tabernacoli d’oro apriagli il sole;
     75E, vieni, ei pur dicea, resta con nui.
Io son la mente della terrea mole19,
     Io la vita ti diedi, io la favilla
     Che in te trasfuse la giapezia prole20.
Rendimi dunque l’immortal scintilla
     80Che tua salma animò21; nelle regali
     Tende rientra del tuo padre, e brilla.
D’italo nome troverai qui tali
     Che dell’uman sapere archimandriti22
     Al tuo pronto intelletto impennâr l’ali23.
85Colui24 che strinse ne’ suoi specchi arditi
     Di mia luce gli strali e fe’ parere

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     Cari a Marcello25 di Sicilia i liti;
Primo quadrò la curva dal cadere
     De’ proietti creata, e primo vide
     90Il contener delle contente26 sfere.
Seco è il calabro antico27, che precide
     Alle mie rote il giro e del mio figlio28
     La sognata caduta ancor deride.
Qui Cassin29, che in me tutto affisse il ciglio,
     95Fortunato così, ch’altri giammai
     Non fe’ piú bello del veder periglio30;
Qui Bianchin31, qui Ricciòli ed altri assai
     Del ciel conquistatori, ed Orïano32
     L’amico tuo qui assunto un dì vedrai;
100Lui che primiero dell’intatto33 Urano
     Co’ numeri frenò la via segreta,
     Orian degli astri indagator sovrano.
Questi dal centro del maggior pianeta
     Uscian richiami, e: Vieni, anima dia34,
     105Par ch’ogni stella per lo ciel ripeta.
Sì dolce udiasi intanto un’armonia,
     Che qual piú dolce suono arpa produce35

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     Di lavoro mortal mugghio saría.
E il sol sí viva saettò la luce,
     110Che il piú puro tra noi giorno sereno
     Notte agli occhi saría quando è piú truce.
Qual tra mille fioretti in prato ameno,
     Vago parto d’april, la fanciulletta,
     Disiosa d’ornar le tempia e il seno,
115Or su questo or su quel pronta si getta,
     Vorría tutti predarli, e li divora
     Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta;
Tal quell’alma trasvola, e s’innamora
     Or di quel raggio ed or di questo, e brama
     120Fruir di tutti, e niun l’acqueta ancora:
Perocché piú possente a sé la chiama
     Cura d’amore di quei cari in traccia
     Che amò fra’ vivi e piú fra gli astri or ama.
Ella di Borda36 e Spallanzan la faceia
     125E di Parin37 sol cerca; ed ogni spera
     N’inchiede, e prega che di lor non taccia.
Ed ecco a suo rincontro una leggiera
     Lucida fiamma, che nel grembo porta
     Una dell’alme di cui fea preghiera.
130Qual fu suo studio in terra, iva l’accorta
     Misurando del cielo alle vedette38
     L’arco che l’ombra fa cader piú corta39.
— Oh mio Lorenzo! — Oh Borda mio! — Fur dette
     Queste, e non piú, per lor, parole: il resto
     135Disser le braccia al collo avvinte e strette.
— Pur ti trovo. — Pur giungi. — Io piansi mesto
     L’amara tua partita, e su latino40

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     Non vil plettro41 il mio duol fu manifesto. —
— Io di quassú l’intesi, o pellegrino
     140Canoro spirto; e desïai che ratto
     Fosse il vol che dovea farti divino42. —
— Anzi tempo, lo vedi, fu disfatto
     Laggiú il mio frale. — Il veggo, e nondimeno
     «Qual di te lungo qui aspettar s’è fatto!» —
145Cosí, confusi l’un dell’altro in seno,
     E alternando il parlar, spinser le piume
     Là dove fa la lira il ciel sereno;
D’Orfeo la lira43, che il paterno nume
     D’auree stelle ingemmò, mentre volgea44
     150Sanguinosa la testa il tracio fiume,
E, misera Euridice, ancor dicea
     L’anima fuggitiva, ed Euridice,
     Euridice, la ripa rispondea.
Conversa in astro quella cetra elíce45
     155Sí dolci suoni ancor, che la dannata
     Gente gli udendo si faría felice.
Giunte a quell’onda d’armonia beata
     Le due celesti peregrine, un’alma
     Scoprîr che grave al suon si gode e guata;
160Sovra un lucido raggio assisa in calma,
     L’un su l’altro il ginocchio e su i ginocchi
     L’una nell’altra delle man la palma.
Torse ai due che veniéno i fulgid’occhi,
     Guardò Lorenzo, e in lei del caro aspetto
     165Destârsi i segni dall’obblio non tocchi.
Non assurse però; ma con diletto
     La man protese, e balenò d’un riso46
     Per la memoria dell’antico affetto.
E ben giunto, lui47 disse: alfin diviso
     170Ti se’ dal mondo, da quel mondo u’ solo
     Lieta è la colpa ed il pudor deriso.

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Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo,
     Io misero Parini il fianco venni
     Grave d’anni traendo e piú di duolo48.
175E, poich’oltre veder piú non sostenni
     Della patria lo strazio e la ruina,
     Bramai morire, e di morire ottenni.
Vidi prima il dolor della meschina
     Di cotal nuova libertà vestita,
     180Che libertà nomossi e fu rapina49.
Serva la vidi, e, ohimè!, serva schernita,
     E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi
     Che i suoi pur anco, i suoi l’avean tradita.
Altri stolti, altri vili, altri perversi,
     185Tiranni molti, cittadini pochi,
     E i pochi o muti o insidïati o spersi.
Inique leggi, e per crearle rochi
     Su la tribuna i gorgozzuli50, e in giro
     La discordia co’ mantici e co’ fuochi,
190E l’orgoglio con lei, l’odio, il deliro,
     ignoranza, l’error, mentre alla sbarra51
     Sta del popolo il pianto ed il sospiro.
Tal s’allaccia in senato la zimarra52,
     Che d’elleboro ha d’uopo e d’esorcismo53;
     195Tal vi tuona, che il callo ha della marra54;
Tal vi trama, che tutto è parossismo

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     Di delfica manía, vate piú destro
     La calunnia a filar che il sillogismo;
Vile! e tal altro del rubar maestro55
     200A Caton si pareggia, e monta i rostri
     Scappato al remo e al tiberin capestro.
Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri
     Parlar virtude, e sé dir Bruto e Gracco,
     Genuzii essendo, Saturnini e mostri56.
205Colmo era in somma de’ delitti il sacco;
     In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,
     E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco57.
Venne il nordico nembo58, e quel leggiadro
     Viver sommerse59: ma novello stroppio
     210La patria n’ebbe e l’ultimo soqquadro60.
Udii di Cristo i bronzi suonar doppio61
     Per laudarlo, che giunto era il tiranno:
     Ahi! che pensando ancor ne fremo e scoppio.
Vidi il tartaro ferro e l’alemanno62

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     215Strugger la speme dell’ausonie glebe
     Sí che i nepoti ancor ne piangeranno.
Vidi chierche e cocolle63 armar la plebe,
     Consumar colpe che d’Atreo le cene64
     E le vendette vincerian di Tebe65.
220Vidi in cocchio Adelasio66, ed in catene
          Paradisi e Fontana67. Oh sventurati!
     Virtà dunqu’ebbe del fallir le pene?
Cui non duol di Caprara e di Moscati68?
     Lor ceppi al vile detrattor fan fede
     225Se amar la patria o la tradîr comprati.
Containi! Lamberti69! oh ria mercede
     D’opre onorate! ma di re giustizia
     Lo scellerato assolve e il giusto fiede.
Nella fiumana di tanta nequizia,

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     230Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore;
     Ed ei m’assunse all’immortal letizia.
Né il guardo vinto70 dal veduto orrore
     Piú rivolsi laggiú, dove soltanto
     S’acquista libertà quando si muore.
235Ma tu, che approdi da quel mar di pianto,
     Che rechi? Italia che si fa? L’artiglia
     L’aquila ancora71? O pur del suo gran manto
Tornò la madre a ricoprir la figlia72?
     E Francia intanto è seco73 in pace? o in rio
     240Civil furore ancor la si periglia?
Tacquesi; e tutta la pupilla aprío
     Incontro alla risposta alzando il mento.
     Compose l’altro il volto, e quel desío
Fe’ del seguente ragionar contento.

Varianti

[p. 135 modifica]N. B. Queste varianti sono state ricavate dall’edizione milanese del 1801, indicata con un G.; da quella di Capolago, indicata con un C.; dalla bolognese delle Opere ecc. (vol. I, 1821), indicata con un B. e da quella del Le Monnier (1847), indicata con un L.

108. muggio saria (C.).
113. Vago prato d’april (L.).
114. Le tempia, il seno, (G. C.).


Note

  1. 1. Come face ecc.: Petrarca Trionf. d. Mor. I, 162: «Se n’andò in pace l’anima contenta; A guisa d’un soave e chiaro lume Cui nutrimento a poco a poco manca...». Ariosto XXIV, 85: «E finí come il debol lume suole, Cui cera manchi, od altro in che sia acceso». Marino (Adone VII, 54), descrivendo la morte d’un usignuolo: «Cosi qual face che vacilla e manca, E maggior nel mancar luce raddoppia, Da la lingua che mai ceder non volse, Il dilicato spirito si sciolse».
  2. 6. e sfavillando muore: Tasso XIX,22: «Come face rinforza anzi l’estremo Le fiamme, e luminosa esce di vita...».
  3. 7. quest’alma ecc.: il Mascheroni.
  4. 10. velo: corpo. Cfr. la nota al v. 64, p. 128.
  5. 15. bagnate i rai ecc.: accus. di relazione. Cfr. la nota al v. 26, p. 3.
  6. 26. precorre, «Ché quale aspetta prego e l’uopo vede, Malignamente già si metto al nego». Dante Purg. xvii, 59.
  7. 27. E il dono ecc.: È il precetto evangelico (Matteo VI, 2) «Quando fai limosina non far sonare la tromba dinanzi a te», che espresse inarrivabilmente il Manzoni nella Risurrezione (st. 14) e nella Pentecoste (st. 16).
  8. 28. le nove virtú ecc.: le Muse.
  9. 29. Dànno ecc.: Dànno immagine e vita al pensiero. Duo versi bellissimi.
  10. 31. Colei ecc.: la scienza del calcolo.
  11. 34. Colei ecc.: la scienza geometrica. — e del primiero ecc.: Imitazione di un luogo del Paradiso perduto del Milton: cfr. canto VII, 210 e segg. e Stanislao Prato: Il compasso dell’Eterno nel Milton e nel Monti in Biblioteca delle scuole ital., n. 16 marzo 1889. Cfr. anche Dante Par. xix, 40 e seg.
  12. 40. crollando: scuotendo, in senso attivo. Cfr. la nota al v. 64, p. 124.
  13. 58. del terzo ciel: del cielo di Venere, ch’è, secondo il sistema Tolemaico, il terzo, o sede, secondo l’Alighieri, degli spiriti amanti. Cfr. Par. viii e ix, passim.
  14. 59. di Valchiusa il cigno: Francesco Petrarca (1304-1374), che amò, come tutti sanno, Laura e «feo la chiusa Valle sonar di cosí nobil Musa». Parini Od. XVI, 259. Cfr. la nota al v. 260, p. 18. — e meno altera ecc.: Petrarca P. II, son. 34: «Ivi, fra lor che’l terzo cerchio serra, La rividi piú bella e meno altera».
  15. 61. di Bice il cantor: Dante.
  16. 63. D’un’altra Lesbia: la Grismondi. Cfr. la nota d’introduzione. La prima Lesbia fu cantata da Catullo.
  17. 64. lunato: Giove ha quattro satelliti o lune, che scopri Galileo dal 7 al 10 gennaio 1610 e chiamò Medicea Sydera.
  18. 69. S’oscurarno: Galileo divenne, negli ultimi anni della vita, cieco.
  19. 76. la mente ecc.: l’anima della terra.
  20. 78. la giapezia prole: Cfr. la nota al v. 17, p. 46.
  21. 80. Che tua salma ecc.; «Il poeta segue la dottrina di Platone, favorevole alla poesia, il quale pensava che le anime fossero state distribuito da Dio nei pianeti, donde per opera di divinità subalterne, scendono ad informare i corpi de’ mortali: e quell’anime che avranno vissuto in terra la vita de’ giusti ritorneranno dopo la morte a rivivere nell’astro primitivo; le altre passeranno ad animare il corpo dei bruti, finché siansi interamente purgate. - Platone, lib. vii, Della repubblica». Mg.
  22. 83. archimandriti: capi, maestri.
  23. 84. Al tuo ecc.: Dante Par. xv, 54: «all’alto volo ti vesti le piume».
  24. 85. Colui ecc.: Archimede, nato a Siracusa l’anno 287 av. C., che fu, come è noto, grande matematico e fisico, e trovò per primo la quadratura della parabola e il rapporto ch’è fra il cilindro e la sfera inscritta (di sei a quattro). Quando Marcello assediò Siracusa, dicesi che Archimede con ispecchi ustori ne bruciasse le navi: certo inventò macchine da guerra, che servirono di efficace difesa agli assediati. Caduta la città in potere del vincitore romano, egli fu ucciso da soldati, che non sapevano chi fosse, mentre era immerso ne’ suoi studi: del che Marcello fu dolentissimo. Cfr. Livio XXV, 31 e Cicerone De fin. V, 19 e Verr. IV, 58. Su la sua tomba fu scolpita una sfera entro un cilindro in memoria della grande scoperta ricordata; ciò che serví a Cicerone di guida per riconoscere l’inonorato sepolcro di lui quando nel 75 av. C. andò questore in Sicilia. Cfr. Tuse. IV, 23.
  25. 87. Marcello: Marco Claudio M. edile, questore e poi, dal 224 al 208 av. C., anno della sua morte, cinque volte console di Roma. Nel 212, dopo un assedio triennale, espugnò Siracusa. Questa fu l’opera sua piú gloriosa; ma nella 2ª guerra punica combatté anche con valore, se non sempre con fortuna, contro Annibale.
  26. 90. contente: contenute. Sincope che usò anche Dante: cfr. Inf. ii, 77 e Par. ii, 114.
  27. 91. il calabro antico ecc.: Filolao, che fiorì nella Magna Grecia intorno al 475 av. C. Fu discepolo di Pitagora, poi di Archita e il primo a insegnar pubblicamente il moto annuo della terra intorno al sole. — precide: tronca.
  28. 92. del mio figlio: di Fetonte.
  29. 94. Cassin: Gian Domenico Cassini (1625-1712), nizzardo, «diede una teorica completa sul movimento delle macchie solari, e parlò piú sensatamente d’ogni altro della paralasse del sole, elemento principale di tutta l’astronomia». Mt.
  30. 96. periglio: prova, esperimento (lat. periculum). È usato anche dall’Ariosto: cfr. XIX, 70.
  31. 97. Bianchin: Monsignor Francesco Bianchini (1662-1729), veronese, dottissimo di scienze fisiche e matematiche autore di molte e svariate opere, la maggiore delle quali è Istoria univers. provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi (Roma, 1697). — Ricciòli: Giambattista Ricciòli (1598-1671), gesuita ferrarese, uno de’ piú grandi astronomi del suo tempo, autore, tra l’altro, della Chronologia reformata (Bologna, 1669), opera divisa in tre parti e piena di dottrina e di erudizione. Cfr. Barotti Memorie ist. dei lett. ferr. Ferrara, 1793, tom. II, p. 270.
  32. 98. Orïano: Barnaba Oriani (1762-1833), prete milanese, gloria delle scienze matematiche ed astronomiche, che, tra l’altre sue scoperte, formulò per primo la legge del moto di Urano. Cfr. la nota al v. 125, p. 35. Questa teoria, stampata in Milano nel 1789, fu conosciuta a Parigi dai piú distinti astronomi e geometri. Ma perché il modesto Oriani non la presentò all’Accademia delle Scienze, l’astronomo Delhambre profittò senza scrupolo delle scoperte altrui, e le sue Tavole pubblicate due anni dopo ottennero un premio ad altri dovuto». Mt.
  33. 100. intatto: non da altri studiato.
  34. 104. dia: splendente. Cfr. la nota al v. 317, p. 108.
  35. 107. Che qual ecc.: Dante Par. xxiii, 97; «Qualunque melodia piú dolce suona Quaggiú,... Parrebbe nube che squarciata tuona, Comparata al sonar di quella lira».
  36. 124. Borda: Bartolommeo Borda (1733-1799), della città di Dax in Francia, insigne matematico amicissimo del Mascheroni, che ne pianse, in un celebre carme latino, la morte. Cfr. la nota d’introduzione. — Spallanzan: Lazzaro Spallanzani (1729-1799), della provincia di Reggio d’Emilia, uno de’ piú grandi naturalisti italiani, che fu per molti anni professore e direttore del museo nell’università di Pavia, che corredò di moltissimi oggetti preziosi, raccolti nelle sue peregrinazioni scientifiche per l’Europa. Parecchie e di gran valore sono le sue opere, per lo quali progredirono assai anche la fisiologia e l’anatomia.
  37. 125. Parin: Giuseppe Parini (1729-1799), il grande autore delle Odi e del Giorno.
  38. 131. del cielo alle vedette: da’ luoghi eminenti del cielo.
  39. 132. L’arco ecc.: il meridiano.
  40. 137. e su latino ecc.: cfr. la nota al v. 124.
  41. 138. plettro: specie di verghetta per sonar la lira, con l’armonia della quale s’accompagnava in antico la recitazione de’ versi. Qui, per i versi stessi.
  42. 141. il vol ecc.: la morte.
  43. 148. D’Orfeo la lira: cfr. la nota al v. 8, p. 30.
  44. 149. mentre volgea ecc.: Virgilio Georg. IV, 523: Tum quoque, marmorea caput a cervice revulsum Gurgite quum medio portans Oeagrius Hebrus Volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua, Ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat. Eurydicen toto referebant flumine ripae.
  45. 154. elíce: trae fuori. Unica forma derivata alla poesia italiana dal verbo latino elicere. Cfr. Tasso IV, 77; Parini Od. IV, 138 ecc.
  46. 167. balenò d’un riso: Paragonare al lampo e al baleno il riso è, come dimostrai altrove, cosa comune a’ nostri poeti. Cfr. Dante Purg. xxi, 114; Petrarca P. II, son. 24; Poliziano St. I, 30; Tasso IV, 91; XVIII, 13; XIX, 70 e Aminta II, 2; Parini Od. IV, 9 e XVII, 62 ecc.
  47. 169. lui: a lui. Questa elissi della preposizione è frequentissima in Dante. Cfr., p. es., Inf. i, 81; vii, 67; xix, 89; Purg. i, 52; viii, 58 ecc. ecc.
  48. 173. il fianco ecc.: È noto che il Parini per una malattia a’ nervi avuta in gioventú, soffrí in vecchiaia gravi dolori alle gambe, che lo rendevano spesso impotente ad andare. A questa sua infermità allude in piú ponti delle Odi. Cfr. X. 65 XIV, 1; XVI, 77; XVII, 3 ecc. — 180. Che libertà ecc.: «Io amava la libertà (e chi non l’ama?), ma l’oggetto dell’amor mio era la libertà dipintami negli scritti di Cicerone e di Plutarco. Quella che trovai su gli altari in Milano mi parve uua prostituta, e ricusai d’adorarla». Card. Lett. al Bett., p. 517.
  49. 187. rochi... i gorgozzuli: in causa della gran fatica che si faceva da quegli oratori demagoghi per propugnarle.
  50. 191. sbarra: tramezza, che separa, nello pubbliche adunanze, la folla dai membri dell’assemblea.
  51. 193. s’allaccia... la zimarra: indossa la toga senatoriale.
  52. 194. Che d’elleboro ecc.: «il quale o è pazzo o indemoniato. Era comune proverbio tra i Greci, quando volevano significare che taluno era pazzo, che aveva d’uopo di elleboro: oppure, che bisognava mandarlo per l’elleboro ad Anticira». Mg. — d’esorcismo: di scongiuri contro il demonio.
  53. 195. che il callo ecc.: «Ricorda lo scherno di Cicerone contro Antonio: ex aratore orator factus; e quel di Dante Purg. vi, 125: «Un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene». Pierg.
  54. 196. Tal ecc. Allude a Francesco Gianni (1750-1822). «Questo povero gobbo a Roma, dove lavorava da sartore, presto acquistò fama di valentissimo improvvisatore, e si volle farne l’emulo del Monti. Da qui acerbissimi corrucci, piú invelenitisi quando entrambi lasciarono Roma; e Firenze e Milano furono piene di loro baruffe.... Gli applausi volgari inebriarono il Gianni, fin a credersi principe dei poeti, accrescendo con ciò la gelosia del Monti. Questi lo marchiò nella Mascheroniana... Gianni oppose vari libretti e principalmente l’Ateone [veramente Proteone] allo specchio, dove per verità mordeva meno il poeta, che il marito di «una delle piú belle donne d’Italia «e non delle piú tiranne.... Il Gianni dopo il 1800 rimase a Parigi con una pensione di 6000 franchi, conservatagli dalla restaurazione». Cantú, p. 120. Chi volesse saperne di piú, cfr. Vicchi VIII, p. 175 e segg., che dà anche un saggio bibliografico su le opere di lui. Cfr. pure la Raccolta delle poesie di F. Gianni: Milano, Silvestri, 1807. — che tutto ecc.: ch’è tutto invasato da mania poetica.
  55. 199 tal altro ecc.: Vuol dire Giuseppe Lattanzi, nato a Nemi nel 1762 e morto in Roma nel 1822. Ne’ protocolli di governo della Lombardia 1817, n. 3007, si legge di lui che «fu condannato dal Governo pontificio a sette anni di galera per falsificazione di carte; la pena fu trasmutata in luogo di detenzione [la casa penitenziale di Corneto], dal quale fuggi ricoverandosi in Toscana. La di lui moglie [Carolina Airenti] vuole la cronaca che godesse i favori dell’imperatore Leopoldo, iu allora granduca di Toscana, e che debbasi a questo il favore ottenuto dal Lattanzi di essere poi stato nominato segretario dell’Accademia Virgiliana di Mantova. Fu caldo repubblicano; e rientrato in Roma coi Francesi, esaltò lo spirito dei suoi concittadini con dei proclami incendiari. Rifugiatosi in questa provincia [Lombardia], godette sempre l’opinione di spione, e tale lo era sotto il duca Melzi, dal quale godette un annuo assegno. Uomo senza principii, senza morale e senza fede, capace di servire al tempo stesso e per un medesimo oggetto, il proprio governo e lo straniero ancora». «Colla moglie (segue il Cantú, p. 132) pose in piedi il Corriere delle dame, giornale che visse fino all’ultima nostra rivoluzione. Sono a stampa suoi... versi pel monumento inaugurato a Virgilio, poi un poema in lode di Bonaparte, e il Giornale italico, e un altro il Colpo d’occhio, e dappertutto si mostra giornalista nel peggior significato della parola».
  56. 204. Genuzii... Saturnini: «due de’ piú sediziosi e de’ piú sanguinari tribuni di Roma. Quest’ultimo, nemico implacabile del senato, fece uccidere nel modo il piú barbaro il patrizio Gratidiano, e mantenevasi piú migliaia di sicari disposti ai feroci suoi ordini, cui chiamava il suo antisenato». Mg.
  57. 207. E i Bruti ecc.: e que’ che si dicevan grandi patrioti, dediti ad ogni sorta di vituperi.
  58. 208. il nordico nembo: l’invasione degli Austro-Russi. Cfr. la nota d’introd. a p. 125. — leggiadro: nobile; detto per ironia.
  59. 209. sommerse: Ecco l’epitaffio che fu fatto in quell’occasione alla morta Cisalpina: «Qui giace una Repubblica, Già detta Cisalpina, Di cui non fu la simile Dal Messico alla China. I ladri la fondarono, I pazzi la esaltarono, I saggi l’esecrarono, I forti l’ammazzarono. In questo sol mirabile, Carogna non piú udita, Che non puzzò cadavere Ed appestava in vita». Vedi il testamento della Rep. in De Castro, p. 249. — stroppio: impedimento, danno.
  60. 210. Il Parini nel sonetto, fatto pel ritorno degli Austriaci (Predaro i Filistei), concludeva: «Ma splendan la giustizia e il retto esempio, Tal che Israel non torni a novo pianto, A novella rapina e a novo scempio». Ma l’augurio fu invano.
  61. 211. suonar doppio: sonar alla distesa, cioè a festa.
  62. 214. tartaro: russo. — alemanno: austriaco.
  63. 217. chierche e cocolle: preti e frati apostati.
  64. 218. d’Atreo le cene: cfr. la nota al v. 204, p. 78.
  65. 219. E le vendette ecc.: cfr. la nota al v. 144, p. 68.
  66. 220. Adelasio: «Adelasio di Bergamo fu membro del Direttorio Cisalpino e ardente propugnatore delle nuove idee repubblicane. Trovò nondimeno grazia appo gl’Imperiali per aver loro svelato i depositi del denaro e degli Archivi della Repubblica. Egli era di un carattere debole, ed un bizzarro miscuglio d’idee liberali e cappuccinesche. Fini infatti coi farsi frate nel convento di S. Giustino in Padova, dove morí poco dopo». Mg.
  67. 221. Paradisi: il «conte Giovanni Paradisi di Reggio [nato nel 1760, figlio di Agostino]. Fu membro del Direttorio della Cisalpina, e in conseguenza tradotto a Cattaro dagli Austriaci nel 1799. Fu in seguito ai Comizii di Lione; e nella formazione del regno d’Italia, creato, per le profonde sue cognizioni di matematica, direttore delle acque e strade, decorato di molti ordini, di cariche illustri, e in ultimo della presidenza del senato; era anco membro dell’Istituto italiano, e morí in Patria nel 1822 [veramente nel ’26]». Mg. — Fontana: «Il Padre Gregorio Fontana delle Scuole Pie, celebre filosofo e matematico, era nativo di Nogarola nel Tirolo italiano [7 dicembre 1735]. Fu pubblico professore a Sinigaglia, a Bologna, finalmente a Pavia, dove fu anco nominato direttore della Biblioteca. Napoleone, che amava gli uomini dotti e i matematici in ispecie, lo distinse molto, e lo fece nominare membro del Consiglio Legislativo della Cisalpina, per cui fu egli pure tratto a Cattaro. Siccome egli aveva anticipatamente pubblicato qualchecosa contro la rivoluzione di Francia, perciò l’opera sua fu abbruciata insieme colla Bassvilliana, e il partito fanatico tentò, ma inutilmente, di cacciarlo dal suo posto. Durante la Repubblica Italiana, diventò membro del collegio elettorale dei dotti. Morí in Milano il 24 agosto 1803». Mg.
  68. 223. Caprara: il «conte Carlo Caprara di Bologna, il quale fu pure condotto a Cattaro per essere stato del Direttorio Cisalpino. Fu in seguito grande scudiere del viceré d’Italia». Mg. — Moscati: «Pietro Moscati, milanese [1739-1824], celebre medico e fisico, fu del Congresso Cisalpino, quindi presidente del Direttorio, e in seguito relegato a Cattaro, donde fu chiamato quasi subito a Vienna ad assistere l’arciduca Carlo, che trovavasi ammalato. Ritornato in Italia, fu spedito ai Comizii di Lione, e ottenne da Napoleone dignità ed onori, e la carica di direttore generale della pubblica istruzione». Mg.
  69. 226. Containi: il «conte Costabili-Containi di Ferrara, membro del Direttorio Cisalpino, in seguito deputato ai Comizii di Lione, e per ultimo consigliere di Stato e intendente dei beni della corona del Regno d’Italia, anch’egli deportato a Cattaro». Mg. — Lamberti: «Luigi Lamberti di Reggio in Lombardia, dotto ellenista e letterato. Fu prima segretario del legato pontificio a Bologna; trasferitosi in seguito a Roma, strinse amicizia col celebre E. Q. Visconti e col Monti. Venuto a Milano durante la Cisalpina, fu membro del Corpo Legislativo ed uno de’ piú validi oppugnatori della strana legge proposta in favore della poligamia. Trasportato a Cattaro cogli altri colleghi, si occupò in ricerche scientifiche. Di ritorno in Italia, fu nominato dell’Istituto italiano. Tra le altre sue opere, pubblicò alcune dottissime illustrazioni filologiche sul testo d’Omero, delle quali si valse assaissimo il Monti per la sua traduzione dell’Iliade. Morí in Milano verso la fine del 1813 [Era nato nel 1738]». Mg.
  70. 232. vinto: oppresso.
  71. 236. L’artiglia ecc.: la tiene ancora fra gli artigli l’Austria? S’è detto già che l’aquila è l’arme imperiale austriaca.
  72. 238. la madre: la Repubblica francese. — la figlia: la Repubblica Cisalpina.
  73. 239. seco: con sé stessa.