Iliade (Romagnoli)/Canto VIII

Canto VIII

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Omero - Iliade (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1923)
Canto VIII
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     Spandeasi Aurora, peplo di croco, su tutta la terra,
quando, sul picco piú alto dei vertici molti d’Olimpo,
Giove chiamò, che s’allieta dei folgori, i Numi a concione.
Ed egli favellò, l’udirono tutti i Celesti:
5«Voi tutti, o Numi, e tutte voi, Dive, ora datemi ascolto,
ché io vi dica quello che il cuor mi comanda ch’io dica.
Nessun di voi Celesti, né uomo né femmina, tenti
di render vano quello ch’io sono per dire; ma tutti
siate concordi, perché sian queste opere presto compiute.
10Se alcun di voi vedrò che voglia, in disparte dai Numi,
scendere a terra, e soccorso recare agli Achivi o ai Troiani,
dovrà, da me colpito, tornare scornato in Olimpia,
oppur lo ghermirò, lontano nel Tartaro buio
lo scaglierò, dov’è sotterra piú fondo l’abisso,
15dove le porte sono di ferro, la soglia di bronzo,
tanto dell’Ade piú giú, quanto il cielo è piú su de la terra.
Conoscerete cosí quanto sono il piú forte dei Numi.
Fate, se no, la prova, se tutti volete saperlo;
fate che penda giú dal cielo una gómena d’oro,

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20ed attaccatevi ad essa, voi Dei tutti quanti, e voi Dive;
ma non potrete giú tirare dal cielo a la terra,
Giove, il piú saggio dei Numi, per quanto pur voi v’affanniate.
Se poi di buona voglia anch’io mi mettessi a tirare,
su vi potrei tirare con tutta la terra ed il mare;
25poi legherei la fune d’intorno a un ronchione d’Olimpo,
e resterebbe cosí tutto quanto sospeso nell’aria:
tanto io sono piú forte di tutti i mortali e i Celesti».
     Cosí diceva; e niuno parlò, ché rimasero muti,
stupiti ai detti suoi, che furono proprio gagliardi.
30Pure, alla fine, parlò la Diva dagli occhi azzurrini:
«O padre nostro, figlio di Crono, che imperi su tutto,
ciascun di noi lo sa, che a niuno si piega tua possa;
ma, tuttavia, pietà mi stringe dei Dànai guerrieri,
che, la lor triste sorte compiendo, s’avviano a morte.
35Noi dalla guerra, come c’imponi, staremo lontani:
solo qualche consiglio che giovi daremo agli Achivi,
perché tutti, per l’ira che t'arde, non restino spenti».
     E a lei, ridendo, Giove che i nugoli aduna, rispose:
«O Tritogenia, figlia diletta, fa’ cuore: non parlo
40con volontario cruccio; ma teco voglio essere mite».
     Disse. E al suo carro aggiogò due corsieri dai piedi di bronzo,
rapidi al volo; e d’oro, su alto, ondeggiavano i crini;
ed egli stesso, d’oro le membra recinse, la sferza
bella impugnò, foggiata nell’oro, salí sul suo carro,
45sopra i corsieri, e vibrò la sferza; né furono quelli
tardi a volare, in mezzo fra il cielo stellato e la terra.
E giunse all’Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere,
dove sul Gàrgaro a lui si leva un sacrario ed un’ara
fumida. Quivi i corsieri, degli uomini il padre e dei Numi

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50fermò, li sciolse, intorno diffuse caligine fitta.
Ed ei, nella sua gloria raggiando, sede’ su la vetta,
guardando la città di Troia, e le navi d’Acaia.
     Presero dunque il pasto gli Achei dalle floride chiome,
presso le tende: a furia poi súbito tolsero l’armi.
55E dentro la città s’armavano anch’essi i Troiani:
meno di numero: e pure, correvan con avida furia,
per i figliuoli e le spose costretti alle pugne, alle zuffe.
     Or, poi che, gli uni sugli altri movendo, pervennero a un punto,
un cozzo fu di scudi, di lancie, d’usberghi di bronzo,
60d’uomini in furia; e l’uno sull’altro batteano i palvesi
umbilicati: immenso frastuono spargevasi attorno.
E qui s’udíano insieme levarsi i lamenti ed i vanti
dei vincitori e dei vinti; la terra correva di sangue.
     Sin che durò il mattino, crescendo la vampa del giorno,
65dardi volavan da entrambe le parti, e cadevan le turbe;
ma quando il sole già nel mezzo del cielo era asceso,
l’aurea bilancia prese degli uomini il padre e dei Numi,
pose due fati sui piatti, di morte e di lungo dolore,
qui dei Troiani, lí degli Achei loricati di bronzo,
70e la levò, pel mezzo tenendola. E il giorno fatale
piombò giú degli Achivi: piombò sino al suolo fecondo;
e quello dei Troiani s’aderse a l’illimite cielo.
E allora, il Dio scagliò dall’Ida un gran tuono, e rovente
un folgore avventò sugli Achei. Sbigottirono quelli,
75furon, mirando il prodigio, cospersi di scialbo terrore.
Né quivi Idomenèo, né Agamènnone osò rimanere,
né l’uno e l’altro Aiace rimasero, alunni di Marte:
Nèstore solo gerenio restò, degli Achei baluardo:
non di sua voglia, bensí fiaccato gli s’era un cavallo.

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80Con una freccia lo aveva colpíto Alessandro, lo sposo
d’Elena, a sommo il capo, nel punto ove crescono i crini
primi del cranio al cavallo, né alcuno ce n’è piú mortale.
Fe’, per la doglia, un gran balzo: la freccia trafisse il cervello;
ed anche spaventò, dibattendosi, gli altri cavalli.
85Ed ecco, mentre il vecchio le redini a colpi di spada
recidere tentava, giungevano i ratti corsieri
d’Ettore, tutti foga, recando l’auriga animoso.
E qui di certo avrebbe perduta la vita il vegliardo,
se Dïomede, aguzza pupilla, alto grido di guerra,
90non lo vedeva; e spronò, con urlo terribile, Ulisse:
«O di Laerte figlio divin, dove mai fra le turbe
tu fuggi, quasi un vile tu fossi, voltando le spalle?
Ve’, che qualcuno la lancia non t’abbia a piantar nella schiena!
Férmati; e lungi dal vecchio spingiamo quell’uomo selvaggio».
     95Cosí dicea; ma Ulisse tenace neppure l’intese,
ed oltre fuggí, verso le rapide navi d’Acaia.
Ma si lanciò Dïomede, sebben solo fosse, tra i primi,
stette dinanzi ai cavalli del vecchio figliuol di Nelèo,
e a lui favellò, queste parole veloci gli volse:
100«I giovani guerrieri t’incalzano troppo, o vegliardo,
e scema è la tua forza, ti preme l’infesta vecchiezza,
l’auriga tuo ben poco ti giova, son tardi i cavalli.
Or sul mio carro sali, su’ via, ché tu possa vedere
quali i cavalli sono di Tròo, bene esperti del piano,
105a correre di qua, di là, se s’insegua o si fugga,
ministri di terrore, che un giorno ho rapiti ad Enèa.
Abbiano cura i tuoi due servi di quelli; e noi, questi
contro i guerrieri troiani spingiamo, sí ch’Ettore anch’egli
sappia la lancia mia, come infuria, se in pugno la stringo».

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     110Cosí disse; e l’eroe gerenio, signor di cavalli,
sordo non fu. Dei suoi cavalli i suoi prodi scudieri
Stènelo ed Eurimedonte cortese si presero cura,
ed essi tutti e due sul cocchio salîr del Tidíde.
Nèstore in pugno strinse le briglie, sul dorso ai cavalli
115vibrò la sferza; e presto ad Ettore furono presso.
Questi su loro piombò; ma vibrò la zagaglia il Tidíde;
né lo colpí; ché invece trafisse l’auriga scudiero
Enïopèo, di Tebaio dal cuore magnanimo figlio,
che gli reggea le briglie, nel petto, vicino alle mamme.
120Piombò dal carro giú, s’impennarono indietro i cavalli
piedi veloci: fiaccati gli furono spiriti e forze.
D’atroce doglia allora percosso fu d’Ettore il cuore,
per il compagno. Qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e un altro ardito auriga si diede a cercare; né a lungo
125privi di guida i suoi cavalli rimaser: ché tosto
trovò d’Ifito il figlio, l’ardito Archeptòlemo. Seco
lo trasse egli sul carro, gli porse le fulgide briglie.
     E quivi orride stragi seguite sarebbero e mali,
fuggiti come agnelli sarebbero in Ilio i Troiani,
130se la pupilla acuta su lor non volgeva il Croníde.
Con un gran tuono lanciò terribile un folgore ardente,
a terra lo scagliò, del Tidíde dinanzi ai cavalli;
ed una vampa orrenda surse alta dal solfo che ardeva,
e sbigottiti i cavalli s’accovacciâr sotto il carro.
135Sfuggiron dalle mani le redini a Nèstore, il cuore
terror gl’invase, e queste parole rivolse al Tidíde:
«O Dïomede, volgi di nuovo i cavalli alla fuga!
Non vedi tu che Giove rifiuta di darci soccorso?
A questo adesso Giove Croníde concede la gloria,

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140domani la darà, se pure lo voglia, anche a noi.
Ma nessun uomo potrà mutare la mente di Giove,
per quanto sia gagliardo: ché Giove è piú forte di molto».
     E gli rispose cosí Dïomede, fiero urlo di guerra:
«O vecchio, certo sí, tutto quello ch’ài detto è opportuno;
145ma questo è un cruccio grave che l’anima e il cuore m’invade:
ch’Ettore un giorno dire potrà, favellando ai Troiani:
— Di me temendo, un giorno fuggito è alle navi il Tidíde. —
Cosí millanterà. S’apra allora la terra e m’inghiotta!».
     E Nèstore, gerenio signore, cosí gli rispose:
150«Ahimè!, che cosa hai detto, figliuol dell’accorto Tidèo?
Se pure Ettore dica che un vile e un imbelle tu sei,
non gli daranno, no, né Troiani né Dàrdani ascolto,
né dei Troiani guerrieri dal cuore animoso le spose,
a cui tu nella polve prostravi gli sposi fiorenti».
     155Disse. E i corsieri voltò solidunguli in mezzo alle turbe,
novellamente a fuga. Ed Ettore, e seco i Troiani
le grida al cielo alzando, scagliaron le amare saette.
E un grido alto lanciò di Priamo il figlio su lui:
«Renderti assai d’onore solevano i Dànai, Tidíde,
160il posto nei banchetti, le carni, le coppe ricolme;
ma or ti spregeranno: ché a fatti eri come una donna.
Alla malora, trista bagascia, ché il campo diserti:
mai non sarà che le torri di Troia tu ascenda, e le nostre
donne alle navi trascini: avrai da me prima il malanno!».
     165Cosí disse; e ondeggiava con duplice avviso il Tidíde:
voltar volle i cavalli, combatter con lui faccia a faccia:
tre volte questo avviso volgea nella mente e nel cuore,
e tre tuonò dai gioghi dell’Ida il prudente Croníde,
dando ai Troiani il segno che ad essi ridea la vittoria.

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170Ed Ettore parlò, levando alte grida, ai Troiani:
«Dàrdani, Lici, Troiani valenti a combatter da presso,
uomini siate, amici, mostrate il valore guerresco!
So certo ch’ora a me, con cenno propizio, il Croníde
vittoria ed alta gloria promise, e cordoglio agli Achivi.
175Stolti, che a gran fatica levâr questa fiacca muraglia
che a nulla gioverà, che frenar non potrà la mia furia:
presto i cavalli miei balzeranno di là dalla fossa.
E quando sarò giunto vicino alle concave navi,
memoria abbia qualcuno di porgermi il fuoco funesto,
180si ch’io bruciare possa le navi, e i medesimi Argivi
spenti vicino ai legni procombano, oppressi dal fuoco».
     Cosí detto, ai cavalli parlò, disse queste parole:
«O Xanto, Etóne, e tu, Podarge, e tu, Lampo divino,
rendete a me la grazia che a voi con tal copia largiva
185la figlia d’Etïóne magnanima, Andromaca, quando
a voi prima che a me, frumento piú dolce del miele
porgea, vino mesceva, se brama di bere avevate,
prima di me, che pure mi vanto suo florido sposo.
Su via, movete insieme, lanciatevi a caccia, ché preda
190fare possiam dello scudo di Nèstore, ch’à tutti d’oro
— fama ne sale al cielo! — gl’imbracci e il medesimo piatto;
e dalle spalle poi del Tidíde, togliamo l’usbergo
cui fabbricò Vulcano, foggiò tutto vario d’intarsi.
Se questi due pigliamo, speranza nutro io che gli Achivi
195questa medesima notte dovranno scampar su le navi».
     Parlò con tale vanto; e molto fu d’Era lo sdegno.
Sul trono ella si scosse — die’ grande sussulto l’Olimpo —
e questi motti al Dio possente Posídone disse:
«Ahimè, Nume possente che scuoti la terra, nel seno

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200pur non ti piange il cuore, per tanto sterminio d’Achivi?
Pure, ad Elíca e ad Ège portare ti sogliono doni
molti e graditi! Or tu provvedi ch’essi abbian vittoria!
Ché se volessimo, quanti siam Numi propizi agli Achivi,
respingere i Troiani, frapporre una remora a Giove,
205solo soletto sull’Ida restare dovrebbe a crucciarsi».
     E il Nume a lei che scuote la terra, adirato rispose:
«Era, che a tempo tacere non sai, che parole son queste?
Io non vorrei che venissimo a lotta col figlio di Crono,
tutti noialtri; perché di tutti egli è molto piú forte».
     210Mentre cosí parole scambiavano l’uno con l’altro,
quanto era spazio di qua dalle navi, tra il muro e la fossa,
tutto s’andava empiendo di cavalli e d’uomini armati
sospinti a frotte. Il figlio di Priamo simile a Marte,
Ettore l’incalzava: ché Giove gli dava la gloria.
215E qui col fuoco ardente bruciava le navi librate,
se d’Agamènnone in cuore la Dea veneranda Giunone
non ispirava l’idea d’eccitare egli stesso gli Achivi.
Si mosse, dunque, lungo le tende e le navi d’Acaia,
nella gagliarda mano reggendo il purpureo manto.
220Presso la negra nave panciuta d’Ulisse ristette,
che sita era nel mezzo, perché la sua voce, da un lato
giunger potesse alla tenda d’Achille, dall’altro alla tenda
del Telamonio Aiace: ch’entrambi agli estremi del campo
aveano tratti i legni, fidando nel proprio valore.
225Dunque, di qui levò ai Dànai altissimo un grido:
«Vergogna, Achivi, tristi magagne, sol belli a vedere!
Dove sono iti i vanti di quando i piú prodi fra tutti
ci credevamo, e in Lemno, parlando con vana iattanza,
mangiando carne a iosa di buoi dalle corna diritte,

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230e vino dai cratèri ricolmi attingendo e bevendo,
millantavate che ognuno potrebbe affrontare in battaglia
cento, duecento Troiani? Se or non bastiamo per uno,
per Ettore, che presto col fuoco rapace le navi
avrà distrutto! O Giove, qual mai dei possenti sovrani
235spingesti a tal rovina, struggendo l’insigne sua gloria?
Eppure, mai dei tuoi bellissimi altari nessuno
ho trascurato, quando per mar, col mio danno, qui venni;
ma sopra tutti cosce bruciai di giovenchi, ed omento,
d’abbattere bramoso le solide mura di Troia!
240O Giove, almeno adesso compiscimi questa preghiera:
fa’ tu che scampo adesso trovare possiamo, e fuggire;
e non lasciar che gli Achei sian cosí dai Troiani abbattuti!».
     Cosí disse. E pietà n’ebbe il padre, vedendo il suo pianto,
e consentí, con un cenno, che salvo il suo popolo fosse;
245e un’aquila mandò, perfetto fra tutti gli alati,
che fra gli artigli il rampollo stringea d’una rapida cerva;
e lo gittò presso all’ara di Giove bellissima, dove
porgean gli Achivi a Giove, signor dei responsi, le offerte.
E questi, allor, veduto l’augurio propizio di Giove,
250con nuovo ardor guerresco piombarono ancor sui Troiani.
     Quivi, nessuno dei Dànai, per molti che fossero, vanto
aver pote’ che prima spingesse i veloci cavalli
di Dïomede, a varcare la fossa, e affrontare i Troiani.
Primo fra i primi, quegli trafisse il troiano Agelao
255figlio di Fràdmone, mentre volgeva, a fuggire, i cavalli.
L’asta nel dorso, mentre le briglie volgea, gli confisse
fra l’una spalla e l’altra: la punta gli uscí fuor dal petto.
Piombò dal carro giú, su lui rintronarono l’armi.
E, dopo quello, i due sovrani figliuoli d’Atrèo

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260e l’uno e l’altro Aiace, vestiti di furia guerresca,
e quindi Idomenèo, dopo lui Merïóne, compagno
d’Idomenèo, gagliardo non meno d’Eníalo omicida,
e dopo loro, il figlio d’Evèmone, Eurípilo bello:
Teucro veniva nono, che l’arco ricurvo tendeva,
265e se ne stava dietro lo scudo d’Aiace, al riparo.
Aiace quivi un poco scostava lo scudo; e l’eroe
mirava; e quando alcuno colpíva, di mezzo alla plebe
con le sue frecce, e quello cadeva e perdeva la vita,
egli tornava, come bambino alla mamma, al riparo
270presso ad Aiace; e Aiace tendeva lo scudo, a coprirlo.
Chi fra i Troiani prima qui Teucro infallibil trafisse?
Cadde Orsíloco primo, quindi Òrmeno, quindi Ofelèste,
poi Dètore, poi Cromio, poi, pari agli Dei, Licofonte,
poi Melanippo, poi di Polièmone il figlio Amepone:
275tutti, l’uno su l’altro, sul suolo fecondo li stese.
Ed Agamènnone, re di genti, fu lieto, vedendo
com’egli dei Troiani le schiere abbatteva con l’arco;
e a lui, standogli presso, cosí la parola rivolse:
«Teucro, diletto mio, Telamonio signore di genti,
280saetta pur, ché tu pei Dànai sarai gran fulgore,
e per il padre tuo, che te maturò da piccino,
che te nella sua casa, sebben fossi spurio, raccolse:
fa’ or, sebbene lungi ti sia, ch’egli ascenda la gloria.
Ed una cosa ti dico, che avrà compimento sicuro:
285se Giove a me concede, signore dell’ègida, e Atena,
che un giorno alfine abbatta le solide mura di Troia,
il primo dono a te d’onore offrirò dopo il mio,
o sia tripode, o sian due cavalli col carro aggiogato,
od una donna che salga con te nel medesimo letto».

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     290E l’infallibile Teucro rispose con queste parole:
«O glorïoso Atríde, perché tu mi spingi, se sono
già di per me tutto foga? Sin quando la forza mi assista
io non desisterò. Da quando incalzammo i Troiani,
io qui, stando alla posta, trafiggo col dardo i guerrieri.
295Otto lanciate ho già saette di cuspide aguzza,
tutte si son nelle membra di giovani svelti confitte:
ma solo questo cane rabbioso colpire io non posso!».
     Cosí diceva. E un’altra saetta scagliò dalla corda,
contro Ettore, diritta, ché brama avea pur di colpírlo.
300Ma lo sbagliò: colpí Gorgitíone immune da pecca,
figlio diletto di Priamo, in petto la freccia gl’infisse.
Lui generato avea Castinéïra bella, che sposa
era venuta d’Asime, di forme una diva. — Ed il capo
piegò da un lato, come papavero quando negli orti
305a Primavera l’aggrava la bacca e la fresca rugiada:
cosí piegò da un lato la testa gravata da l’elmo.
     E Teucro un altro dardo lanciò dalla corda dell’arco,
contro Ettore, diritto, ché brama avea pur di colpirlo:
ed anche qui sbagliò, ché il colpo rese írrito Apollo.
310Ma d’Ettore l’auriga, l’audace Argettòlemo, mentre
moveva a zuffa, colpí nel petto, vicino a una mamma.
Piombò dal cocchio giú, si fecero indietro i cavalli
piedi veloci, e a lui mancarono spiriti e forze.
D’acuta doglia, allora, colpíto fu d’Ettore il cuore,
315per il compagno: qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e Cebrïone chiamò, suo fratello, che gli era vicino,
ché dei cavalli reggesse le briglie; né quegli fu tardo.
Ed egli giú balzò, dal carro suo lucido, a terra,
con un orribile grido: e, stretto nel pugno un macigno,

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320dritto su Teucro mosse, ché il cuor gli dicea di colpíre.
Dalla faretra quegli fuor tratta un’amara saetta,
posta l’aveva sul nervo; ma mentre tendeva la corda,
Ettore gli colpí la clavicola, ov’essa divide
dal collo il petto; ed è sovra ogni altro mortale quel punto.
325Qui lo colpí, mentr’egli mirava, con l’aspro macigno,
e gli spezzò la corda. La man cadde inerte sul polso:
sopra i ginocchi piombò, dalla mano gli cadde giú l’arco.
Ma non lasciò senza aiuto Aiace il fratello caduto:
corse, gli stette d’intorno, riparo gli fe’ dello scudo.
330E lui, fattisi presso, sostenner due fidi compagni,
d’Èchio il diletto figlio, Mecísto, ed Alàstore divo;
e lo portaron, che grave gemeva, alle concave navi.
     E nuovo allora infuse furore l’Olimpio ai Troiani,
che dritto spinser verso la fossa profonda gli Achivi.
335Ed Ettore moveva fra i primi, raggiante di forze.
Come allorquando un cane dai piedi veloci persegue
apro selvaggio o leone, tentando addentargli di dietro
le cluni, o i fianchi, attento se dietro si volga: del pari
Ettore al corso incalzava gli Achei dalle floride chiome,
340l’ultimo sempre uccidendo. Fuggivano quelli, sgomenti;
e poi che furon giunti di là dalla fossa e dai pali,
e dei Troiani sotto le mani ne caddero molti,
stettero alfine lí, si raccolsero presso le navi,
e l’uno all’altro dava coraggio; ed a tutti i Celesti
345alte levando le mani, ciascuno facea lunga prece;
ed Ettore qua e là volgeva i chiomati cavalli,
e della Gòrgone aveva l’aspetto, e di Marte omicida.
     Era n’ebbe pietà, la Dea dalle candide braccia;
ed ecco, queste alate parole ad Atena rivolse:

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350«Ahimè!, figlia di Giove signore dell’ègida, dunque
noi non avremo piú mai dei Dànai pietà, che distrutti
vanno cosí, che per tristo destino pervengono a morte,
per l’impeto d’un uomo! Ché niuno pon freno a la furia
d’Ettore, figlio di Priamo, che tanti malanni ha compiùti!».
     355E a lei cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«Deh!, se davvero costui perdesse la forza e la vita
sotto le man’ degli Achivi, distrutto nel suol di sua patria!
Ma sempre il padre mio delira fra tristi pensieri,
perfido sempre, e tristo, che ad ogni mia brama s’oppone.
360Non si ricorda piú quante volte suo figlio salvai
che soccombeva già d’Euristèo sotto i gravi travagli.
Quegli piangeva allora, volgendosi al cielo; e il Croníde
soleva me dal cielo mandare, per dargli soccorso.
Ma se poteva ciò prevedere la scaltra mia mente,
365quando egli scese all’Ade, che sta delle porte a custodia,
per trarne il cane esoso d’Averno dall’Èrebo fuori,
non si salvava, no, dai gorghi rapaci di Stige.
Ora ei m’esècra invece, di Tètide approva i disegni,
che gli baciò le ginocchia, che al mento gli tese la mano,
370perché d’onore Achille di rocche eversore coprisse.
Giorno però verrà, che ancor dovrà dirmi sua cara!
Su via, dunque i cavalli per noi solidunguli appresta,
e intanto io nella casa di Giove, dell’ègida sire,
entro, e dell’armi da guerra mi vesto: ché voglio vedere
375se sarà lieto il figlio di Priamo dall’alto cimiero,
quando apparire vedrà noi due nella lizza di guerra,
oppur se pascerà cani e uccelli qualcun dei Troiani
col grasso e con le polpe, dinanzi alle navi cadendo».
     Cosí disse. E fu pronta la Dea dalle candide braccia,

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380Era, la Dea veneranda, la figlia di Crono l’eccelso;
mosse, e i cavalli aggiogò dagli aurei frontali; ed Atena
la figlia occhiazzurrina di Giove dell’ègida sire,
spogliò sopra la soglia del padre il suo morbido peplo,
variopinto, che aveva foggiato ella stessa ed ornato,
385la tunica indossò di Giove che i nugoli aduna,
l’armi indossò, con cui moveva fra il pianto e la guerra,
e sopra il cocchio balzò fiammante, stringendo nel pugno
l’asta massiccia, grande, pesante, che stermina a schiere
gli eroi con cui s’adira la figlia del padre possente.
390Di qui, dunque, i corsieri guidarono, al pungolo pronti.
Giove però le scòrse dall’Ida, e fu grave il suo cruccio;
e spinse Iri, ch’à d’oro le penne, a recare un messaggio:
«Iri veloce, va’, fa’ che tornino; e starmi di contro
piú non ardiscano! Brutta sarà, se verremo a contesa!
395Ché questo io dico adesso, che avrà compimento sicuro:
io prima azzoppirò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterò loro stesse; ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
400ché l’occhiazzurra impari, se ardisce azzuffarsi col padre.
D’Era non tanto mi cruccio, né tanto mi provoca a sdegno:
ché sempre contro me, checché possa io dire, la trovo».
     Disse. E a recare il messaggio corse Iri dal pie’ di procella.
Mosse dai picchi d’Ida ai vertici sommi d’Olimpo,
405e dell’Olimpo fitto di gioghi trovò su le porte
le Dive, e le rattenne, recando il comando di Giove:
«Dove correte? Quale delirio nel seno v’infuria?
Giove non vuole che voi soccorso rechiate agli Argivi.
Fece il Croníde questa minaccia, che avrà compimento:

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410prima, zoppi farò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterà voi stesse, ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
ché apprenda tu, se ardisci, col padre, Occhiazzurra, azzuffarti.
415D’Era non tanto si cruccia, né tanto lo provoca a sdegno:
ché sempre contro lui, checché possa dire, la trova;
ma, prepotente, di te, di te, cagna sfacciata, si cruccia,
se tu la lancia tua volessi levar contro Giove!».
     Detto cosí, partiva la Diva dai piedi veloci;
420ed Era allora queste parole rivolse ad Atena:
«Ahimè, figlia di Giove dell’ègida re, non consento
che col Croníde veniamo per causa degli uomini, a lotta.
Di questi viva l’uno, distrugga pur l’altro la morte,
come il destino vuole: comparta ai Troiani e agli Achivi
425come gli detta il cuore, giustizia il Croníde: a lui spetta».
     Detto cosí, voltò di nuovo i corsieri veloci.
Sciolsero l’Ore per lei dal carro i chiomati cavalli,
e li legaron dinanzi le greppie fragranti, ed i carri
alle pareti presso poggiâr, che fulgevano tutte.
430E sopra i seggi, d’oro foggiati, sedetter le Dive,
in mezzo agli altri Numi, col cuore crucciato nel seno.
     E Giove padre, il carro veloce e i cavalli sospinse
dal monte Ida all’Olimpo, pervenne al consesso dei Numi.
A lui disciolse il Nume che scuote la terra i corsieri,
435presso ai pilastri il carro poggiò, la coperta vi stese.
E il Dio voce possente, sul trono foggiato nell’oro
sede’; sotto i suoi piedi l’Olimpo die’ lungo sussulto.
Sole, lontane da Giove, sedevano Era ed Atena,
né a lui parola alcuna volgevano, alcuna domanda.

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440Ed ei, che se n’accorse, cosí prese a dire alle Dive:
«Era ed Atena, perché vi veggo sí piene di cruccio?
Pur, non vi siete stancate nel nobil cimento di guerra,
a sterminare i guerrieri di Troia, che tanto odïate!
Smuovermi poi, tale è la mia furia e le invitte mie mani,
445non lo potrebbero quanti Celesti ci sono in Olimpo:
e voi, tremito prima v’avrebbe pervase le membra,
prima che voi vedeste la guerra, e i suoi fieri cimenti.
Perché questo ora dico che allor si sarebbe compiuto:
dal folgore colpíte, piú voi non sareste tornate
450sul vostro carro qui, dove i Numi han dimora, in Olimpo».
     Cosí disse. E crucciate rimasero Atena con Era,
l’una vicina all’altra, pensando al malanno di Troia.
E l’Occhiazzurra muta restò, ché non disse parola,
sdegnata contro Giove, pervasa di bile selvaggia.
455Ma ben parlò Giunone, che in cuor non contenne la bile:
«Quali parole mai dici tu, potentissimo Giove?
Ben lo sappiamo anche noi, che poca non è la tua forza;
ma, tuttavia, pietà ci stringe dei Dànai guerrieri,
che vanno ora distrutti, compiendo il lor triste destino.
460Or, dalla guerra lungi, se tu lo comandi, restiamo;
ma diam qualche consiglio che possa giovare agli Argivi,
sicché, pel tuo furore, non debbano tutti morire».
     E a lei Giove cosí rispose, che i nugoli aduna:
«Doman, se tu lo brami, di Crono il possente figliuolo
465veder potrai, divina mia sposa dagli occhi rotondi,
le schiere degli Argivi colpír con piú duro sterminio:
ch’Ettore, il fiero campione, non desisterà dalla guerra,
prima che presso i legni si levi il Pelíde veloce,
quel dí che avvamperà vicino alle navi, la zuffa,

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470in un’orrenda stretta, di Patroclo presso alla salma:
cosí vuole il destino. Di te, della furia che t’arde,
pensiero io non mi do, neppur se agli estremi confini
del mare e della terra tu giunga, ove Crono e Giapeto
seggon, né quivi li allieta del Sol ch’alto valica il raggio,
475né lo spirar dei venti, ma il Tartaro fondo li cinge:
neppur se quivi tu, vagando, giungessi, pensiero
non mi darei di te: ché di te non c’è altra piú cagna».
     Disse. Né motto rispose la Dea dalle candide braccia.
E nell’Ocèano cadde la lucida vampa del Sole,
480la negra notte sopra le zolle feraci traendo.
Cara ai Troiani non fu la luce, sparendo; ma cara
giunse la fosca notte, tre volte invocata, agli Argivi.
     Ettore fulgido, allora, raccolse i guerrieri Troiani
sul vorticoso fiume, lontan dalle navi, in un luogo
485libero, dove sgombro di salme appariva uno spazzo.
Qui dai cavalli a terra balzarono, e udîr le parole
ch’Ettore, ai Numi caro, diceva. Stringeva la lancia
d’undici cubiti, in pugno: splendeva la punta di bronzo
in cima, e la cingeva, foggiato ne l’oro, un anello.
490Poggiato a questa, tali parole rivolse ai Troiani:
«Udite, o voi Troiani, voi Dàrdani, e tutti, o alleati.
Or credevamo che ad Ilio ventosa tornati saremmo
dopo distrutte tutte le navi con tutti gli Achivi;
ma prima è sopraggiunta, purtroppo, la tènebra; e salvi
495fatti ha gli Achivi e i legni sovressa la spiaggia del mare:
ora, alla negra notte conviene che pur ci rendiamo.
Dunque, apprestate la cena, sciogliete i chiomati cavalli
di sotto i cocchi, ad essi dinanzi ponete la biada,
e dalla rocca bovi recate, con pecore pingui,

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500senza indugiare; e il pane recate, ed il vin dalle case,
che i cuori allegri; e poi gran raccolta di legna si faccia,
e, sinché duri la notte, sinché non rifulga l’aurora,
s’ardano grandi fuochi, ché al cielo il bagliore ne salga,
perché gli Achei chiomati non possan, durante la notte,
505sopra l’immane dorso del mare, tentare la fuga.
Non debbon senza fretta salir sulle navi, a bell’agio:
deve piú d’uno una piaga portare, e smaltirsela a casa,
vuoi da una freccia, vuoi da un’acuta zagaglia colpíto,
mentre salia su la nave: sicché qualcun altro abbia a schivo
510recar contro i Troiani le dure battaglie di Marte.
Quindi, per la città, gli araldi diletti di Giove,
gl’impuberi fanciulli avvertano, e i vecchi canuti,
che intorno alla città, su le mura costrutte dai Numi,
s’accolgano; e le donne che accendano ognuna un gran fuoco,
515nella sua casa; e guardia continua si faccia, ché mentre
le schiere sono lungi, non entri un drappello nemico.
Fate cosí, Troiani magnanimi, come vi dico.
Queste parole ora ho dette, che valgano a vostra salvezza,
il resto le dirò su l’alba, ai guerrieri Troiani.
520Io spero, e Giove invoco, e tutti i beati Celesti,
ch’io scaccerò quei cani, qui giunti per nostra sciagura,
ché su le negre navi guidati qui li hanno le Furie.
Su, dunque, sinché dura la notte, facciam buona guardia:
dimani all’alba, poi, coperti le membra dall’arme,
525risveglieremo presso le concave navi la pugna:
vedremo se il gagliardo figliuol di Tidèo, Dïomede,
respingermi alle mura saprà dalle navi, o se io
l’ucciderò col bronzo, ne avrò sanguinanti le spoglie.
Domani ei mostrerà quanta è la sua forza: se l’urto

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530reggere della mia lancia potrà; ma credo io che fra i primi
soccomberà ferito, tra molti compagni caduti,
da quando il sole sorge, sin quando tramonta. Immortale
esser cosí vorrei, immune cosí da vecchiezza,
ed essere onorato al pari d’Atena e d’Apollo,
535come ora questo dí segnerà per gli Achivi il malanno».
     Ettore disse cosí. Levaron clamore i Troiani:
disciolsero i cavalli, grondanti sudore, dai gioghi,
e li legâr presso i carri, dov’era ciascun, con le cinghie.
E buoi dalla città portarono, e pecore pingui,
540senza indugiare, e il pane recarono e il vin dalle case,
gioia dei cuori; e poi raccolsero legna in gran copia.
Quindi agli eterni Numi offersero scelte ecatombi;
e i venti il pingue fumo levarono, tutto fragrante,
dal piano al ciel: però non l’ebbero caro i Celesti,
545lo rifiutarono: Troia la sacra aborrivano troppo,
e Priamo, ed i figliuoli di Priamo, maestro di lancia.
Ma pieni essi d’orgoglio rimasero tutta la notte,
presso alla lizza di guerra: fulgevano i fuochi in gran copia.
Come allorquando in cielo, d’intorno alla luna, le stelle
550brillano tutte chiare, se il vento nell’aria è caduto,
e si distinguono tutte le balze e le cime dei colli
dentro le valli; ché l’aria si stende dal cielo infinito:
brillano tutte le stelle, ne gode nel cuore il pastore:
tanti sul piano, in mezzo fra i rivi del Xanto e le navi,
555i fuochi dei Troiani brillavano ad Ilio dinanzi.
Mille brillavano fuochi sul piano; e davanti a ciascuno
sedeano, al raggio ardente del fuoco, cinquanta guerrieri
ed i corsieri anch’essi, cibando orzo candido e spelta,
stavano presso ai cocchi, l’Aurora divina attendendo.