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1io-139 CANTO VIII 177

     110Cosí disse; e l’eroe gerenio, signor di cavalli,
sordo non fu. Dei suoi cavalli i suoi prodi scudieri
Stènelo ed Eurimedonte cortese si presero cura,
ed essi tutti e due sul cocchio salîr del Tidíde.
Nèstore in pugno strinse le briglie, sul dorso ai cavalli
115vibrò la sferza; e presto ad Ettore furono presso.
Questi su loro piombò; ma vibrò la zagaglia il Tidíde;
né lo colpí; ché invece trafisse l’auriga scudiero
Enïopèo, di Tebaio dal cuore magnanimo figlio,
che gli reggea le briglie, nel petto, vicino alle mamme.
120Piombò dal carro giú, s’impennarono indietro i cavalli
piedi veloci: fiaccati gli furono spiriti e forze.
D’atroce doglia allora percosso fu d’Ettore il cuore,
per il compagno. Qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e un altro ardito auriga si diede a cercare; né a lungo
125privi di guida i suoi cavalli rimaser: ché tosto
trovò d’Ifito il figlio, l’ardito Archeptòlemo. Seco
lo trasse egli sul carro, gli porse le fulgide briglie.
     E quivi orride stragi seguite sarebbero e mali,
fuggiti come agnelli sarebbero in Ilio i Troiani,
130se la pupilla acuta su lor non volgeva il Croníde.
Con un gran tuono lanciò terribile un folgore ardente,
a terra lo scagliò, del Tidíde dinanzi ai cavalli;
ed una vampa orrenda surse alta dal solfo che ardeva,
e sbigottiti i cavalli s’accovacciâr sotto il carro.
135Sfuggiron dalle mani le redini a Nèstore, il cuore
terror gl’invase, e queste parole rivolse al Tidíde:
«O Dïomede, volgi di nuovo i cavalli alla fuga!
Non vedi tu che Giove rifiuta di darci soccorso?
A questo adesso Giove Croníde concede la gloria,

Omero - Iliade, I - 12