IX. L’assalto degli scimpanzè

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IX

L’assalto degli scimpanzè

Il bestione era proprio morto.

Sette palle non avevano prodotto che delle ferite insignificanti, essendo state arrestate dall’enorme strato di grasso che avvolge sempre quei corpacci; altre due invece gli erano entrate nell’orbita destra, ledendogli il cervello.

I due cacciatori, scesi sul banco, erano rimasti stupiti nel vedere quell’enorme massa di carne, bastevole a nutrire più di trecento uomini. Vi giravano intorno, guardando con meraviglia i lunghi denti (di cui uno si era spezzato in seguito alla caduta) e la bocca enorme che poteva contenere un uomo piegato in due.

— Che cosa ne faremo di tanta carne? — si domandò il greco. — È un vero peccato lasciarla qui ad imputridire.

— Mi hanno detto che è molto buona — disse il tedesco.

— Quanto quella del bue più grasso — rispose il greco. — Ha anche un po’ il sapore di quella dei maiali.

— Ne faremo una scorpacciata.

— E ne porteremo anche con noi per la colazione di domani.

— Sokol, all’opera.

Il negro, invece di obbedire, guardava l’acqua senza pensare a far uso della scure.

— Cosa cerchi? — domandò l’arabo.

— Fuggite! — gridò Sokol slanciandosi verso l’isolotto.

I due europei, senza sapere di che cosa si trattasse, l’avevano seguito, mancando a loro il tempo di attaccarsi alla scala di corda che si trovava dall’altra parte dell’ippopotamo.

Un momento dopo due musi lunghi, appuntiti, d’un colore verdastro‐scuro, emergevano dall’acqua in vicinanza [p. F9 modifica]... Ottone non ebbe il tempo di opporre la menoma resistenza...
(Cap. XI).
[p. 109 modifica]dell’ippopotamo e s’aprivano contemporaneamente, mostrando delle mascelle smisurate armate di denti acutissimi.

— I coccodrilli! — esclamarono Matteo e Ottone, rabbrividendo.

— E per poco vi tagliavano le gambe — disse Sokol. — Cercavano di avvicinarsi di soppiatto.

— Cosa vengono a cercare qui? — chiese il tedesco.

— Reclamano la loro parte d’ippopotamo — disse il negro.

— Non lasciateli accostare, perchè sono ferocissimi.

— Guardatevi dai coccodrilli! — gridò in quel momento l’arabo, che li aveva scorti.

— Non lasceremo l’isolotto — soggiunse Matteo.

— Non potete raggiungere la scala?

— È troppo lontana.

— Cosa posso fare? Se tagliassi la corda dell’àncora e cercassi d’avvicinarmi?

— Non fatelo! — gridò Ottone. — Il pallone s’innalzerebbe di colpo e chissà dove il vento lo spingerebbe!

— Non posso fare proprio nulla?

— Per il momento nulla.

I due coccodrilli non avevano osato ancora accostarsi. Guardavano, con i loro brutti occhietti dalla fiamma giallastra, quel gruppo di uomini, agitando le loro lunghe mascelle e facendo stridere i denti acutissimi e triangolari.

Certo li pungeva anche la voglia di assaggiare la carne umana; però un resto di paura li tratteneva. L’attitudine risoluta dei tre aeronauti ed il brillìo delle loro armi dovevano aver prodotto un certo effetto anche su quei sauriani.

— Sembriamo gladiatori, che si misurano con lo sguardo prima di cominciare la lotta — disse Matteo.

— Mi pare che ci siamo guardati abbastanza e che sia venuto il momento di cominciare a batterci — disse Ottone. — Io miro il coccodrillo di destra e tu quello di sinistra.

— Spara nelle loro gole. Quegli animali sono corazzati.

— Lo so, Matteo. [p. 110 modifica]

I due europei puntarono i fucili mirando attentamente. Stavano per far fuoco, quando i due coccodrilli di comune accordo si inabissarono, non lasciando vedere che l’estremità dei loro musi.

— Non credevo che fossero così astuti — disse Ottone rialzando il fucile.

— Torneranno a mostrarsi — rispose Matteo.

— Che ci guastino l’ippopotamo?

— Di questo sono certissimo. Penso però che l’animale è così grosso che per noi ne resterà sempre abbastanza.

— Proviamo a rompere l’estremità di quei musi.

— Sprecheresti inutilmente le tue palle.

— Voglio provare. Forse si spaventeranno e prenderanno la fuga.

Il tedesco, vedendo che un muso ricominciava ad emergere, abbassò nuovamente il fucile e lo prese di mira.

Il colpo partì. Il coccodrillo, colpito proprio all’estremità del muso, balzò quasi tutto fuori dell’acqua, mostrando il suo ventre giallastro.

Matteo, che già mirava, gli mandò una palla in pieno petto, là dove non vi erano le piastre ossee.

Il sauriano, ferito a morte, si contorse come un serpente, mandando un muggito prolungato, poi ricadde addosso all’ippopotamo, dimenando spaventosamente la coda e agitando pazzamente le mascelle.

I due cacciatori, che avevano ricaricate subito le armi, approfittarono per mandargli altre due palle nei fianchi.

Il sauriano si stese quanto era lungo, un tremito lo prese, spalancò la bocca, agitò le zampe, poi s’irrigidì. Era morto.

Il compagno, spaventato, si era di già immerso nuotando verso un banco di sabbia che si trovava lontano cinquecento metri.

— Eccoci sbarazzati di quei due importuni — disse il tedesco con tutta flemma. — Ora possiamo pensare al nostro ippopotamo.

— Qual’è la parte migliore?

— La coscia — rispose Matteo. [p. 111 modifica]

— A te, Sokol.

Il negro, a gran colpi di scure, staccò un pezzo di carne del peso di una decina di chilogrammi, poi spezzò i denti, i quali avevano un notevole valore, essendo grossissimi e di una bianchezza abbagliante.

— Risali nel pallone — disse Ottone al negro. — Noi sbarazzeremo l’àncora e ci lasceremo trasportare alla riva.

Quando videro che Sokol era giunto nella piattaforma, si aggrapparono strettamente alla fune e con pochi colpi di scure liberarono l’àncora, posando i piedi sui due bracci.

Soffiando il vento dall’est, il Germania, senza bisogno di manovre, attraversò il fiume e raggiunse la riva opposta.

I due europei, senza abbandonare la fune, incastrarono l’àncora fra le radici di un immenso tamarindo, assicurandola solidamente.

— Ci accamperemo qui — disse Ottone. — Il luogo mi sembra deserto.

L’arabo ed i due negri scesero lungo la scala portando bottiglie, biscotti, scatole di conserve, alcune coperte e la carne dell’ippopotamo.

— Dormiremo a terra? — chiese El-Kabir.

— Non vedo alcun inconveniente — rispose Ottone. — Il nostro treno non può fuggire.

— Allora passeremo la notte cacciando.

— Ben volentieri. Già voi sapete che la caccia è la mia passione.

Fecero battere le erbe dai due negri per fugare i serpenti che potevano nascondervisi, poi fecero accendere un bel fuoco, mettendo ad arrostire il pezzo d’ippopotamo.

Mentre Heggia e Sokol si occupavano della cucina, i due europei e l’arabo s’erano spinti fra gli alberi per esplorare i dintorni.

Piante colossali, per lo più miombo e baobab, si estendevano lungo le rive del fiume formando una vòlta impenetrabile alla luce del sole. [p. 112 modifica]

Tra quei rami svolazzavano numerosi uccelli dalle penne variopinte.

Vi erano ibis porporate, gru turchine, fiammanti rossi, aironi dalle penne nivee, bei campioni di meropi dalle ali di smeraldo orlate di zaffiro, e pappagalli verdi e rossi, i quali garrivano noiosamente con una insistenza tale da far rintronare il cervello.

— Possiamo fermarci senza timore — disse Ottone. — Queste rive sono disabitate.

— Sembra anche a me — disse l’arabo.

Fecero ritorno all’accampamento, giungendovi nel momento in cui i due negri stavano deponendo l’arrosto su una foglia di banano.

— Che profumo! — esclamò Ottone, il quale aspirava avidamente l’odore appetitoso dell’arrosto. — Queste sono colazioni indimenticabili.

Terminato il pasto, bianchi e negri si stesero tra le erbe e rassicurati dal silenzio che regnava intorno, rotto solamente dai cicalecci dei pappagalli, si addormentarono placidamente sotto la fresca ombra del colossale tamarindo.

Dormivano da un paio d’ore quando furono svegliati da alcuni ruggiti un po’ diversi da quelli che mandano i leoni.

I cinque aeronauti erano balzati in piedi, afferrando le armi. Grida di rabbia e di spavento sfuggirono all’arabo e ai due negri.

Una banda composta di otto scimmioni, alti più di un metro e di aspetto feroce, aveva circondata la scala che pendeva dalla piattaforma.

Erano tutti tarchiati, con membra muscolose, spalle larghissime, con la testa grossa, le guance rugose, d’una tinta carnicina, ed il corpo coperto di un pelame lungo e rossastro.

I due negri e l’arabo li avevano subito riconosciuti. Erano degli scimpanzè, scimmie dotate di una forza straordinaria e che non indietreggiano dinanzi ai cacciatori. Tre scimpanzè avevano già dato l’assalto alla scala e salivano rapidamente verso la [p. 113 modifica]piattaforma; gli altri invece, scorgendo gli aeronauti, si erano raggruppati ruggendo e mostrando i loro lunghi denti.

— Fuggite! — gridò l’arabo.

— Mai! — rispose il tedesco. — Io non ho paura delle scimmie.

— Sono così robuste da lottare vantaggiosamente contro due uomini e ne abbiamo cinque dinanzi.

— Con una scarica pareggeremo il numero.

Il tedesco puntò risolutamente il fucile e lo scaricò sul muso del più vicino; lo scimpanzè cadde con la fronte fracassata, facendo parecchi capitomboli e mandando acute urla che avevano qualche cosa d’umano.

Gli altri quattro, invece di fuggire, si scagliarono coraggiosamente contro gli aeronauti.

Uno si gettò contro l’imprudente tedesco, rovesciandolo al suolo quasi senza sforzo. Stava per strappargli la pelle del volto, quando una palla sparata dal greco lo fulminò.

Gli altri tre avevano assalito l’arabo ed i due negri. Il primo, con un colpo di mauser, mandò l’assalitore a cadere nel fiume col petto traforato.

I due negri invece, spaventati, anche perchè non avevano armi da fuoco, evitarono l’attacco, salvandosi dietro l’enorme tronco del tamarindo.

I due scimpanzè s’erano slanciati dietro di loro, facendo salti indiavolati per raggiungerli.

Però Matteo e il tedesco avevano veduto il pericolo che correvano i negri ed avevano ricaricate le armi.

Due colpi di fucile rimbombarono e uno degli scimpanzè cadde per non più alzarsi.

Il suo compagno per un momento fece fronte ai due europei che gli correvano addosso impugnando i fucili per la canna, poi, preso dalla paura, scomparve nel bosco, urlando e ruggendo

— Che strage! — esclamò Matteo. — Non credevo che la vittoria ci arridesse così facilmente. [p. 114 modifica]

— Non abbiamo ancora vinto, mio caro — disse Ottone. — Anzi temo il contrario.

— Ah, sì, vi sono ancora le tre scimmie che si sono rifugiate sulla piattaforma.

— Che taglino la corda dell’àncora? — chiese l’arabo con voce spaventata.

— Tutte le armi sono rinchiuse nella cassa, per nostra fortuna — disse Heggia. — Le ho messe io dentro.

— Hanno i denti ed a quelle bestiacce potrebbe saltare il ticchio di recidere la corda dell’àncora e anche quella della scala.

— Sarebbe la nostra rovina — disse Ottone. — Intanto leghiamo la scala alle radici di quest’albero.

— E poi cosa faremo? — chiese El-Kabir.

— Tenteremo di snidare le scimmie.

— In qual modo? Non vi consiglio di salire.

— E perchè?

— Sono capaci di gettarvi sulla testa le casse che si trovano sulla piattaforma. Queste scimmie sono molto intelligenti e assai astute.

— Eppure bisognerà cacciarle di là — disse Matteo. — Non possiamo rimaner qui eternamente a guardare il nostro treno.

In quel momento una bottiglia, alla quale era stato rotto il collo, cadde a pochi passi da loro, spandendo intorno un acuto odore di ginepro.

— Oh! — esclamò Matteo. — Le nostre scimmie hanno aperta la cassa delle bottiglie e stanno ubriacandosi!

— È quello che desideravo — disse Ottone. — Quando saranno bene ubbriache, si addormenteranno; e potremo facilmente gettarle giù dalla piattaforma.

— Purchè non gettino in vece giù tutte le nostre casse e guastino le macchine ed i palloni! Una scimmia ubbriaca è dotata di tale forza che può essere capace di tutto.

— Se ci provassimo a sorprenderle? — chiese El-Kabir.

— In quale modo? [p. 115 modifica]

— Devono essere tanto occupate a tracannare le nostre bottiglie, da non fare attenzione alla scala.

— Vorresti salire? — chiese Matteo.

— Almeno vorrei provare.

— Un’impresa troppo pericolosa — disse Ottone. — Sono capaci di gettarvi addosso qualche cosa e farvi stramazzare da cinquanta metri d’altezza. Siccome io non ho alcun desiderio di fiaccarmi il collo, per conto mio rinuncio all’impresa.

— Eppure voglio provare — disse l’arabo. — Vedremo che cosa faranno gli scimpanzè.

El-Kabir impugnò una rivoltella che teneva nella cintura e cominciò a salire, mentre Matteo e Ottone prendevano i fucili per soccorrerlo con qualche buona scarica.

Appena la scala cominciò ad agitarsi, i tre scimpanzè si misero a urlare ed a ruggire spaventosamente.

Si vedevano balzare sulla piattaforma come indemoniati, curvandosi sul parapetto a mostrare il pugno all’imprudente che osava salire.

Ottone aveva puntato più volte il fucile per mandare una palla nel cranio di quei dannati quadrumani; ma il timore di guastare i palloni lo tratteneva, poichè il proiettile poteva attraversare qualche areostato e lacerarlo.

L’arabo si era intanto innalzato di una decina di metri, quando una bottiglia vuota gli cadde fra le spalle.

— Scendi, scendi! — gridarono i due europei.

— Presto, padrone! — gridò Heggia. — Si preparano a bomdardarvi!

Le scimmie, vedendo che l’audace arabo continuava a salire, cominciarono a scagliargli addosso le casseruole, le graticole, i guanciali e poi i materassi.

El-Kabir, spaventato, si era lasciato scivolare lungo le corde, allontanandosi precipitosamente.

Aveva appena raggiunto i compagni, quando un barile pieno di biscotti cadde dall’alto, fracassandosi contro il suolo.

— Quelle bestie ci rovinano! — gridò Matteo. [p. 116 modifica]

Uno scimpanzè era salito sul parapetto e si preparava a scagliare una cassa contenente delle scatole di carne conservata del peso di cinquanta chilogrammi.

Il tedesco, furioso, puntò il fucile ed a rischio di rovinare qualche pallone, fece fuoco.

Il quadrumane, colpito nel ventre, lasciò andare la cassa portandosi ambe le memi sulla ferita. Fece una spaventosa smorfia, strabuzzò gli occhi, mandò un urlo feroce; poi, perduto l’equilibrio, rotolò nel vuoto, sfracellandosi il cranio contro una radice del tamarindo.

I suoi compagni, vedendolo schiacciarsi contro il suolo, scoppiarono in una risata sgangherata e balzarono indietro tenendosi le costole.

— Sono ubbriachi — disse Matteo.

— Che io abbia guastato qualche pallone? — si chiese il tedesco con inquietudine.

— Non mi pare — disse il greco. — La tua palla deve essere passata ad un buon metro dalla tela, a giudicare dalla tua posizione.

Le due scimmie intanto continuavano a ridere a crepapelle; balzavano da una parte all’altra della piattaforma come se fossero impazzite, bevendo le due bottiglie che tenevano in mano.

— Non resisteranno molto — disse El-Kabir. — Il ginepro non tarderà a fare effetto.

— Intanto teniamole d’occhio e se si presentano in buona posizione di tiro, non risparmiamole — disse Matteo.

Sedettero a cinquanta passi dalla scala per non ricevere sul capo qualche cassa o qualche barile, e si tennero pronti a far fuoco; ma i due scimpanzè, spaventati forse dalla disgraziata fine del loro compagno, si guardavano bene dal mostrarsi.

Si erano sdraiati fra le casse e continuavano a ridere ed a schiamazzare, baciando senza posa le bottiglie che tenevano in mano.

Le loro risa però diventavano sempre più fioche. Di quando [p. 117 modifica]in quando invece si udivano ruggire come leoni, alzando od abbassando il tono.

— La finiscono sì o no? — si chiese il greco, il quale cominciava a perdere la pazienza.

— Non la dureranno molto — disse Ottone. — Il ginepro è di prima qualità ed è così forte da ammazzare anche un gigante.

Le risa ed i ruggiti diventavano più deboli. Finalmente cessarono del tutto.

— È tempo di dare la scalata al nostro treno — disse Ottone, alzandosi.

— Salgo io pel primo — disse Matteo. — Non mi pare prudente esporci tutti al pericolo di ricevere qualche barile sul cranio.

— Noi ti seguiremo subito — rispose l’arabo.

— Tenete pronti i fucili.

Si fece dare dall’arabo la rivoltella e cominciò a salire, procurando di non far oscillare troppo la scala.

Saliva adagio, fermandosi di tratto in tratto per vedere se i due scimpanzè si mostravano, poi riprendeva a salire mentre i suoi compagni tenevano i fucili puntati verso la piattaforma.

Quando giunse a pochi metri sotto il pallone, udì un russare sonoro.

— Dormono — disse. — Non vi è alcun pericolo.

Superò rapidamente la distanza, scavalcò il parapetto e si slanciò sulla piattaforma impugnando la rivoltella.

I due scimpanzè, completamente ubbriachi, dormivano profondamente, sdraiati in mezzo alle casse. Puzzavano orribilmente d’alcool, essendosi bagnato il pelo col ginepro.

Quattro bottiglie vuote erano sparse intorno a loro.

— Che sbornia! — esclamò il greco, ridendo.

S’accostò alle due scimmie e le fulminò con due palle negli orecchi.

La morte fu istantanea.

— Guardatevi! — gridò poi.

Le prese una alla volta, essendo molto pesanti, e le gittò dalla piattaforma, mandandole a fracassarsi fra i rami del tamarindo. [p. 118 modifica]

— Potete salire! — gridò.

— Hanno fatto dei guasti? — chiese Ottone.

— Nessuno — rispose il greco. — Si sono limitate a ubriacarsi.

— Ecco delle scimmie oneste — disse Ottone, respirando. — Temevo che avessero rovinate le eliche.

Pochi minuti dopo l’àncora veniva staccata e il Germania riprendeva la sua corsa, deviando leggermente verso il sud-ovest.