VIII. Momento critico

../VII ../IX IncludiIntestazione 24 gennaio 2019 75% Da definire

VII IX

[p. 92 modifica]

VIII.

Momento critico

Mentre cavalcavano verso il gigantesco sicomoro, presso il quale si trovavano i cavalieri lasciati da Ben-Zuf a guardia del treno volante, Matteo si era portato a fianco del tedesco, interrogandolo con lo sguardo.

— Ti comprendo — rispose Ottone in tedesco, onde non farsi comprendere dal sultano che gli cavalcava dinanzi. — Ho preparato un bel tiro che ci sbarazzerà di questa mignatta.

— Lo vuoi portare con noi sul Germania?

— Non possiamo fare diversamente.

— E poi?

— Vedrai cosa succederà dopo, mio caro Matteo. Ci divertiremo.

Il sultano, di mano in mano che si avvicinava al treno aereo, mandava crescenti esclamazioni di stupore. Non sapeva capacitarsi come non fosse veramente un uccello e si ostinava a cercare il rostro, le zampe e le ali che non v’erano affatto.

— Ah, questi bianchi! — esclamava, con sincera ammirazione. — Sono dei grandi maghi! Anche gli uccelli sanno fabbricare oltre le armi e le grandi case galleggianti che fumano. E obbedirà docilmente quella bestia?

— Come vi obbedisce il cavallo che montate — rispondeva il tedesco.

— Meraviglioso, incredibile!... Andremo molto in alto?

— Anche fino alla luna, se vorrete.

— Allora una sera andremo a rubarla al cielo e la porteremo nel villaggio. Ci servirà da lanterna.

— Sì, andremo a rubarla — disse il greco, il quale stentava assai a trattenere le risa. [p. F7 modifica]... estraendo la rivoltella e puntandola sul petto del monarca...
(Cap. VIII).
[p. 95 modifica]

Giunti sotto il Germania, il quale ondeggiava leggermente sotto la spinta del vento, tendendo la corda dell’àncora in modo quasi da spezzarla, il sultano ed i tre aeronauti scesero da cavallo, mentre la scorta si disponeva all’intorno, tenendo in pugno i moschetti e le lance.

— Non avrete paura a salire questa scala di corda? — chiese il tedesco al sultano.

— No — rispose questi risolutamente.

— Quando saremo lassù, darai ordine ai tuoi uomini di staccare l’àncora che si è fissata fra i rami.

— Io vorrei però condurre con me anche Ben-Zuf.

— È impossibile — rispose prontamente il tedesco. — Il mio uccello non può portare più di sei persone.

— Manda giù qualcuno dei negri.

— Mi sono necessari per manovrare le macchine del mio pallone.

— Non potrebbe surrogarli Ben-Zuf?

— Non conosce le manovre.

— È vero — rispose il sultano.

Ordinò a due guerrieri di arrampicarsi sul sicomoro per staccare l’àncora, poi salì coraggiosamente la scala di corda senza dimostrare alcuna apprensione. L’arabo e i due europei l’avevano subito seguito, giungendo felicemente sulla piattaforma.

— Guardate quanta terra abbraccia lo sguardo — disse il tedesco conducendo il sultano a prora.

— Meraviglioso! — esclamò il monarca. — Partiamo, andiamo più in alto, fino a vedere l’Usagara e l’Ugogo. Ah, questi bianchi! Che stregoni!

— Matteo — disse Ottone, — preparati a gettare un quintale di zavorra.

— Basterà per portarci fuori dalle scariche?

— Sì — rispose Ottone. — Il gas è straordinariamente dilatato.

— Lasciate l’àncora! — gridò il sultano ai negri che s’erano [p. 96 modifica]già arrampicati sul sicomoro — Vado a vedere i guerrieri del Niungu.

L’àncora fu liberata e il Germania si alzò maestosamente fra le grida di stupore della scorta.

— Giù la zavorra! — gridò Ottone.

Heggia e Sokol presero un sacco contenente un quintale di sabbia e lo precipitarono sulle teste dei cavalieri, mentre il Germania, con un salto improvviso, s’innalzava di quattrocento metri.

Il sultano vedendo sparire i suoi cavalieri, i quali rimpicciolivano rapidissimamente, s’era voltato verso i due europei. Aveva perduta tutta la sua sicurezza e li guardava con diffidenza e anche un po’ con terrore.

— Andiamo a vedere l’Ugogo — disse Ottone con meraviglioso sangue freddo.

Poi estraendo rapidamente una rivoltella e puntandola sul petto del monarca, gli disse con voce minacciosa:

— Làsciati ora legare senza opporre resistenza o ti faccio gettare dal pallone.

Il sultano, preso da un terrore folle, si era lasciato cadere su una cassa, dicendo con voce piagnucolosa:

— Mi avete tradito... uccidetemi. Altarik mi aveva detto che voi eravate gli alleati dei Ruga-Ruga.

— Noi non vogliamo farti alcun male — rispose Ottone, mentre Heggia e Sokol legavano per bene il disgraziato monarca e gli levavano le due pistole e la scimitarra. — Ti faremo fare un piccolo viaggio, poi ti metteremo a terra.

«Fra tre ore potrai dormire nel tuo tembè e rivedere i tuoi ministri e le tue mogli.

— Non mi consegnerete ai Ruga-Ruga?

— Altarik ha mentito. Noi non siamo gli amici del Niungu, anzi, non abbiamo mai veduto quel ladrone. Andiamo a liberare l’inglese e null’altro.

— E nemmeno mi ucciderete?

— Ti ho detto che fra poco ti metteremo a terra. Sta’ tranquillo e nulla ti verrà fatto di male. [p. 97 modifica]

«Matteo, dagli un bicchiere di ginepro. Questo povero monarca ne ha bisogno.

El-Kabir, invece, fece offrire al negro una bottiglia intera, sapendo già con quale specie di ubbriacone aveva da fare. Con un bicchiere non si sarebbe nemmeno bagnata l’ugola.

Mentre il monarca si consolava del tiro giocatogli dal furbo teutone, bevendo a gran sorsi il contenuto della bottiglia, il treno aereo passava sopra il villaggio, trasportato dal vento e dalle eliche che erano state messe in funzione.

La popolazione intera si era riversata sulla piazza del mercato acclamando il monarca e salutando gli europei con battimani o con colpi di fucile a polvere. Alcuni si misero a correre in direzione del pallone, cercando di seguirlo.

Il Germania procedeva con tale velocità, che una mezz’ora dopo il villaggio non era più visibile, essendo scomparso dietro ai fittissimi boschi.

— Scendiamo — disse Ottone. — Non voglio spaventare troppo questo povero Sultano, tanto più che deve essere già ubbriaco.

— La bottiglia è quasi vuota — disse Matteo.

— Che gola! Ed il briccone resiste ancora con tutto quel ginepro che ha in corpo!

— E ne vorrebbe dell’altro.

— Gli regaleremo un paio di bottiglie che berrà assieme ai suoi ministri.

Avendo scaricato un quintale di zavorra, era necessario lasciar sfuggire un po’ di gas per poter discendere a cinquanta metri dal suolo, quanto era lunga la scala di corda.

La perdita non era molto grave, essendovi una considerevole provvista d’idrogeno nei cilindri di acciaio.

Il tedesco aprì le valvole dei quattro palloni centrali mentre le eliche venivano voltate orizzontalmente per affrettare la discesa.

Un momento dopo il Germania cominciava ad abbassarsi dondolandosi fortemente.

Esso scendeva in una piccola prateria cosparsa di macchie di [p. 98 modifica]datteri selvaggi e di euforbie. Il luogo pareva deserto, quindi non vi era da temere alcuna sorpresa, tanto più che il villaggio era ormai lontano una quindicina di miglia.

Gettata l’àncora, andò a fermarsi fra i rami di una euforbia.

— Potete scendere — disse il tedesco, mentre Heggia lanciava la scala.

Il monarca, che era già stato sciolto dalle corde, si alzò traballando.

— Questo viaggio era così delizioso che lo avrei continuato fino al Kassongo — disse.

— Non sei più in collera con noi? — chiese El-Kabir, ridendo.

— No — rispose il sultano.

— Sai ritornare al tuo villaggio?

— Conosco il paese.

— Ti restituiremo la tua scimitarra e ti daremo un paio di bottiglie che berrai strada facendo.

— E le mie pistole.

— Sono armi troppo pericolose in tua mano — disse Ottone.

— Non si sa mai! In un momento di cattivo umore potresti scaricarcele addosso.

— Avete torto a dubitare di me.

— Te le daremo al nostro ritorno.

— Ripasserete?

— Te lo promettiamo.

Il sultano, che pareva non conservasse alcun rancore per quella burla, prese la scimitarra e le due bottiglie e scese la scala seguito da Sokol, il quale era stato incaricato di liberare l’àncora.

I due europei e l’arabo, curvi sul parapetto, li seguivano con lo sguardo.

Quando furono a terra, il sultano fece con la mano un saluto agli aeronauti, poi fece alcuni passi.

D’improvviso fu veduto retrocedere, sfoderare la scimitarra, troncare con un solo colpo la corda dell’àncora, e quindi scagliarsi sul negro che gli volgeva le spalle. [p. 99 modifica]

— Guardati, Sokol! — gridò El-Kabir, mentre i due europei si precipitavano sui fucili che stavano appoggiati su una cassa.

Il negro, udendo quel grido, si era voltato. Vedendo il sultano con la scimitarra alzata, fece un salto sottraendosi al colpo, poi si aggrappò alla scala di corda che stava per sfuggirgli.

Il Germania s’alzava rapidamente avendo Heggia gettato, un momento prima, un mezzo quintale di zavorra.

Il sultano, che pareva fosse improvvisamente impazzito, si era gettato verso la scala vibrando colpi furiosi di scimitarra.

Fortunatamente era giunto un momento in ritardo. Sokol, stretto alla scala, veniva portato in alto.

— Miserabile! — gridò Matteo, puntando il fucile verso il sultano, il quale si era dato a fuga precipitosa.

Anche El-Kabir aveva preso un mauser e mirava il fuggiasco.

Stavano per far fuoco, quando da una macchia di bauchinie videro una belva slanciarsi con un salto e cadere addosso al sultano.

Era un grosso leopardo, la belva ferocissima molto comune nelle regioni dell’Africa centrale ed orientale.

Il sultano si era piegato sotto il peso della belva, poi era caduto al suolo, mentre le unghie dell’animale gli squarciavano il petto e la gola.

L’arabo ed il greco, quantunque si fossero armati per punire il traditore, fecero fuoco sul leopardo quasi contemporaneamente.

L’animale, fulminato, cadde sul corpo della sua vittima.

— Scendiamo! — gridò Matteo.

— È inutile — disse Ottone, il quale aveva puntato un cannocchiale sul sultano. — Sono morti entrambi.

— Andiamo almeno ad assicurarcene.

— Dovremmo sacrificare dell’altro gas e mi preme troppo conservarlo.

— Che brutta fine ha fatto quel povero sultano!

— Ne faranno un altro — disse El-Kabir.

Sokol intanto era rientrato sulla piattaforma. Il negro era ancora spaventato, più per l’assalto del sultano che per la scalata che aveva fatto a quell’altezza straordinaria, sospeso nel vuoto. [p. 100 modifica]

Un buon bicchiere di ginepro lo rimise presto dall’emozione provata.

Il Germania, dopo aver raggiunto i trecento metri, aveva ripresa la sua corsa, passando sopra foltissime foreste.

Aveva lasciato l’Usghera e si avanzava attraverso l’Usagara, uno dei più vasti distretti della costa orientale africana ed anche dei più lussureggianti, quantunque poco abitato.

Gli aeronauti da quell’altezza poterono scorgere verso il sud il Muscendo, uno dei fiumi più importanti della regione e anche alcuni villaggi perduti sui fianchi di una catena di monti.

Nondimento il paese che stavano attraversando pareva deserto non scorgendosi alcuna capanna, nè alcun campo coltivato dalla mano dell’uòmo.

A mezzodì, mentre stavano per far colazione, il Germania superava alcune catene di colline pochissimo alte e assai boscose e scendeva nelle vaste pianure erbose che occupano gran parte dell’Usagara.

In mezzo a quelle opulente praterie, interrotte solo da pochi gruppi di banani e di sicomori, si vedevano apparire moltissimi animali.

Truppe di zebre fuggivano caracollando in mezzo alle erbe e bande di giraffe galoppavano disordinatamente. Non mancavano le antilopi e nemmeno i bufali, animali terribili questi, che non temono i cacciatori, molto più vigorosi dei nostri tori e con la testa armata di corna tremende.

Nel veder passare tanti animali, il tedesco si animava e non poteva trattenersi dallo sparare qualche colpo di fucile dietro alla fuggente selvaggina, con poco successo tuttavia, in causa della rapidità del treno aereo.

— Questo è il paradiso dei cacciatori! — esclamava. — Questa sera ci fermeremo in qualche buon luogo e ci sfogheremo.

— Dovremo fermarci presso qualche fiume — disse l’arabo.

— Dopo il tramonto la selvaggina non si può scovare che dove c’è dell’acqua. [p. 103 modifica]

— Troveremo qualche fiume? — chiese Matteo.

— Sì, un affluente del Wami, molto largo e con le rive boscose — disse El-Kabir.

— Sarà ancora molto lontano? — chiese Ottone.

— Con quale velocità avanziamo?

— Venticinque miglia all’ora.

— Fra tre o quattro ore vi giungeremo.

— E troveremo molti animali?

— Soprattutto elefanti e giraffe.

— Degli elefanti! — esclamò Ottone. — Il mio sogno!

— Ne uccideremo qualcuno, ve lo prometto.

— Andiamo a cercare questo affluente del Wami.

Il vento, che si manteneva forte all’altezza di trecento metri, spingeva velocemente il dirigibile.

Qualche gruppo di capanne cominciava ad apparire in mezzo alle folte foreste che erano succedute alle praterie lussureggianti.

Anche una grossa borgata apparve, due ore prima del tramonto, verso il sud. Era Kondu, uno dei centri più popolosi dell’Usagara, dove si fa ancora un vivo commercio di schiavi, quantunque non si possano più condurre a Zanzibar, come si faceva ancora alcuni anni or sono nonostante l’attiva sorveglianza delle navi da guerra inglesi.

Verso le sette il paese aveva ripreso l’aspetto selvaggio. Si alternavano pianure coperte da erbe altissime e boschi di miombo e di sicomori giganteschi.

Ottone, che osservava attentamente l’orizzonte, mezz’ora più tardi segnalava un largo fiume, il quale scendeva dal nord scorrendo con larghi serpeggiamenti, verso il sud est.

— È quello che cerchiamo? — chiese all’arabo.

— Sì — rispose questi. — Abbassiamoci e gettiamo l’àncora sulle rive.

Alberi giganteschi e baobab si levavano sulle rive di quel corso d’acqua, formando da soli delle piccole foreste, rifugi certi di numerosa selvaggina.

Ottone, che era impaziente di prendere il fucile e di slanciarsi [p. 104 modifica]nel folto di quelle superbe piante, aprì le valvole per lasciar sfuggire ancora un po’ di gas, trovandosi il dirigibile troppo alto, e mise in moto le eliche.

Condensandosi anche l’idrogeno, il treno aereo cominciò ad abbassarsi con notevole velocità e si trovò presto sopra il fiume che era largo più di trecento metri e cosparso d’isolette coperte di felci arborescenti e di mazzi immensi di bambù di varie specie.

Sokol aveva già gettato l’àncora, ma, non avendo misurato esattamente la distanza, questa si era immersa nelle acque del fiume.

— Ci ancoreremo sul fondo — osservò Matteo. — È necessario tirarla un poco.

Il negro stava per obbedire, quando il Germania subì una scossa così forte da piegarsi innanzi. Quasi nell’istesso momento si udì, verso il fiume, un alto muggito.

— Che cosa è avvenuto? — si domandò Ottone, con inquietudine.

— Ci siamo ancorati sul fondo del corso d’acqua?

— O abbiamo preso all’amo qualche animale? — si chiese l’arabo. — Ho udito il muggito di un ippopotamo.

Si erano slanciati tutti verso il parapetto, mentre il treno aereo continuava a subire scosse pesantissime senza guadagnare un solo metro.

La corda dell’àncora era estremamente tesa e nel luogo ove si era immersa, si vedeva l’acqua agitarsi fortemente e la schiuma tingersi di rosso.

— Noi abbiamo ferito qualche grosso animale — disse Matteo.

— Non vedete che l’acqua è insanguinata?

Si udivano dei muggiti sempre più rabbiosi; pareva che una truppa di tori si trovasse sotto il fiume.

— Abbiamo dato dentro ad un ippopotamo! — esclamarono i due negri e l’arabo.

— Che la nostra àncora l’abbia ramponato? — tornò a domandare Matteo.

— Certo, perchè l’àncora tiene fermo — disse Ottone. — Non vedi che il nostro treno aereo non guadagna un passo?

— Come faremo a sbarazzarci di quell’animale? [p. F8 modifica]... slanciarsi con un salto tremendo e cadere addosso al sultano...
(Cap. VIII).
[p. 105 modifica]

— Se non fosse così pesante getterei della zavorra e lo strapperei dal fondo del fiume.

— Tutta la nostra zavorra non basterebbe.

— Lo so, Matteo.

— Aspettiamo che comparisca alla superficie del fiume e apriamo il fuoco su di esso — disse El-Kabir. — Quando l’avremo ucciso manderemo i nostri uomini a liberare l’àncora.

— E se tagliassimo invece la corda?

— No, Matteo — disse Ottone. — Le nostre àncore sono troppo preziose per perderle. Armiamoci e fuciliamo il mostro.

— Non sarà cosa facile, perchè ha la pelle molto spessa.

— Mirate alla fronte — disse El-Kabir, — tra un occhio e l’altro.

L’ippopotamo continuava a dibattersi sotto le acque, lanciando in alto spruzzi di spuma sanguigna e altissimi, rabbiosi muggiti.

L’àncora, che aveva le punte assai acute ed i margini taglienti, doveva essergli penetrata profondamente nel corpo massiccio, poichè la bestiaccia non riusciva a sbarazzarsene nonostante gli sforzi supremi. Intanto si dirigeva ad un isolotto che sorgeva quasi in mezzo al fiume: cercava di raggiungerlo per prendere terra e vedere se gli riusciva di liberarsi dall’àncora che doveva produrgli dolori atroci.

Il treno volante subiva continue scosse, pure non v’era da temere che potesse subire alcun guasto, essendo la corda dell’àncora legata alla traversa anteriore della piattaforma.

Poco dopo l’ippopotamo giungeva presso l’isolotto rimontandolo rapidamente.

Era un vero colosso. Come si sa, questo anfibio è l’animale più grosso dopo l’elefante; ha gambe corte e massicce, la testa larga e rigonfia, e le forme intermedie fra il porco gigantesco ed il toro, senza corna.

Tali animali hanno ordinariamente una lunghezza da quattro a cinque metri, e quasi altrettanto di grossezza, il corpo avviluppato da uno strato di grasso molto spesso, coperto da una [p. 106 modifica]pelle grossa, dura, lucente, sprovvista di peli e così resistente da non poter venire attraversata dalle palle di fucile. La loro bocca soprattutto è enorme, e le loro mascelle sono armate di denti, lunghi talvolta mezzo metro, di un avorio che supera per resistenza quello degli elefanti.

Di solito vivono in acqua, potendo rimanere sommersi parecchi minuti e dormono tenendo fuori solamente le narici. Verso sera però escono e vanno a saccheggiare i boschi ed i campi, cercando radici e mais, poichè sono esclusivamente vegetariani.

Il mostro era stato colpito presso la gamba destra posteriore.

L’àncora gli si era infissa profondamente sotto il ventre.

Dalla ferita il sangue colava in grande quantità, arrossando le erbe acquatiche dell’isolotto.

Vedendo la corda, l’animale faceva sforzi supremi per reciderla, senza riuscirvi, non potendo simili corpacci piegarsi interamente.

— Apriamo il fuoco! — gridò Ottone, puntando il mauser.

— Non illudetevi di ucciderlo ai primi colpi — disse El-Kabir.

— Devo tirare alla testa?

— Sì, mirate fra gli occhi.

Il tedesco sparò; la palla andò a colpire il mostro in mezzo al collo, facendo uscire alcune gocce di sangue.

— Proiettile perduto — disse l’arabo. — Si è cacciato nello strato di lardo.

— Il treno subisce tali scosse che non mi consentono di mirare bene — disse Matteo. — Avremo molto da fare per ucciderlo.

L’arabo fece fuoco a sua volta senza alcun risultato. La palla aveva forse colpito il mostro sul dorso ed era rimbalzata altrove.

— Che pelle dura! — esclamò il tedesco.

— Non solo; è anche così viscida che le palle scivolano — rispose l’arabo. — Se non colpiamo la bestia presso l’occhio, non faremo nulla.

— Fuoco a volontà dunque!

I tre cacciatori, decisi a sbarazzarsi di quel bestione, che [p. 107 modifica]continuava ad imprimere scosse disordinate al treno volante, ricominciarono a sparare, mirando alla testa.

I colpi si succedevano ai colpi, con poco profitto. Le continue scosse rendevano la mira difficile.

L’ippopotamo era stato colpito varie volte senza alcun costrutto; ma le palle che gli grandinavano addosso lo rendevano maggiormente furibondo.

Muggiva orribilmente, batteva i denti con uno stridore sinistro, spalancava l’enorme bocca piena di schiuma sanguigna e si contorceva disordinatamente, tentando di liberarsi dall’àncora.

Al dodicesimo colpo di fucile l’animalaccio cadde sulle ginocchia, dimenando furiosamente la testa. Il tedesco gli aveva mandata una palla presso l’occhio destro, causandogli una grave ferita, però il proiettile non pareva che gli avesse toccato il cervello.

— Un’altra ancora e cesserà di vivere — disse l’arabo.

Al sedicesimo colpo un’altra palla di El-Kabir feriva il mostro presso lo stesso punto.

L’ippopotamo questa volta mandò un ruggito più acuto, spalancò l’enorme bocca aspirando affannosamente l’aria, poi rotolò nel fiume, fermandosi su di un banco di sabbia quasi sommerso dall’acqua.

— È morto! — gridò El-Kabir.

— Gettate la scala! — comandò il tedesco.

Sokol ubbidì.

— Scendiamo — disse Matteo preparandosi a scavalcare il parapetto.

— Prendi il fucile! — gridò l’arabo.

— È già morto — rispose il greco. — Ci servirà meglio una scure.

— Non si sa mai che cosa possa accadere.

Il greco prese il suo mauser e cominciò a scendere seguito a breve distanza dal tedesco e da Sokol, il quale si era armato di una pesante scure.