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il treno volante | 111 |
— A te, Sokol.
Il negro, a gran colpi di scure, staccò un pezzo di carne del peso di una decina di chilogrammi, poi spezzò i denti, i quali avevano un notevole valore, essendo grossissimi e di una bianchezza abbagliante.
— Risali nel pallone — disse Ottone al negro. — Noi sbarazzeremo l’àncora e ci lasceremo trasportare alla riva.
Quando videro che Sokol era giunto nella piattaforma, si aggrapparono strettamente alla fune e con pochi colpi di scure liberarono l’àncora, posando i piedi sui due bracci.
Soffiando il vento dall’est, il Germania, senza bisogno di manovre, attraversò il fiume e raggiunse la riva opposta.
I due europei, senza abbandonare la fune, incastrarono l’àncora fra le radici di un immenso tamarindo, assicurandola solidamente.
— Ci accamperemo qui — disse Ottone. — Il luogo mi sembra deserto.
L’arabo ed i due negri scesero lungo la scala portando bottiglie, biscotti, scatole di conserve, alcune coperte e la carne dell’ippopotamo.
— Dormiremo a terra? — chiese El-Kabir.
— Non vedo alcun inconveniente — rispose Ottone. — Il nostro treno non può fuggire.
— Allora passeremo la notte cacciando.
— Ben volentieri. Già voi sapete che la caccia è la mia passione.
Fecero battere le erbe dai due negri per fugare i serpenti che potevano nascondervisi, poi fecero accendere un bel fuoco, mettendo ad arrostire il pezzo d’ippopotamo.
Mentre Heggia e Sokol si occupavano della cucina, i due europei e l’arabo s’erano spinti fra gli alberi per esplorare i dintorni.
Piante colossali, per lo più miombo e baobab, si estendevano lungo le rive del fiume formando una vòlta impenetrabile alla luce del sole.