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mente il quadrato di cielo formato dallo sfondo della finestra.
Ella si smarriva lassù; vi sentiva l’impressione di una cosa infinita, infinita, inafferrabile, inesplicabile, come la passione che la dominava.
Una inesplicabile tristezza la prese, la invase e conquise tutta; le sembrò che il davanzale rappresentasse la sua anima solitaria e abbandonata, e disperò. Chiuse la finestra, e si gettò sul letticciuolo senza poter piangere.
Allora il vento autunnale diventò più forte; mille rumori tristi, resi acuti dal freddo, arrivavano sino ai vetri riflettenti il crepuscolo giallo, cantando tristi canzoni di morte.
Oh, morire, morire! Come Cicchedda, anche Maria, nella profonda e ineffabile tristezza dell’autunno morente, desiderò morire per destar pietà di lui!
A misura che il freddo s’inoltrava, vide Cosimo più di rado. Non apriva la finestra, ma guardava dai vetri che la pioggia talvolta copriva d’un velo liquido e arabescato: altre volle era la nebbia tiepida e violacea che vaporava per la via; e dietro quei veli melanconici la figura di Cosimo parea appannarsi, dileguarsi dall’anima di lei; ma la tristezza restava sempre fissa, immensa e grave. Intanto pensava che fra poco, divenuto Cosimo sposo di un’altra, ella non avrebbe più potuto amarlo senza peccato. O lei, o il suo amore morrebbero. Forse il suo amore era