Il secolo che muore/Capitolo I
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Capitolo I.
L'ANTIVIGILIA DI NATALE.
— Oh! che lo invito glielo abbia a mandare?
— Fa’ quello che il cuore ti detta; io per me non glielo manderei
Era ormai un quarto d’ora e più che Orazio e Marcello se ne stavano seduti avanti al fuoco, senza alternarsi parola, ed i ragionamenti loro, prima che tacessero, non avevano avuto nemmanco alla lontana relazione di sorta a cotesta domanda e nè a cotesta risposta; non pertanto s’intesero perfettamente.
Ora come avviene ciò? Decifrarlo è difficile, ma io credo che nel modo stesso col quale i corpi si mettono in corrispondenza fra loro per virtù di correnti elettriche, o di fluidi animali, così gli spiriti si compenetrino, mercè un’aura di pensiero, che muove da una, parte e dall’altra. Basta; comunque la cosa accada, non si potrebbe negare come due creature s’intendano, e conversino insieme senza significare con parole gli interni concetti.
Difatti le menti di Orazio e di Marcello stavano in quel momento appuntate in Omobono Compagni, padre d’Isabella, il quale, secondo il presagio che un dì si ebbe a fare Orazio, ora riuscito alla prova cattivo a farina e peggio a pane.
Sarebbe spietà e travaglio pretto dell’anima cliiarire come le subitanee conversioni dei tristi occorrano tanto frequenti nei desiderii e nelle immaginazioni degli scrittori, quanto rade nel mondo reale: non impugno qualche caso di convertito sul serio: avis rara, ma però tanto straordinario, tanto pericoloso, tanto incerto, che di tratto in tratto parmi lecito domandare a se stesso, se la carne valga il giunco.
Poniamo da parte se l’uomo obbedisca a propensioni naturali; io credo di sì; certo è poi che un abito morale formato da diuturne meditazioni, da propositi continui o da pratiche giornaliere talmente ti si converte in natura, che tu non potrai spogliarlo senza che ne venga via anche il pezzo.
Cedendo all’impeto di una spinta violenta, il cuore dell’uomo al pari dell’ago calamitato devia dal suo polo, ma poi e cuore ed ego lasciati a sè stessi tornano oscillando al punto dove la necessità li costringe; tanto più il cuore, in quanto gli fanno forza molte e diverse passioni incrostate, per così dire, nello essere suo; però che ora ceda alla vendetta, ed ora alla cupidità, talvolta alla vanità, tal’altra alla superbia, e così via, le quali passioni tutte spesso procedono nel medesimo individuo non già alla spicciolata, bensi congiuntamente.
Così Omobono, nato falco e vissuto sparviere, entrando nel cammino della onestà parve un pulcino dentro la stoppa; sopportava fatica da sudare acqua e sangue; a mantenersi saldo sulla via del galantuomo sentiva proprio dolore quanto e più ne pativa l’uomo condotto a sostenere il giudizio di Dio delle braccia aperte in croce, finchè durava la messa.
Nella insolita scalmana di affetto verso la figlia e il nipote, che mai non disse e non fece Omobono! Donò ad Isabella tante gioie pel valsente di oltre trentamila lire; volle costituirle la dote di ben oltre quattrocentomila; il neonato, ben intesi, doveva esser suo, propriamente suo, e però erede di quanto egli si trovava a possedere nel mondo. Lasciasse, per amoro di Dio, Marcello quei suoi tisicuzzi negozi, dove assottigliandosi anima e corpo avrebbe raggranellato una dozzina di mila franchi per anno: pensiero suo sarebbe stato di avviarlo per modo che, senza un suo risico, dodicimila lire le avrebbe guadagnate in un bacchio baleno: si lasciasse fare!
E tropico tempo non corse, ch’egli s’industriò con ogni maniera di astuzie riagguantare le gioie donate ad Isabella, la quale, tuttochè buona femmina fosse, pure era femmina, e però a pigliare generosa, a rendere parca, massime quando si trattava di gioie: la dote Omobono non pagò mai; l’aveva promessa e basta; il figlioccio gli passò per la mente con la frequenza con la quale gli ci veniva Attila re degli Unni; e quanto allo allogamento del genero Marcello, lo tolse appunto ai suoi modesti traffici, gli aperse la Banca, dove sul principio non fece penuriare capitali, che in breve rimasero assorbiti da un giro vorticoso di cambiali del suocero; e poi, il male pigliando vizio, incominciò a tempestare Marcello con uno uragano di tratte a vuoto, sicchè Orazio ne rimase spaventato per modo che, ristrettosi con Marcello, deliberarono insieme di cavarsi fuori da cotesto pelago, e lo fecero con infinita querimonia di Omobono, che liquidati i conti, essendo rimasto debitore, mise in campo un sacco di ganci, da. sgomentare ogni fedele cristiano, per non pagare il saldo, onde per la meno trista fu mestieri lasciare parecchi bioccoli di lana in cotesta siepe. Pertanto il civanzo che fece Marcello col suocero magnifico fu questo, perdita del suo antico avviamento e scapito di non poca moneta; e tuttavia Omobono non rifiniva di lamentarsi che quel suo genero gli costava un occhio.
Allora scappò la pazienza ad Orazio, il quale prese a far cosa a cui avrebbe dovuto pensare prima; che del senno del poi ne vanno piene le fosse: mise sopra al suo trespolo Omobono, raccolse prudentemente quante maggiori notizie sul conto suo potè e incominciò a studiarlo per di dentro e per di fuori. Lo seppe di progenie malnata e indigente e feroce. Uscì di casa come una fusta di pirati una volta sferrava da Algeri per corseggiare sul Mediterraneo: suo viatico questo, paura del diavolo poca, del codice penale nessuna, odio immortale alla miseria; però nei primordi facendo di ogni erba fascio, qualche penna in mano ai giudici correzionali l’ebbe a lasciare. Essendosi in lui imbattuta per caso la sfrontatezza cadde in deliquio sospirando: «Ahimè, il mio padrone è nato!»
Strano a dirsi, e pure vero, voruno più di lui credeva alle proprie menzogne: di parola osservata non si discorre nemmanco; dei contratti eseguiva quelli che tornavano a lui; se no litigava; i giuramenti falsi si tirava giù come ciliege in guazzo: fu marito senza affetto, fece un affare, donde cavò facoltà da costituirsi sgozzino: le arti dello strangolatore apprese tutte ed altre ce ne aggiunse di suo, e così bene l’esercitò, che quasi persuase il tapino, da lui spogliato in camicia, di averlo rivestito da capo a piedi; e come fu marito senza affetto, così diventò padre con paura, che nell’unica figlia altro non vide che una nuova Eva venuta al mondo per portargli via una costola; vano, non ambizioso, imperciocchè non si proponesse scopo alcuno nel procurarsi dovizie, però che, più di essere, gli premeva comparire straricco; e se avesse potuto avrebbe istituito erede se medesimo: ambi reputazione di Mecenate, e compcrati quadri a tanto il metro li sciorinava battezzando il più tristo almeno un Raffaello: uccellato, da principio non se ne accorse, poi conosciuta la ragia relegò lo tele in soffitta e vendè le cornici. Ostentava lusso e penuriava del necessario: stoffe di seta e luminare di bronzo dorato in sala, in camera lenzuola di tela canapina e un candeliere di ottone; nella scuderia cocchiere con livrea e mozzi di stalla, in casa un servitore unto e bisunto da disgradarne Gaccio Imbratta di sudicia memoria, al quale por giunta egli truffava il danaro del salario, dandogli ad intendere che glielo faceva fruttare venti per uno mettendolo a parte dei suoi negozi, e costui lo credeva, perchè cosa mai non crede la ignorante cupidità? Se temeva che qualche cittadino informato di talune delle sue marachelle potesse sbottonare di lui, eccolo pronto a soffiare nelle orecchie di quanti gli si paravano davanti una procella di calunnie a carico di quel galantuomo, di cui la minore o l’uxoricidio, o aver lasciato morir di fame il padre, o truffato la eredità al fratello; dove, per ventura, lì per lì si fosse presentato il trafitto dai suoi improperi, ecco farglisi incontro festoso, blandirlo con parole umili, ricercarlo con premura della sua salute, dei figli, del padre morto, della moglie strangolata e via discorrendo. Costui partitosi, se l’altro, col quale aveva messo male del festeggiato, gli domandava: — Per caso non sarebbe egli il parricida di cui teste mi favellaste? — Egli ghignando, con una crollatina di spalle rispondeva: — Appunto è quel desso. — Tetra impostura forse non mai più vista al mondo. La onestà degli altri si recava a insulto, anzi credeva dche taluno si mantenesse uomo dabbene proprio per fargli dispetto: il suono della lode per la virtù altrui gli giungeva grato all’orecchio quanto quello della sega quando la limano; e si racconta come certa volta essendogli caduto il portafoglio di tasca con di molti biglietti di banca, un popolano avendolo trovato per via glielo riportasse; di che rimase inferocito, onde cavatosi uno scudo di tasca lo porse al popolano, e guardatolo a straccia sacco gli disse: «Va’: comprati tanta fune ed impiccati: il far da galantuomo costa caro.» Quando morì la sua povera moglie, avendo trovato vero il proverbio, che nella vita matrimoniale il marito gode due giorni di contentezza massima, quello cioè delle nozze e l’altro dei funerali della moglie, volle metterli a confronto, e calcolare quale dei due costasse meno: fatti i debiti riscontri, trovò che nel secondo aveva risparmiato sul primo settantrè e un quarto per cento. Procurò altresì che sopra la lapide, che le pose con lunga diceria, si dichiarassero le virtù della morta e quelle di lui vivo, e il pianto inconsolabile e lo affetto imperituro, con tutte le altre ciurmerle, le quali generarono il proverbio: «Bugiardo come una lapide.» Tuttavia volendo mettere d’accordo l’epitaffio lungo e la spesa, ci adoperò una lastra sottile di marmo ravaccione di Serravezza, spendendoci in tutto lira novantatrè, e non so che soidi.
Due cose sopra ogni altra nequizia inspiravano paura nel pravo talento di Omobono, ed erano questo: sgraffiato una volta dal pettine della polizia correzionale, ei procedeva a mo’ del cane, il quale scottato dall’acqua calda temo la fredda; quindi al di là degli articoli del codice egli guardava con lo struggimento dei nostri primi padri, quando, espulsi dal Paradiso terrestre, oltre i suoi muri contemplavano il frutto probito; ed Omobono di cotesti frutti non poteva astenersi, nò voleva, comecchè di lasciarci il pelo aborriva: allora attese a istituire intorno a se un semenzaio di giovanotti di belle speranze, destinati a svilupparsi nella pienezza del furfante; questi con amore coltivava, forniva di danaro; perchè mano a mano in ogni maniera di vizi s’impantanassero; noviziato iniquissimo di corruttela: nel medesimo tempo Omobono per via di ambagi, e come di mezzo ad una nebbia, gli ammaestrava nella infinita famiglia dogli scrocchi, ondo si accorcia la via della fortuna, e poi senza ordinare nulla di preciso aggiungeva: «Io vorrei essere inteso, figliuoli miei, a volo, che tutto non si può dire; il mondo è di chi so lo piglia, e per fare roba presto, bisogna avere un parente a casa del diavolo.»
E il giorno stesso noi quale aveva dato al giovane uno spintone verso la galera a vita, egli era fantino da mandargli di mancia un cento o duecento lire per sopperire ai bisogni di casa sua, accompagnandole con una lettera gremita di buoni consigli e di salutari avvertimenti da disgradarne una serqua di missionari; la quale egli aveva cura di riportare sul copia lettere del banco, e ciò pel medesimo fine per cui gli accorti capitani nel presagio della difosa muniscono le rocche. Così addestrato, il nostro cane, uomo spontaneo o sguinzagliato, irrompeva nello bandite del codice penale, donde tornando con qualche truffa in bocca glie l’agguantavano Omobono, o gli sbirri; finchè raccoglieva Omobono, la faccenda andava a pennello; se il disgraziato capitava in mano al bargello, era un altro paio di maniche: allora Omobono non rifiniva d’imprecare alla corruttela dei tempi, lo lettere di ammonimento scritte al giovane mostrava a chi voleva, ed a cui non lo voleva vedere:
«Come si fa? bisbigliava in modo che lo sentissero tutti; gran brutta dote mi donò natura, col farmi affezionare troppo a chi mi sta dintorno: se mi dessi la disciplina ogni quattro ore di filo, non basterebbe a scontare questo viziaccio.»
Verso sera scivolava guardingo a casa del giovane; quivi padre e madre consolava; certo quel benedetto ragazzo l’ha fatta grossa; pure stessero di buon animo, che egli per quanto gli bastassero le forze gliel’avrebbe accomodata. E qui figuratevi le benedizioni, i pianti, i baci sulle mani e sulle falde del vestito, e l’accendere i quattro lucignoli delle lucerne per fargli lume sino all’ultima scala. Svoltato il canto, Omobono, senza frapporre indugio, si recava al giudice istruttore, dove sulle prime pigliava le difeso del giovane per terminare col mettere il magistrato sulla via di scolorire il giovane e coprire sè.
L’altra nequizia di costui consisteva nel seminare discordia tra persone amiche, e, se congiunte per sangue, tanto meglio; neè si ristava dal soffiare in cotesto fuoco, finchè non lo vedesse divampare in odio immortale; allora pareva scaldarcisi le mani con ineffabile contentezza. Insomma, per le qualità dell’anima Omobono Compagni era tale da credere che, a suo tempo capitato allo inferno. Giuda Scariotte, fattogli di berretta, si alzasse dal suo seggio e gli dicesse: «Ci si metta lei.»
Quanto poi alle doti fisiche ogniqualvolta Orazio si riportava al pensiero le forme di Omobono, rideva ad un pulito e rabbrividiva, imperciocchè davvero il corpo di lui rappresentasse una truce buffoneria; veduto di profilo pareva una figura composta di tre sette: dal cucuzzolo del suo zuccone scendeva una linea inclinata sopra la fronte, ed un’altra dal cucuzzolo fino alla nuca; questo il primo sette: dalla collottola giù per le spalle chine in avanti partendosi un’altra linea terminava all’osso sacro, donde ripiegandosi lungo le cosce toccava il ginocchio; e questo il secondo sette: il terzo sette composto dalla medesima linea delle cosce e da quella delle gambe arrembate, fino al tallone: costumava inoltre portare le braccia a guisa di manichi di brocche, e le mani nascoste o in tasca dei calzoni, o nella cintura, che aveva
Dita e man dolcemente grosse e corte
come quelle dell’innamorata del Berni. I piedi, zoccoli veri di animale solipede, onde, o perchè male ci si reggesse sopra, o per qual’altra causa, saltellava sempre: vera scimmia affricana, e di scimmia egli mostrava altresì la faccia gialla come lardo invietito, grinzosa e scura sotto gli occhi grigi. Come i pensieri sotto, così i capelli sopra cotesto cranio rari, scarmigliati, bianchi e neri come sa avessero lite fra loro: camuso il naso, di cui le narici, o piuttosto froge, si dilatavano e si crispavano, unico segno in lui di sensibilità: si sarebbe detto che il cuore, accortosi della sua inutilità in cotesto corpo, avesse depositato la facoltà
del palpito sopra le alette del naso a costui: la barba rigida e mozza, che ritta sempre in su più che ad altro rassomigliava ad una zeppa por ispaccare le legna: la bocca sdentata, che forse i denti non avevano potuto reggere alla fiumana corrosiva delle ribalderie del continuo irrompente dalla gola di Omobono: breve, onde io ponga fine a questa miniatura, cotesta era faccia che la molta virtù di Socrate valse a rendere tollerabile, e non potè nobilitare; faccia, che, a mio parere, fruttò più di un voto nella sentenza che condannò il povero filosofo a bere la cicuta; faccia, che prima di Socrate, ai tempi di Socrate e dopo lui fu giudicata sempre dagli intendenti faccia di ladro. Difatti narrasi dal dottore Zimerman1 cosa o ignota a tutti, o a pochi manifesta, come un giorno capitasse in Atene certo fisiomante, al quale, prima ch’egli avesse preso lingua in città, i discepoli di Socrate mostrarono il maestro, affinchè dai lineamenti del suo volto tirasse a indovinare la natura di lui; sicuri che egli avrebbe preso un granchio, ed essi una riprova della inanità della sua pretesa scienza. Il fìsiomante, considerata un cotal poco la faccia del filosofo, sentenziò reciso: «Questa è faccia di ladro.»
I discepoli di Socrate diedero in uno scoppio di risa; ma qual fu mai la maraviglia loro e lo vento, quando Socrate, dopo aver racquetato col cenno cotesto rumore, disse placidamente: «Quest’ uomo ha ragione; sortii da natura lo istinto del ladro, e me dominò per lungo tempo la passione del furto, la quale avendo spinto a furia di combattimento fuori dell’animo mio, tanto non seppi fare, che ella non abbia lasciato qualche traccia di se sopra la mia sembianza.»
Intanto tu, lettore, poni in sodo questo assioma: faccia bianca con occhi grigi e naso camuso, ordinariamente è faccia di ladro.
Nel punto stosso in cui Orazio terminava di susurrare lo parole: «io per me non glielo manderei» ecco levarsi dall’altra parte della sala uno strepito di voci gioconde, che in diversi tuoni gridavano:
— È fatta! È latta!
Lo voci moveviino da un gruppo composto di una donna e da cinque giovanetti, tre maschi e due femmine. La donna era Isabella, splendida di matura bellezza, la quale pendesse piuttosto alla seconda che alla prima metà dello autunno, lieta di casti pensieri e di santi affetti, disgradava ben mille primavere di più giovani donne: ella deliziavasi nella gloria della sua maternità, come il cigno gode sull’aurora bagnarsi le ali nella rugiada; lei circondavano i figli, formosissimi nella stessa guisa che i nostri famosi maestri dipinsero la madre di Cristo sempre accompagnata dagli angioli; vari gli atti, e un po’ anche i volti, ma non più di quanto conviene essere a’ fratelli; i capelli di tutti pari a quelli della madre, di un bel biondo di oro; per lo che stando essi raggruppati insieme gli inondasse dall’alto un torrente di luce, che scendeva dalla lumiera appesa al soffitto, e paressero circonfusi dal nimbo radiato a modo di angioli. Di statura diversi, pari alle canne dell’organo disposte a spirare armonia di paradiso, dove la mano esperta sappia ricavarne il suono; e la mano esperta è quella appunto della madre.
O madri, non vi lasciate sedurre dalle piaggerie; meglio varrà per voi allevare sani i vostri figliuoli in casa, che medicare gli altrui fuori di casa; meglio educare i suoi, che confondersi con quelli degli altri; stiamo al sodo; che tu madre possa amare gli altri più dei tuoi non ci credo, e non è; se fosse, come storto amore si avrebbe a’ riprendere: in tutto ciò che non si uniforma alla natura gatta ci cova: la carità incomincia da se e dai suoi, lo ha detto Cristo, tenerissimo della umanità; se ve ne avanza, prodigatela altrui; per la donna, che non è madre, la faccenda procede altrimenti; ella può, invece che all’uomo, consacrarsi al bene del genere umano.
La celebrità della madre di famiglia è un sole, chi smonta il vermiglio della verecondia; spettabile sopra tutte la donna la quale, per sentenza di Teofrasto, non diede mai a dire di sè nè in bene, nè in male. Delle donne latine di una si conosce la tomba e il nome, Cecilia Metella, non già la famiglia e le opere; di un’altra solo la tomba: di questa sappiamo unicamente che domu mansit et lanam fecit.
A coloro poi che incauti amici s’industriassero persuadere a voi madri di famiglia come questo sarebbe pensare solo a se, e nulla agli altri: se così costumassero tutte, l’umano consorzio si sfilaccerebbe sotto le dita dell’egoismo; la loro vita sarebbe quella dello insetto caduto nel calice del fiore, dove oblioso del mondo esterno sugge, si rinnuova e muore, voi rispondete.: «Cotesto lo sono novelle; di che cosa andava composto il fascio romano? Di verghe: ebbene, come il fascio romano si formava di verghe, la società si costituisce dall’aggregazione delle famiglie, e chi coltiva la propria famiglia è buono operaio nel campo doll’umanità.»
— Che cosa è quella che voi avete fatto? — interrogò Marcello.
— Ecco, rispose sorridente Isabella, io aveva commesso a tutti questi figliuoli che componessero una lettera, secondochè il cuore loro dettava, col proposito che io poi avroi scelto la meglio, ovvero no avrei formata una io, togliondo ora dall’una, ora dall’altra quanto mi fosse parso più adattato: ora avendo giusto fatto così, mi venne di comporre questa, approvata dal consenso universale. La volete sentire? Non di no, perchè bisogna che di santa ragione voi la leggiate, non si potendo spedire se prima non vi apponiate il nome vostro.
E lesse:
«Carissimo, nonno, suocero, ed amico.»
Il parroco, il quale essendosi posto con tanta poca riverenza a sedere sopra le reliquie di Santa Filomena, sentì di un tratto, convertite in carboni accesi, ardergli il fondamento, non diede in maggiore sbalzo di quello che facesse Orazio all’udire cotesto principio di lettera; ma subito dopo si contenne e aggrinzò la bocca come i bambini quando incominciano a piangere.
Isabella, non avvertendolo, proseguiva: «Se provassi mezza la voglia che abbiamo noi di vederti, di vedere noi, tu a quest’ora avresti preso a nolo le ali di una colomba per volare a casa nostra. Vieni dunque a rallegrarci con la tua presenza, siccome tu ti rallegrerai nella nostra: sagrifichiamo tutto un dì sopra l’altare domestico al Genio della famiglia. Vieni; a nome di quanto hai di più sacro al mondo (e dovremmo essere noi) t’intimiamo a comparirci davanti il giorno del santo Natale all’ora di desinare, e prima potendo.»
Marcello, finita la lettura, dondolava il capo da destra a sinistra, nè assentendo, nè disdicendo, Orazio cliiuse gli occhi, e s’incrociò le mani sul petto in atto di cui dica: «in manus tuas commendo. » Tuttavia Isabella, assorta nel suo fervido amore, non badando a cosifatti segni, ripiglia:
— Ed ora la segneremo tutti, e la manderemo alla posta, che abbiamo ad essere sempre in tempo; così babbo la potrà ricevere domani, a mezzo giorno al più tardi, e so glielo permettono gli affari, farci la sorpresa di venire la sera. Tenga, zio, a lei sta scrivere il primo il suo riverito nome.
E così dicendo gli porgeva la penna intinta nello inchiostro. Al povero Orazio pareva gli macinassero il cervello; lo colsero i brividi, si sforzava a non battere i denti, e appena ci riusciva: due pensieri si combattevano nel suo spirito, che uno gli mormorava dentro l’orecchio destro come un moscone dentro a un fiasco: — come onesterai la schifezza che ti assale contro il perdutissimo, che pure è padre della tua nuora? Di che parte ti rifarai a spalancare intero l’animo tuo? Informerai il padre al cospetto della figlia? Dell’avo alla presenza dei nepoti? — Ma, santo Dio, s’egli non ebbe viscere mai nè di padre, nè di nonno! Non importa, essi non lo credono, e giova così; e tu vorresti versare in cotesti cuori un’amarezza che non ha confine, avvelenare i giorni di quei cari innocenti? E bada, tu corri il rischio che alle tue parole neghino fede; e dopo tanta fatica per procurarti il loro affetto ti piglino in odio libera nos Domine.
L’altro pensiero nell’orecchio sinistro gli ronzava: — nota bene, che se tu respingerai la proposta benevola senza addurre motivo alcuno, ti giudicheranno a ragione cervellino, zotico, e peggio. Diranno che hai aspettato sul chiudere bottega a buttare sul mercato questi fondacci di magazzino, questa merce avariata. Su, Orazio, da bravo, dacchè tu sei prossimo al laus Deo del tuo libro mortale, e non lo nascondi a te stesso, chiudi gli occhi, butta giù anco questo, e non isconciarti sul più bello le uova nel paniere. Ricorda come il tuo Signore, il quale vedo le azioni più riposte dell’uomo, e legge gli arcani del cuore, te ne ricompenserà; sì, Orazio, credi ch’ei te ne ricompenserà. Tienti fermo a questa fede: alla svolta si provano i barberi!
Orazio prese bravamente la penna, e segnava, ma la mano tremando gli negò l’ufficio, sicchè lasciò cascare sopra il foglio uno scorbio, e subito dopo la penna scivolandogli dalle dita lo imbrattava con una seconda macchia più grossa della prima; non ci fu verso potere scrivere più innanzi, e ormai la lettera concia a quel modo non poteva andare, quindi deliberarono ricopiarla. Intanto tutti dintorno allo zio Orazio a domandargli se si sentisse male; forse lo aveva indisposto il fuoco, anzi certissimamente il fuoco; e Orazio assentiva dicendo: «può essere, può essere»; ed aggiungeva « il meglio sarà ridurmi in camera»; e preso in fretta il braccio di Marcello si sottrasse alla nuova persecuzione.
E così accadde che la lettera d’invito ad Omobono Buoncompagni fu spedita senza la sottoscrizione di Orazio.
Note
- ↑ Maraviglie della natura.