Il romanzo della morte/IV
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IV.
— Fausto! — chiamò don Paolo svegliandosi — Vittorio! Perchè mi avete lasciato dormire così tardi? Dovevo andare in Duomo, dovevo alzarmi presto!...
I due giovani si appressarono al letto, con premura, ma senza inquietudine. Sapevano; era sempre così.
Quando don Paolo si svegliava, non si rammentava più di nulla. Qualunque ora fosse, trovandosi a letto, credeva fosse mattina e si lagnava perchè l’avevano lasciato dormire troppo tardi.
Essi gli presero le mani e si chinarono su lui accarezzandolo.
— Perchè siete venuti così presto? Cosa, facevate?...
— Fausto aveva da scrivere per il suo professore; io fingevo di studiare il codice e guardavo fuori della finestra quella pazzerella di Amelia che mi canzonava.
L’infermo sorrise vagamente alla evocazione dalla graziosa immagine. Ma il languido sorriso presto scomparve, e due lagrime colarono sulle scarne gote.
— Zio!...
— Caro zio!...
Don Paolo stese le mani, quasi trasparenti sulle due teste brune, in un gesto famigliare di benedizione e di tenerezza.
— Sono infermo... Non posso alzarmi... Me ne ero scordato!...
— Non è una infermità, è una convalescenza che si prolunga causa il freddo; tutto passerà con la bella stagione.
Il vecchio crollò il capo e osservò che a lui era sempre stato più favorevole il freddo. Perciò sperava poco. E poi... e poi... secondo lui, avevano sbagliata la diagnosi. Non conoscevano il suo temperamento. Certo, questo non faceva onore al professor Pisani, dopo tanto tempo che gli andava per casa!... Lui aveva sempre sofferto d’infiammazioni, e quello che faceva bene agli altri non conveniva a lui. Del resto, diceva che la sapeva lunga sui pregiudizi della scienza. Ammetteva che la medicina d’una volta avesse indebolita la gente a forza di salassi e purganti; ma la medicina moderna a sua volta non era buona per tutti i temperamenti. Ai vecchi come lui non giovava.
I medici moderni non vedevano che anemici e linfatici. Lui invece era sanguigno; Avrebbero dovuto levargli sangue appena gli era venuto il male. Sarebbe guarito! Ma un professore moderno sarebbe morto di vergogna, se avesse ordinato un salasso ad un vecchio. Anche la scienza aveva i suoi bigotti!
Fausto e Vittorio ascoltavano pazientemente, scambiando occhiate malinconiche. Quella era la fissazione del vecchio: credersi ammalato di pletora, mentre moriva di esaurimento!
Dopo un istante di silenzio l’abate ricominciava le sue requisitorie.
No, il buon Pisani non aveva capito niente questa volta. Eppure, altre volte l’aveva curato benissimo. Chi sa! Forse aveva cambiato sistema. Cambiavano sempre! Erano sempre alla ricerca di qualche cosa di nuovo.
— Zio — disse Fausto — vuole che facciamo venire un altro dottore? Pisani non se l’avrà a male: ci penso io. Chi vorrebbe consultare? Ha qualcuno in mente, o vuole che cerchi io?
Ancora una volta il vecchio crollò il capo, e rispose con infinita amarezza:
— È inutile, non vai la pena. Non saprei chi chiamare. Fanno tutti lo stesso. Pisani è una autorità. Chiunque tu chiami mi ordinerà sempre china; digitale, carne cruda o mal cotta, vino vecchio e cognac col brodo... Non val la pena... Dopo tutto che importa?... Ho settantadue anni... la mia vita è agli sgoccioli. Bisogna rassegnarsi. E mi rassegnerei, se almeno non fossi così abbandonato!...
— Oh! zio!... Noi passiamo qui tutte le ore che abbiamo disponibili...
— Non dico per voi due!...
“So che mi volete bene. Ma il professore? Ma le ragazze? Come mi trascurano!
Non era vero; tuttavia nessuno lo contraddisse.
— Argìa è stata poco bene — disse Fausto. — Ma stasera verrà e verrà anche l’Amelia.
— Bene!... Ora vorrei mangiare. Dov’è la signora Luisa? Non ho fatto colazione!...
— La signora Luisa sale le scale. Presto sarà pronto il pranzo.
— Il pranzo?... Ma che si pranza a quest’ora? La colazione si chiama pranzo adesso. Tutto cambia. E il disordine delle abitudini nel disordine delle idee!
Intanto Fausto era andato a prendere l’ampia poltrona a rotelle; Vittorio, la vestaglia.
Approfittando della loro disattenzione, il malato frugò sotto il guanciale e ne trasse una scatolina, dalla quale prese una pillola che inghiottì precipitosamente con un gesto scimmiesco.
Ritornando presso di lui i giovani si accorsero subito ch’egli aveva mutato aspetto e che i suoi occhi brillavano.
Gliel’aveva fatta alla scienza, e ne gongolava.
Vittorio diede nel gomito al cugino mormorando sommessamente:
— Ha preso la pillola! Bisognerà avvertire la signora Luisa.
L’aiutarono a scendere dal letto. Sarebbe stata una cosa da nulla, per loro, muovere quel piccolo corpo disseccato. Ma bisognava lasciargli credere che l’aiutavano soltanto un poco, e questo aggravava la cosa.
Appena gli si accostavano gridava:
— Faccio da me!
Ed era miracolo se non precipitava dal letto.
Ad un certo punto, mentre gridava; “Faccio da me!„ cadde col viso sulle coperte, piegato in due come un cencio.
Allora soltanto, profondamente umiliato, ma dissimulando sempre e facendo le viste di scherzare, si lasciò prendere e sostenere.
Lo vestirono alla meglio, e lo fecero sedere in poltrona, adagio adagio perchè le sue gambe indurite si piegavano difficilmente.
Egli si lasciava fare, un po’ sbalordito, con un vago sorriso sul labbro, un’ombra negli occhi ancora intelligenti.
La porta fu aperta senza rumore, e una donna alta e magra, vestita di un abito di lanetta verde che pareva nuovo e contava degli anni — sottana liscia, senza una gala, senza un drappeggio; vita a sacchetto; goletta bianca di tela e grembiale nero — entrò nella camera mostrando il suo viso di creatura sofferente, rallegrato da un largo sorriso benevolo.
— Oh! signora Luisa, finalmente! Che cosa porta?
— L’acqua tepida per farle la toilette, come tutti i giorni prima del pranzo. Bisogna farsi belli quando si aspettano delle belle visite; non è vero?
— Basta che vengano poi!
— To!... Non vengono tutte le sere?
— Ohibò!... Si scordano di me volentieri... Povero don Paolo!... Visitare gli infermi è una grande opera di misericordia; ma pochi si curano di praticarla quando rinfiorino è un povero vecchio.
Egli tacque; poi come se la piena coscienza del proprio stato gli balenasse soltanto allora, mormorò con grande abbattimento:
— Vecchio!.. Infermo!... Ah!... non avrei mai creduto che queste cose toccassero a me!
— Alzi un po’ la testa, don Paolo, altrimenti non posso lavarle il collo.
Lentamente il prete arrovesciò la testa sullo schienale della poltrona, senza parlare, dolcemente accarezzato dalle cure di quella mano femminile ancora morbida e delicata.
— Ora il pettine... Dovrebbe lasciarmeli un po’ accorciare questi riccioli, don Paolo; si arruffano troppo.
Il vecchio crollò la testa con impeto.
— No, no! No, no!
— Ebbene, no; non s’inquieti.
Fausto e Vittorio si erano un po’ allontanati.
Guardavano fuori della finestra nella strada e nella casa di rimpetto.
— Verranno poi?
— Certo. Andremo a fare una passeggiata, se lui ci lascia andar via presto.
Un leggero sorriso inarcò i piccoli baffi di Vittorio.
— Povero zio — continuò Fausto — la tabe senile lo fa impazzire anche lui. E triste la morte a quel modo.
La governante continuava a discorrere con don Paolo, mentre lo pettinava.
— Adesso è bello e all’ordine come un giovinotto. Vuole mangiare?
— Sì, ma accanto al fuoco.
Fausto andò a mettersi dietro alla poltrona per farla rotolare vicino al caminetto; mentre Vittorio sosteneva delicatamente le gambe intirizzite dell’infermo.
Quando fu a posto gli collocarono davanti una piccola tavola già apparecchiata, e la cuoca recò la minestra.
— Siamo qui anche noi! — gridò la petulante Amelia con la sua voce argentina, precipitandosi nella camera.
— Oh! cara Amelia! come sei bella! Più bella del solito, che è tutto dire.
Ella era veramente leggiadra nel suo costumino di panno rosso antico, guernito in piuma di struzzo grigio chiaro; con la piccola toque assortita all’abito, sui capelli biondi.
— Siedi qui accanto a me: mangerò di migliore appetito.
La guardava con tenerezza; le sorrideva. E il vecchio viso consunto si rischiarava, e gli occhi stanchi brillavano di nuova luce.
Non era soltanto una bella fanciulla, allegra, la cui vista lo consolava: era per lui una dolce immagine della giovinezza; un vivo riflesso del bel tempo passato.
— E la nostra sposina?
A passi misurati ma disinvolta e spigliata, Argìa, che era rimasta un po’ indietro, traversò la camera e salutò affettuosamente il “suo buon zio.„
Il prete voleva ch’essa lo chiamasse così, anticipando sull’avvenire.
Era quasi impossibile indovinare il doloroso segreto, vedendola così elegante e sicura. Portava un lungo mantello di felpina color lontra, che rallungava e rassottigliava; e il suo bel viso appariva fresco, verginale, di sotto al cappellino “Direttorio„ della stoffa e del color del mantello. Soltanto il suo sguardo aveva qualcosa di strano: scattando di sotto alle lunghe ciglie, contornato dalle occhiaie azzurrognole, leggermente affossate, esso aveva, un’espressione così intensa e addolorata, che lei stessa sentiva il bisogno di velarlo abbassando le palpebre appena qualcuno la fissava. Anche quando si ebbe levato il mantello, la sua figura si rivelò correttissima nelle pieghe sapienti di una polonese riccamente drappeggiata.
— Come sa soffrire! — pensò Fausto che la osservava.
I giovani si assisero formando un circolo intorno al piccolo desco. La signora Luisa, ritta in piedi presso all’infermo, continuò a servirlo, rompendogli il pane, tagliandogli il lesso in minutissimi pezzi, mescendogli da bere, badando che egli non versasse il vino nell’alzare il bicchiere con la mano tremolante.
Imbruniva. Il crepuscolo invernale si allargava rapidamente nella vasta camera; la fiamma rosseggiava nel caminetto.
— Come fa notte presto!
Entrò il domestico coi candelabri accesi, e accese pure la lampada pendente dal soffitto.
— Oh! così mi piace! Ho sempre amato la luce, io, la gran luce. Faccia il piacere, Luisa, accenda anche quelle candele laggiù accanto al letto. Oh! bello così! L’oscurità mi è sempre parsa il simbolo della morte...
— Dicono che in paradiso c’è tanta luce!..
— Birichina!... Dicono, già...
Egli sorrise, poi si rabbuiò improvvisamente.
— Mi dirà se le piace questa frittura, don Paolo; l’ho fatta su una ricetta del giornale di mode che mi ha dato la signorina.
— Si occupa di mode lei, Luisa?... E per codesti sacchetti che le occorre il giornale?
I giovani proruppero in una risata; la stessa Luisa non potè a meno di ridere:
— Ah! don Paolo, come mi canzona!... Leggo i romanzi, non sa?...
— E le ricette di cucina — completò l’Amelia.
— Questo fritto è eccellente davvero; evviva i giornali di mode! E ora cosa mi dà?
— Un arrosto di vitello.
— Quel fritto è piaciuto anche al babbo; l’abbiamo fatto l’altro giorno. C’era anche il dottor Fausto — la birichina lo chiamava sempre così. — Ma lui non si accorgerli queste cose... vive d’aria come mia sorella.
— E d’amore! — completò l’abate con un piccolo sospiro.
— A proposito del babbo: mi ha detto di fare le sue scuse se non è venuto oggi; non ha potuto; verrà questa sera.
— Bravo! Ci bisticceremo.... Ah! Luisa, questo non è buono. È coniglio!
La governante protestò; era vitello del più fine.
Ma don Paolo crollò il capo e respinse il piatto con una sorta di orrore.
La governante portò via l’arrosto mal venuto, abituata a questi capricci del malato.
— Vuole un bifstec?
— No... non voglio più carne. Quel coniglio mi ha disgustato. Dammi il dolce.
— Ma, che cos’ha coi conigli, don Paolo? Il signor Fausto ne voleva tenere l’anno passato per certi esperimenti, ma non fu possibile...
— Canaglie di medici!... Tormentano anche le bestie!
— E per la scienza, zio...
Il vecchio alzò le spalle.
— Bella scienza, che dopo tante fatiche, tanti tormenti e tante pretese, ci lascia invecchiare e morire come prima! Quanto ai conigli essi mi rammentano una delle più tristi e forti impressioni della mia infanzia.
— Racconti, don Paolo!... Racconti!
— Sono vecchie storie che non possono interessarvi.
— Cattivo don Paolo! Ci mette in curiosità e poi non vuol raccontare! — esclamò l’Amelia accostandosi al vecchio con un gesto vezzoso, come una gattina che fa le fusa.
— Racconti, don Paolo!
— Racconti, zio!...
Argìa e Fausto si scambiarono un’occhiata. Se ora don Paolo si metteva a raccontare, addio passeggiata.
— Ah! ragazzi, voi non sapete... Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria!
— Era felice allora, don Paolo?
— Ero un fanciullo, e adesso sono un vecchio. Voi non potete intendere questa verità che io vi dico. La sola, grande ventura della vita è la gioventù con la salute; la sola, irreparabile infelicità è la vecchiaia co’ suoi malanni.
— Eppure vi sono tanti giovani infelicissimi.
— Efflorescenze, caldane!... Io darei vent’anni di vecchiaia felice per un solo mese delle vostre grandi infelicità!
— Ah! don Paolo — esclamò la governante — Si vede bene che lei è stato un uomo fortunato. Io ho quarant’anni; ma preferirei averne tutto di un colpo sessanta, piuttosto che tornare indietro ai miei venti.
Il prete la guardò stupito; poi, volgendo ai giovani una delle sue occhiate maliziose di vecchio impenitente, mormorò a mezza voce:
— Povera figliuola, capisco!
Ma i giovani non sorrisero. La sola Amelia strinse il bocchino, poi tornò a insistere sui conigli. Non che lei fosse curiosa di quelle vecchie storie; ma le piaceva di far dispetto ai due fidanzati che indovinava impazienti. Don Paolo cominciò:
— Avrò avuto circa otto anni; mio fratello cinque o sei. Avevamo un precettore, certo don Bortolo; un buon diavolo di pretonzolo ignorante; assai bell’uomo se ben ricordo; robustissimo: nato certo per tutt’altra professióne. Più che maestro; don Bortolo era un compagno dei nostri giuochi; meglio che in biblioteca si passava il tempo in corte o in giardino; fra noi tre; e due conigli che un amico del babbo ci aveva regalati; ci si divertiva un mondo. Più d’una volta don Bortolo era sgridato per colpa nostra. In compenso noi lo si amava quasi quanto Nino e Bianchetto; i due bei conigli. Bianchetto era candido e portava al collo un nastrino celeste che mi aveva regalato la mamma: Nino aveva le orecchiette nero e portava un nastro rosso. Il nostro primo pensiero la mattina appena alzati; era di correre in corte a trovare i conigli che ci venivano incontro come due cagnolini.
“Una mattina — credete; mi pare adesso — la mamma disse che non si doveva andare in corte, che faceva freddo. Allora io domandai che Nino e Bianchetto fossero portati in cucina. La mamma si allontanò senza rispondere; e la cuoca si mise a ridere sgangheratamente. — Andiamo a dirlo a don Bortolo — mormorò Carlo che è sempre stato più furbo di me. Tutti e due ci avviammo alla camera del precettore che era quella dove dorme Vittorio. Eravamo certi che Bortolo avrebbe trovato il modo di accontentarci. Ma si era appena salite le due prime scale; allorchè i nostri occhi stupiti; enormemente spalancati; rimasero in contemplazione di una cosa orrenda, incredibile; che ci appariva sulla terrazza al di là del finestrone. Erano. — o almeno parevano — i corpi di Nino e Bianchetto appesi per le zampine alla corda del bucato. Le testine piatte penzolavano nel vuoto; con le orecchiette floscie.
“Carlino cacciò un urlo, io sentii come un rivoltolone nelle mie viscere; mi parve di cadere, vacillai; poi ad un tratto, preso da un impeto che centuplicava le mie forze, traversai l’andito in due salti e mi trovai sulla terrazza. Carlino che si era attaccato ai miei abiti, inciampò, cadde e si rialzò senza lamentarsi, ammutolito nel terrore.
“Non vi so dire, sebbene io lo senta ancora, quello che provai quando vidi le due pelli dalla parte interna, con le tracce del sangue rappreso, la testina vuota, le zampette sparate; mi si oscurò la vista, sentii un gran freddo nella schiena, e rimasi intontito. Ma nel mio cervello era un subbuglio di idee confuse. Nino e Bianchetto ridotti in quello stato... Perchè? Come?...
“Li avevano ammazzati.... come la cuoca faceva coi polli... Per questo rideva la cuoca!... Erano morti... Non li avrei riveduti mai più... Mai più avrebbero giuocato con noi... mai più... mai più!... E il terribile enigma della morte in cui il mio pensiero infantile non si poteva fissare, paralizzava il mio spirito inconscio con le sue truci immagini. Le impressioni sono in noi e la loro intensità è raramente subordinata all’importanza della causa. Per me fanciullo, quella fu una impressione di prima forza, ed ebbe influenza su tutta la mia vita. La sento ancora. Quando ho visto morire mio padre, quella prima immagine tragica si riaffacciò alla mia memoria; capii che fino da quel momento avevo avuto la percezione dell’immane tragedia, che sempre ci sta sopra e a cui nessuno sfugge.
— Nervi delicati, sensibilità squisita e precoce: malattia di famiglia — osservò Fausto con un sorriso.
— E chi aveva ammazzato Nino e Bianchetto? Quell’ipocrita di don Bortolo, scommetto!
— Proprio lui. Irritato perchè gli mangiavano certi legumi ch’egli aveva piantato in un angolo del giardino! Quando noi lo si seppe, fu uno scoppio di collera e di indignazione. Lui, don Bortolo?! Uno che diceva di volerci bene, che giuocava con noi, che faceva le carezze alle due bestiole come le faceva a noi!.. Le nostre anime candide non potevano concepire tanta crudeltà. E con la fiera logica infantile, ci si diceva che don Bortolo avrebbe potuto ammazzarci noi pure. Appena lo vedevo, fuggivo trascinandomi dietro Carlino, pazzo di terrore e di odio. Naturalmente egli dovette andarsene dalla nostra casa. Mi ricordo che piangeva, e mi fece un certo senso. Ma quando si accostò per baciarmi, voltai la faccia. L’orrore che egli m’ispirava soverchiava ogni altro sentimento.
Il narratore si arrestò improvvisamente: era stanchissimo e la sua voce aveva un suono così fioco e debole che appena si sentiva.
Dopo alcuni istanti riprese:
— Ho parlato troppo, ragazzi, non voglio farmi sgridare dalla “Facoltà„ che mi troverà spossato!... Perciò andatevene; approfittate della mia discrezione. Io tornerò a letto.
— Noi accompagneremo le signorine in casa Donati, poi verremo a pranzo; vero Lnisa che abbiamo il tempo?
— Ricordatevi del povero vecchio; è un’opera di carità visitare gli infermi.
Le ragazze protestarono gentilmente: era un piacere per loro...
Poi gli strinsero la mano e chinarono le giovani teste, che egli benedisse col suo gesto famigliare e paterno.