Il romanzo della fortuna/V
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V.
Un gran dolore.
Il diciassette gennaio doveva segnare una data crudele per Chiarina. La signora Firmiani che stava seduta nella sua poltrona. coperta da due o tre scialli e con una cassetta d’acqua calda sotto ai piedi, vedendola correre innanzi e indietro dalla sala alla cucina, le disse:
— Chiudi l’uscio una buona volta e vienimi presso che ti devo parlare.
A tali parole la prima cosa che fece Chiarina, fu di arrossire sentendosi balzare il cuore in petto. Da parecchi mesi si trovava in questo stato di orgasmo per cui la piccola novità la scuoteva, dandole quasi l'impressione di essere colta in fallo.
— Vieni qui, siediti. Sai che la casa è venduta?
Parve a Chiarina di aver ricevuto una mazzata sulla testa; la vista le si oscurò e per qualche istante credette che tutto girasse intorno a lei. La buona signora le prese una mano carezzandola:
— Coraggio, mia cara. Credi che se fosse stato possibile ti avremmo risparmiato questo dolore; ma i debiti erano troppi.
— Lo so, lo so.
Mormorando queste parole Chiarina diede fuori in uno scoppio di pianto. Fu come se avesse levato la diga a chi sa quante amarezze accumulate da lungo tempo. Pianse dirottamente senza freno, sotto gli sguardi pieni di compassione della signora Firmiani che seguitava a dirle:
— Fa cuore... dàtti pace... la tua casa oramai è qui; sai che non ti abbandoneremo.
— La mia mamma, la mia mamma! — gemeva Chiarina in mezzo alle lagrime.
— Sì, poveretta, pensa alla tua mamma. Offri questo sacrificio alla sua memoria, per il bene de’ tuoi fratelli. Oramai potete andare in tutto il mondo colla testa alta che non c’è più nessuno che avanza nulla. Anzi vi è rimasto qualche cosa, poco, a dir vero...
Aspettò che Chiarina domandasse spiegazioni; ma la povera fanciulla perduta nel suo dolore non pensava ad altro. Fu la signora che credette opportuno di non lasciarla macerare nelle lagrime e per questo continuò il filo del discorso:
— Avrete ancora tre o quattrocento lire da dividere. Sai chi compera?
Chiarina accennò negativamente col capo.
— Il Municipio. Approfittando del lascito di un benefattore, ha pensato di aprire una scuola: così i bambini non avranno più bisogno di recarsi lontano per imparare. La casetta è piccola, ma il locale terreno dove c’erano i telai...
A questa parola Chiarina, che s’era acquetata un poco, ricominciò a piangere.
— Su, su, Chiarina. Bisogna essere ragionevoli, che diamine! I telai non erano più buoni a nulla, lo sai anche tu. Là invece si metteranno i banchi per la scuola e le due camere superiori serviranno per abitazione della maestra. Siccome il pagamento sarà fatto subito, in denari contanti vi sarà rimessa la vostra parte a tutti e tre. Poco, è vero, ma meglio che nulla come si temeva!...
Accorgendosi che la fanciulla non si interessava affatto a codesti particolari, la signora Firmiani cessò di parlare e rispettando il dolore dell’orfana lasciò che sfogasse in silenzio altre piccole lagrime, e sussulti e sospiri profondi, annientata quasi sulla piccola sedia di paglia, nella attitudine estrema di un naufrago che si prepara a morire.
Quello fu l’effetto del primo colpo. A poco a poco, col gesto di un caduto che raccoglie intorno a sè i propri oggetti sparsi e si ravvia gli abiti e le chiome prima di rimettersi in piedi, Chiarina potè guardarsi in giro ad occhi asciutti.
Da lungo tempo doveva essere preparata — e lo era infatti — ma lo stato di eccitazione morbosa in cui si trovavano i suoi nervi l’aveva lasciata debole all’attacco. Quando fu ella stessa in grado di riconoscerlo se ne vergognò e ne chiese scusa alla sua benefattrice.
Ora dunque si trattava di incominciare seriamente la vita. Doveva fidare in sè, nelle proprie forze, nella propria operosità e piangere era inutile. Per fortuna trovò in Giovannino un valido aiuto. Il ragazzo, poco sentimentale, vedeva sempre nelle cose il lato pratico. Diede anch’egli, siccome era buono di cuore, un tributo di rimpianto alla casetta dove erano morti i suoi genitori, dove egli stesso era nato, ma senza accorarsi eccessivamente. Il suo piccolo cervello teso all’avvenire non poteva arrestarsi all’ostacolo; l’ostacolo non era altro per lui che un passo più lungo da fare.
— «Giovannino è veramente un uomo» — scrisse la signora Firmiani a suo figlio, partecipandogli la decisione presa dal Municipio di acquistare la casetta del tessitore, e soggiungeva: «Puoi dire a Giuseppe che teniamo la sua parte a sua disposizione. Con questa potrà mettersi a posto un po’ meglio. Chi stenterà più di tutti a consolarsi è Chiarina».
Chiarina infatti non si consolava che per la forma, non volendo lasciarsi trascinare dalla disperazione come un legno morto alla deriva di un fiume; ma pure, guidando e incanalando quasi il dolore in un abito di decorosa mestizia, viveva con questo suo dolore nella comunanza immateriale che ci stringe alla memoria di un diletto estinto. Di giorno no, perchè non amava farsi vedere dalla gente; ma alla sera prima di coricarsi prese l’abitudine di andare a fare un giro intorno a quella che non poteva disabituarsi di chiamare la sua casa.
Freddo, neve, raffiche impetuose non la trattenevano. La cuoca, che la udiva aprire pian pianino il cancello, pensava: «Va a trovare i suoi poveri morti». Era infatti tutto il suo passato morto che Chiarina amava nella piccola casa dietro i pioppi. Ella lo ritrovava immutato ad ogni passo, sotto ogni fronda, in ogni cantuccio che ella aveva percorso, dove aveva giuocato, riso, sognato negli anni belli della sua infanzia. Gli stranieri che stavano per venire a prenderne il possesso, capirebbero mai quel che dicono i pioppi stormendo infaticabilmente di contro al cielo?
Convenne affrettarsi a ritirare i mobili: Giovanni (non lo chiamavano più Giovannino, tanto il suo senno lo faceva credere di età maggiore a quel che era realmente), terminate le classi elementari, aiutava il carrettiere del paese e lo sostituiva nei piccoli viaggi quando egli era assente. Diceva di occupare così il tempo in attesa di un impiego migliore, e andando innanzi e indietro, vedendo persone, studiando casi, si impratichiva dei negozi che continuavano ad essere la sua vera vocazione. Giovanni dunque col carretto e col cavalluccio del suo principale fece presto a sgombrare la casa, aiutato da Chiarina, la quale sollevava le masserizie portandole sulle proprie braccia colla delicatezza timorosa di una madre che tiene l’infante.
Sul luogo dove trasportare i pochi mobili si erano subito trovati d’accordo, perchè essendo morto quell’anno Matteo lo Strambo, Giovanni propose di prendere in affitto il suo bugigattolo che ebbe per poche decine di lire e con altre dieci ottenne una cameretta attigua. Egli aveva un’idea che comunicò schiettamente alla sorella. Il bugigattolo nero e fumoso del vecchio Matteo doveva trasformarsi in una bella botteguccia. Egli vi avrebbe accumulato man mano qualche po’ di mercanzia, secondo l’onda della fortuna, e vi avrebbe atteso nei giorni che non viaggiava piantando il suo letto nella cameretta attigua per non essere più a carico d’altri. L’idea parve buona e pratica. I signori Firmiani l’incoraggiarono e Chiarina offerse la sua parte dell’eredità.
— No — aveva risposto Giovanni — tieni i tuoi denari in serbo.
Scrisse invece a Giuseppe se voleva mettersi in società col suo capitaletto, dividendo i rischi e gli utili da buoni fratelli: ma Giuseppe fece dire che non aveva nessuna voglia di tornare al paese e che i suoi denari se li voleva spendere a sua guisa.
— Amen!- concluse Giovanni con uno di quei rapidi adattamenti che gli suggeriva il suo spirito speculativo.
La gente del paese vedeva intanto il bugigattolo del vecchio Matteo vuotato di tutto il sudiciume che conteneva e aperto giorno e notte all’aria libera. Verso la metà del febbraio poi, quando le giornate gradatamente si allungano e il tempo volge stabilmente al bello, ebbero anche lo spettacolo nuovo di Giovanni ritto sopra una scala a mano e provvisto di un pennellaccio a lungo manico, col quale andava tracciando larghe striscia di calce sui muri finchè, passandovi e ripassandovi sopra parecchie volte, otteneva una imbiancatura quasi perfetta. Liberata da tutti gli ingombri e schiarita a quel modo, la lurida tana si trasformò in una assai decente stanzina, dove apparve, al principio di marzo, un banco greggio, sì, ma nuovo fiammante, e dietro al banco una scansia e a fianco della scansia una bilancia e un metro.
— Chi sa cosa vorrà vendere! — diceva il solito qualcuno all’orecchio degli sfaccendati: ma gli sfaccendati questa volta non si incaricavano di indovinare. Tanto s’avrebbe visto.
Nel frattempo Chiarina correva dalla casa vecchia alla bottega nuova, sempre affrettata per non abbandonare a lungo la sua protettrice, acquietando nel lavoro forzato e nel movimento l’interna tristezza. Un po’ pigiati, è vero, ma ella era riuscita a far stare quasi tutti i mobili nel nuovo alloggio; molto più che Giuseppe era capitato all’improvviso, come l’altra volta, per ritirarne un terzo.
Tentò Chiarina in questa occasione di domandargli che ne avesse fatto delle granatine della mamma, ma quegli alzò le spalle con mal garbo, e Chiariva, sospirando, non ne parlò più. Non doveva ella corazzarsi contro queste eccessive tenerezze di ricordi? E contro la mala sorte? E contro l’ingiustizia? E contro la prepotenza?
Una dura prova fu quando il sindaco in persona, guidando le manovre di due contadini, fece disporre l’aula della scuola coi banchi, coi calamai, colle carte geografiche appese ai muri. Dalla finestra del salotto in casa Firmiani ella vide passare tutto ciò; spingendosi un po’ fuori col busto, vide i contadini a urtare fortemente col carico uno dei pioppi e trasalì come se ella stessa avesse ricevuto l’urto. Dopo gli attrezzi scolastici entrarono i mobili della maestra, e la maestra stessa, e finalmente venne anche il gran giorno della inaugurazione della scuola. Chiarina, dal salotto di casa Firmiani, udì le voci dei bimbi a cantare un coro di circostanza. Tutto era dunque finito!
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— Sorveglia un po’ la nostra bottega — le diceva Giovanni nei giorni in cui andava a supplire il carrettiere; e quei giorni Chiarina aveva un gran da fare per moltiplicarsi a tutte le bisogne. In piedi sopra una sedia ella aveva disposto nel piano superiore della scansia una pezza di rigatino e sei fazzoletti che Giovanni aveva avuto occasione di acquistare a buon prezzo in una delle sue corse. Poi, sotto, tutti i balocchi industriosi fabbricati da Giovanni nelle lunghe sere d’inverno, alcuni quinterni di carta, penne e matite, commercio questo che doveva prosperare colla nuova apertura della scuola. Quando aveva terminato l’assetto chiudeva la sua bottega e si metteva la chiave in tasca, come già un tempo quella della casetta. Chi aveva bisogno di fare compere andava a cercarla in casa Firmiani.
La primavera, l’estate, tutto l’autunno passarono così tranquillamente. Le solite feste di Pasqua e di S. Anna furono solennizzate rinnovando le tradizioni degli altri anni. Messa grande al mattino, gran pranzo nel pomeriggio con torta lavorata in famiglia, sole, luce, fiori, gaiezza.
Mariuccia s’era fatta una bella fanciulla placida e calma come suo padre. Enzo studiava legge. Si era dapprima iscritto nel corso di medicina, ma le prove dell’ospedale e della clinica erano state troppo forti per la sua sensibilità; dopo di avere lottato per vincersi, sul punto di ammalare, dovette cedere. Fu un anno perduto. Quando entrò negli studi legali non trovò più nessuno dei suoi compagni.
Queste notizie Chiarina le udiva a spizzico, ma sempre con un grande interesse. Avrebbe voluto fare qualche cosa per lui. Che cosa, mio Dio, se egli le parlava appena e il più delle volte non mostrava neppure di accorgersi della sua presenza! Quando lo vedeva, appoggiato al davanzale della finestra, guardare lontano lontano come se inseguisse dei sogni all’orizzonte, le veniva un desiderio acuto di conoscere quei sogni, di entrare a far parte della sua vita interna e si struggeva della propria nullità senza amarezza e senza rancore, con un raddoppiamento di devozione.
Coi primi freddi la Villa ritornò deserta. Il signor Firmiani coi figli a Milano e le loro camere ermeticamente chiuse; la vecchia nonna immobilizzata oramai nella poltrona con una montagna di scialli e la cassetta d’acqua calda sotto i piedi; Chriarina sola a guardare la neve sollevando dalle finestre le tende di percallo bianco e appoggiando sui vetri la fronte che spesso le ardeva. Perchè le ardeva così spesso la fronte mentre le mani erano di gelo?... Ritirandosi dalla finestra Chiarina si fermava quasi sempre davanti al busto velato della defunta signora Firmiani. Come gli assomigliava! Gli stessi capelli largamente ondulati, la stessa fronte, gli stessi occhi pensosi, la stessa bocca breve e malinconica che mal sapeva il riso. In questa contemplazione Chiarina si sentiva languire di dolcezza e di spasimo.
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Ma che orribili feste di Natale! Tutta la famiglia riunita intorno alla nonna ammalata vedeva la cara vecchierella scemare di giorno in giorno. La paralisi stava per raggiungere il cuore. Chiarina allora non si coricò più, accovacciata come un cane fedele presso il letto dell’inferma, prevedendo ogni suo desiderio: ed ella, la signora Firmiani, cercava sempre la mano di Chiarina come quella di una figlia prediletta. Fu tra le sue braccia che spirò serenamente nei primi giorni dell’anno, quasi senza dolore.