Due soldi e un centesimo

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Dedica II

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I.

Due soldi e un centesimo.

Il sole aveva battuto in pieno tutta la giornata; un sole ardente di luglio. C’era sagra al villaggio per la festa di S. Anna e sulla via bruciata di luce e di calore i biroccini, le carrette, le carrozzelle leggere dei campagnuoli incominciavano a prendere la via del ritorno fra una nuvola di polvere che si sollevava in alte colonne coprendo le faccie avvinazzati degli uomini e i visi stanchi delle donne. E in mezzo alla polvere si udivano gridi di gioia, canti, suoni di trombette, schioccare di fruste, strilli di bimbi, abbaiar di cani; tutto il romoroso epilogo di una giornata trascorsa all’aria aperta, merendando sul sagrato della chiesa la cui porta spalancata lasciava [p. 8 modifica] scorgere in fondo alla navata oscura l’altare di S. Anna parato di rosso, con uno sfolgorio di ceri tra vasi di garofani e di dalie; altare che tutte, le donne avevano visitato raccomandandosi particolarmente, intanto che gli uomini davano frequenti capate all’osteria del Vitello bianco e i fanciulli schiamazzavano intorno ai banchi di zucchero filato, dove c’erano pure delle piccole bottiglie di cioccolata col cappuccio d’argento e delle ochine piene di rosolio che facevano venire l’acquolina in bocca.

Sul nastro della via provinciale che appena fuori del paese si slanciava attraverso i campi, una casetta sorgeva in così amena posizione che ognuno passando la seguiva con un’occhiata di desiderio, accarezzando la macchia graziosa del tetto vermiglio tra due alti pioppi posti quali giganti alla difesa di una culla e col digradare morbido di un praticello che la isolava lasciandone integra la visuale di una semplicità dolce e serena.

Era una povera casetta a un sol piano con due finestre a terreno e due in alto le quali sole godevano il beneficio delle persiane, essendo protette le altre da grossi scuri di legno grezzo; ma sul fianco correva una [p. 9 modifica]loggetta aerea tutta piena di garofani morelloni che era una bellezza a vedersi, così staccata sul cielo, e con un ciuffo di glicine che saliva più alto ancora sino a lambire il tetto ricadendo in giù con una frangia di ramelline tenere tremolanti ad ogni soffio di vento. Le rondini dovevano amare quella casetta e stringervi intorno i loro giri di emigranti in cerca di nido; le farfalle dovevano correre a sciami su quei garofani dal profumo intenso con una gara di colori, forse non vinta, dinanzi alla cupa tinta passionale dei fiori di sangue.

In quell’ora del tramonto un velo d’oro ravvolgeva la casetta infiammando il vermiglio nuovo degli embrici, simili a un casco sotto a cui i rami spioventi delle glicine si coloravano di un pallido biondo di chioma disciolta e i muri candidi sembravano palpitare nell’ora prossima del riposo. Eppure la Morte era passata da poco tempo portando via l’anima della casa con un duplice colpo crudele.... Pensava a ciò la fanciulletta seduta sulla soglia, tra i due alti pioppi, fisso lo sguardo nella lontana vastità della pianura?

Erano morti insieme, Gianni il tessitore e sua moglie, la buona Maria, dopo di avere [p. 10 modifica] vissuto insieme la breve esistenza di pace e d’amore nella piccola casa; così piccola che già ragionavano intorno alla possibilità di aggiungervi un paio di camere quando i figliuoli fossero grandicelli e quando il lavoro di tessitura a cui accudivano in comune e che era un po’ scemato negli ultimi anni, si rialzasse. La morte invece li aveva falciati l’un dopo l’altro, in pochi giorni, con una di quelle malattie fulminee e crudeli che fanno pensare a ignote potenze odiatrici degli uomini.

Seduta sulla soglia, l’orfanella riportava tratto tratto lo sguardo dal lontano orizzonte ai suoi due fratelli che si rincorrevano dal prato alla strada, attaccandosi alle carrozzelle per farsi trascinare qualche passo, sollevando a lor volta, nel ricadere, nuvole di polvere entro cui scomparivano quasi per intero. Non toccava i sedici anni la fanciulla, e ne dimostrava anche meno colla tenue persona sopra cui il volto pendeva inchinandosi con un abbandono di fiore intristito, meschina nel suo abituccio di lutto.

Ella sola, dei tre, comprendeva l’estensione della loro sciagura e guardava ai fratelli, sopratutto al piccolo Giovanni che portava il [p. 11 modifica] nome del padre, con una sostenuta tenerezza materna entro la quale anche il dolore si acquietava come dinanzi ad un obbligo più grave.

Che farebbero?... Questo era il gran punto delle sue meditazioni. Giovanni era così giovane e così fragile ancora! Giuseppe così prepotente! A se stessa pensava meno. Aveva l’inconsapevole tranquillità dei forti e di chi, nella vita è pronto a tutto. Ma i suoi fratelli che farebbero?

L’ora si faceva di minuto in minuto ineffabilmente triste. Dietro la casa il sole, già tramontato, dardeggiava ancora un riflesso che pareva di felicità lontana, di fuggente ardore vitale; mentre sulla vasta distesa della pianura, dai molli campi erbosi, dai ruscelli attardati sotto i salici sorgevano i veli serotini della nebbia a confondere linee e colori, imprimendo a tutto il paesaggio un significato grandioso e melanconico cui si associava per intimi rapporti l’anima della fanciulla.

Nessun parente nel villaggio, nessuno! E che per ciò? Hanno parenti i rondinini che la madre morendo lascia soli nel nido? «Noi vegliamo su di te» sembravano mormorare i [p. 12 modifica] pioppi nel continuo stormire delle loro foglie. E veramente i due giganti che l’avevano vista a nascere, alla cui ombra era stata cullata, non formavano un tutto colla casa e colla famiglia?

Il nonno li aveva piantati augurando che i più tardi nipotini v’intrecciassero intorno i loro giuochi; e non era sotto di essi che la madre, la casta giovinetta, vi aveva atteso per tanti anni lo sposo venuto da altri paesi?

Era pur lì che si erano scambiati il primo giuramento d’amore, lì dove convenivano ogni sera teneri e gravi a ragionare della giornata trascorsa e del domani operoso, fino a quella che fu l’ultima della loro vita.

— O cari pioppi! — mormorò la fanciulla a fior di labbro guardandoli di sotto in su colle pupille umide di pianto. Né altro disse, — abbandonando il cuore alla corrente delle memorie, pur non senza una segreta forza latente che la sosteneva nello schianto e come una fiamma interna che le impediva di congelarsi nell’abbattimento.

«Si fa quel che si può, tutto quello che si può, e ciò deve bastare agli uomini di buona volontà.» Queste parole le aveva [p. 13 modifica]pronunciate una volta suo padre a quel medesimo posto, seduto su quella stessa panchina, ed ora ritornavano alla mente dell’orfanella quasi un aiuto ed un incoraggiamento.

Se non fossero così poveri! Il lavoro di tessitura non rendeva più nulla e nelle lotte degli ultimi anni i pochi risparmi se ne erano andati. Forse era stata questa la causa oscura che aveva minato la salute dei suoi genitori portandoli innanzi tempo alla tomba? Poveretti! Poveretti!

La fanciulla sollevò le mani dal grembo dove le teneva appoggiate e le guardò. Che cosa avrebbe potuto fare con quelle mani? Erano piccine, esili. Lavori d’ago? Ma in paese non avrebbe trovato da smerciarli. Oh! ella poteva bene acconciarsi a qualche occupazione inferiore. Pensò a una sua compagna, la Virginia, che andava a lavare i piatti nell’osteria del Vitello bianco. Era sempre allegra la Virginia ed aveva al collo un fazzoletto di seta sgargiante regalatole da un avventore. Pensava alla vecchia Margherita che portava ancora, così vecchia come era, grossi fastelli di legna raccattata nel bosco e che viveva con frusti di pane secchi come ghiande. E poi? [p. 14 modifica]

A destra della sua casetta, proprio all’imboccatura del villaggio, ma colle finestre tutte aperte sulla campagna, sorgeva un fabbricato di quella apparenza signorile eppur semplice che conveniva ai gusti della prima metà del secolo scorso, quando le famiglie agiate si accontentavano di villeggiare a poche miglia dalla città in case ampie, comode, fresche, aventi per tutto lusso una grande abbondanza di spazio. Su quel fabbricato l’orfanella in cerca di ispirazioni girò l’occhio un istante e parve vi si riposasse con grande compiacenza. Non formulò nessun desiderio, ma quale colomba stanca che raccoglie le ali sopra un asilo di pace, rimase colle pupille intente a guardare la lunga fila delle finestre di cui si gonfiavano vagamente nella penombra le cortine di percallo bianco.

Improvvisamente uno strillo di Giovanni la riscosse facendola accorrere sulla strada dove i due fanciulli si accapigliavano intorno ad una carrozzella in ritardo.

— Volete rientrare, via! E quasi l’ora di andare a letto.

I fanciulli non le risposero nemmeno, [p. 15 modifica]intenti come erano a prendere d’assalto l’asse posteriore della carrozzella; ma in quel momento uno degli uomini che stava dentro si sporse sulla strada e gettò ai fanciulli due soldi. La bimba vide allora che insieme ai due soldi era caduto dalla mano dello straniero un centesimino, un piccolo centesimino nuovo fiammante che diede una scintilla di bagliore. Ella si chinò a raccoglierlo intanto che i suoi fratelli guardavano ognuno il loro soldo nell’incerto chiarore e che nell’onda polverosa della strada, la carrozzella scompariva rapidamente.

— Il tuo soldo è falso — disse Giuseppe.

— No, non è falso — piagnuccolò Giovanni.

— Compera qualche cosa con quel soldo se puoi!

— No, non è falso. Dimmi tu, Chiarina, se è falso.

La buona sorella prese la moneta e dovette convincersi che non assomigliava per nulla ai soldi ch’ella aveva visti fino allora.

— Te l’ho detto io? È falso — ripetè Giuseppe, facendo una piroetta su sè stesso. — Buttalo via.

— A far questo si è sempre in tempo — aggiunse Chiarina. [p. 16 modifica]

— Oh! tu che pretendi? Forse ti credi ricca col tuo centesimo? Guardalo il tuo centesimo come vola!

Con un rapido colpo sotto la mano della sorella il cattivo ragazzo fece saltare in aria la minuscola monetina e poi, felice di tanta prodezza, si diede a correre in direzione del villaggio per spendervi subito il suo soldo, l’unico che valesse qualche cosa.

Il piccolo Giovanni, mortificato, stringeva nel pugno il soldo fuori corso. Fu ancora Chiarina che lo consolò dicendogli che Matteo lo strambo lo avrebbe forse preso per farne una spilla cambiandolo con uno buono.

— Mi lasci andare subito a portarglielo?

Chiarina consultò il cielo che non era ancora fosco, guardò i lumi accesi del villaggio, e pensando che Matteo lo strambo abitava nelle prime case proprio dirimpetto alla villa dei signori Firmiani, non volle negargli questa soddisfazione. Ella intanto si pose a cercare fra la polvere il centesimino lucente.

Colui che nel villaggio chiamavano Matteo lo strambo, era uno sciancatello dall’età incerta, gobbo, con un viso giallo affilato e due occhi straordinariamente lucenti. [p. 17 modifica]

Incapace di dedicarsi ad un mestiere, ne accumulava parecchi di genere svariato. Sapeva rattoppare vecchi abiti, congiungere i cocci delle stoviglie rotte, fare la pasta per uccidere i topi, tosare i cani, saldare boccole e spilli alle contadine, intagliare bastoni e cento altre cose apparentemente contraddittorie, come a dire vendere chiodi e viti per aggiustare i carri e carta da lettera con una viola del pensiero per le corrispondenze sentimentali.

La botteguccia di Matteo era tutto l’uomo. In quattro metri di spazio lavorava, vendeva, mangiava, dormiva, riceveva le pratiche e gli amici; per questo con un solo colpo d’occhio era facile abbracciare il letto, il banco, un cassone, qualche pentola, una gabbia contenente un merlo, un mucchio di patate e di vecchie ciabatte, vecchi cenci, vecchi utensili indefinibili; compenetrata ogni cosa di un odore di muffa, di acquavite e di pece.

Fu in questo ambiente che Giovannino entrò, guidato da una lucernina a petrolio che Matteo stava accendendo e che aggiunse subito il suo puzzo penetrante a tutti quegli altri odori diffusi.

— È permesso? [p. 18 modifica]

— Avanti, avanti. Chi mi vuole a quest’ora? È un dente da strappare? Coraggio, che è l’affare di un minuto; il tempo di dire: amen!

Vedendo il fanciullo, cambiò voce e gesto. Si fece mellifluo, protettore.

— Cosa vuoi, giovinotto? Due centesimi di caramelle? O della liquirizia? Non pretenderai già uno sigaro di cioccolata, perchè quello costa troppo e tu non hai, scommetto, più di due centesimi.

Giovannino tese il suo soldo.

— Mi hanno detto che voi cambiate i soldi falsi con soldi buoni, per farne delle spille.

— Ah! sì? piccolo briccone, incominci presto a speculare.

Curvo sulla lucerna, dalla quale usciva un così pallido raggio che appena il piede di essa ne restava illuminato, lo sciancatello esaminò la moneta, prima da un lato, poi dall’altro, e sollevando in volto al fanciullo i suoi occhi maliziosi, disse:

— Questo non è un soldo dell’Argentina.

Il fanciullo rimase interdetto, non sapendo che significasse l’affermazione. [p. 19 modifica]

— Chi ti ha detto di portarmelo?

— Mia sorella, perchè ne fate delle spille...

— Ma non è dell’Argentina, ti dico. Cosa vuoi che ne faccia di questo qua? Io prendo solamente i soldi dell’Argentina, perchè con quella bella figura che c’è impressa si inargenta la faccia, si indora l’elmo e ne vien fuori una spilla di magnifico effetto. Di questo non so che farmene.

Buttò il soldo sul banco; ma il rumore che esso diede cadendo non era il rumore che fece voltare la testa a Giovannino, tra sorpreso e spaurito, verso l’angolo del letto, dove per la scarsa luce egli non aveva avvertito prima una specie di figura umana immobile nell’ombra, la figura di un vecchio con una lunga barba e un cappellaccio a larghe tese. Tra quella barba e quel cappello usciva appunto la voce da ventriloquo che aveva sbigottito il fanciullo, pronunciando due sole parole:

— Dà qui.

Il soldo, spinto timidamente, passò nella mano villosa del vecchio.

— Non so che moneta sia — mormorò Matteo in tono deferente. [p. 20 modifica]

Lo sconosciuto non rispose, ma la guardò a sua volta con attenzione. Recava da un lato fra una corona d’alloro le parole: One quarter Anna con intorno altre parole illeggibili. Dal lato opposto uno scudo partito da una croce, con un piccolo scudo a destra, poi due leoni ai fianchi e un leone in alto fra due banderuole.

— La prendo io — dichiarò il vecchio; e cacciata la mano in una tasca di pelle che teneva sospesa al collo, ne trasse una moneta corrente da due soldi, che diede al fanciullo soggiungendo:

— Sei contento?

Giovannino apriva gli occhi, ma non trovava la parola. Fu Matteo lo strambo che battendogli sulla spalla ghignò:

— Te l’ho detto io che cominci presto a speculare? Avevi un soldo che non potevi spendere e trovi il Mago che te lo baratta subito raddoppiandoti il capitale. Ringrazia il Mago.

Quel nome di Mago dato allo sconosciuto fece battere il cuore a Giovannino, che tentò invano di scoprirne il volto nascosto tra la barba e il cappello. Ringraziò tuttavia con [p. 21 modifica]voce tremante e se la diede a gambe, meno colpito dall’improvvisa ricchezza che dal fatto di avere veduto un Mago in carne ed ossa.

Davanti alla sua casetta trovò Giuseppe già tornato dal villaggio dove aveva speso il soldo buono e Chiarina curva al suolo che cercava ancora pazientemente nella polvere il suo centesimo sotto il raggio della luna nascente.

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