Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ultimo anno ad Altarana/II

In casa Samis

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L'ultimo anno ad Altarana - I L'ultimo anno ad Altarana - III
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IN CASA SAMIS.


Dopo la distribuzione dei premi ricominciarono in casa dell’avvocato i ritrovi soliti, e il maestro riprese a frequentarli come l’anno prima, attirato anche di più quest’anno, dopo i tristi giorni che aveva passati, dalla compagnia della signora, la cui gentilezza finissima lo seduceva ogni giorno come una virtù nuova, e lo compensava di tutte le umiliazioni patite con mille indefinibili carezze amichevoli e materne del sorriso, della parola e dei modi, senza ch’egli potesse d’una sola ringraziarla, e quasi neppur ricordarsi distintamente. Egli pensava che se fosse rimasta nel paese tutto l’anno, a lui non sarebbe accaduto nulla di spiacevole, e che forse nel suo cuore, tutto pieno della dolcissima amicizia ch’essa gl’ispirava, non si sarebbe forse neppure destato quell’amor violento per la sua vicina, che aveva preso dalla sua solitudine tanta forza. Dai suoi più intimi pensieri fino alla maniera di salutare e di porger la mano, egli riconosceva che tutto s’ingentiliva in sè sotto l’influsso mite e quasi nascosto di lei, e che ogni ora della sua compagnia gli cancellava dall’animo le male tracce lasciatevi da un mese di vita grossolana e di conversazioni volgari. Tutte le sue speranze antiche, e l’ambizione nobile di salire, a cui aveva già dato un addio, gli si risollevavano dentro non per altro che per la maniera particolare, o spontanea o meditata che fosse, con cui ella soleva accennare alla sua condizione di maestro, quasi che per lui fosse transitoria, e da considerarsi non come uno stato, ma come un avviamento ad una sorte migliore, della quale lo credesse degno, e non dubitasse menomamente ch’ei l’avrebbe [p. 15 modifica]raggiunta. E così, fantasticando, pensava che se ogni maestro giovane, dotato d’ingegno e di cuore, avesse trovato nel suo villaggio una signora come quella, migliaia della sua classe non sarebbero caduti nell’infingardaggine, nei tarocchi e nel vino. Essa gli domandava, scherzando, quando le compariva dinanzi la sera: — Ebbene, signor Ratti, che cos’ha letto oggi, sentiamo? — e bastava l’aspettazione di quella domanda a fargli cercar libri durante il giorno e leggere e cercare il miglior modo di ridir la lettura, come uno scolaro messo al punto. Una volta, avendo detto per celia a un amico dell’avvocato: — Ci dovrebbe essere una signora così alla Scuola normale, — questi rise e approvò l’idea; e il maestro fu felice quando s’accorse ch’essa aveva risaputo le sue parole.

Anche lo divertiva ogni giorno di più l’avvocato coi suoi sfoghi di pessimismo brillante, come lo chiamavano i suoi amici, e con la vena inesauribile con cui seguitava a dar addosso ai nemici suoi e del maestro ogni volta che il discorso cadeva sulla scuola. La questione scolastica era diventata il suo pasto d’ogni sera. Egli aveva goduto immensamente dello smacco toccato alla Giunta, e non rifiniva di farsi raccontare la gran scena del delegato. Si stupiva, peraltro, che il sindaco non avesse protratta ancora la resistenza, perchè, diceva, o per un sentimento più forte che avessero dei loro diritti, o per l’indole più testarda della gente, i comuni subalpini erano di tutta Italia i più facili a ribellarsi alle autorità, e i più difficili a ridursi alla ragione, anche quando avevan coscienza di violare la legge. Egli stesso, in certa occasione, aveva inteso il suo sindaco urlare in pieno Consiglio che la legge l’avrebbe pestata coi propri piedi, come pestava in quel momento un vecchio giornale. E non era quello un caso raro. Di modo che quando ai maestri e alle maestre mancava il coraggio o l’opportunità di far valere i propri diritti manomessi, la legge non contava assolutamente per nulla. Non s’era visto in un comune della valle ch’era passata per un voto la proposta di ridurre gli stipendi di tutti gl’insegnanti da settecentocinquanta a cinquecento lire, senz’averli neanche avvertiti prima, per far restaurare con quel risparmio la facciata della chiesa parrocchiale? Non era accaduto in un altro comune [p. 16 modifica]che i sussidi mandati dal Governo per i maestri elementari, invece d’esser rimessi a cui spettavano, fossero inscritti nel bilancio come entrata, senza che ai maestri ne fosse fatta parola? Quanto ai municipi che stanziavano sul bilancio una somma per lo stipendio, e poi, con una convenzione segreta, obbligavano i maestri a contentarsi d’un terzo di meno, non si contavano. Se ne infischiavano del minimum! Un sindaco di mala fede trovava sempre un maestro che, essendo più affamato di quello ch’egli fosse briccone, s’adattava ad accettar mezza lira per venti soldi.

S’accrebbe ancora l’affezione del maestro Ratti per l’avvocato e per la sua signora a cagione della simpatia che presero l’uno e l’altra per la maestra Galli, quantunque, adducendo a scusa l’infermità di suo padre, essa non avesse accettato l’invito di tornar a casa loro, dopo la festa dei premi. La signora aveva indovinato l’anima retta e altera; suo marito aveva notato la bocca bellissima. — E dire — esclamò una sera con gli amici — che il signor sindaco avrebbe voluto premere su quel bottone di rosa la sua boccaccia d’imbuto sudicio! Ma ci vuol la petulanza d’un vecchio cuoco per farsi lecite delle ghiottonerie compagne! — E infilato l’argomento, divertì tutti con una delle sue tirate. —

In Italia, vedete, la condizione delle maestre nubili nei piccoli comuni è insopportabile principalmente per la vanità sessuale degli uomini. Io non credo che questa vanità raggiunga in alcun altro paese il segno a cui arriva fra di noi. L’ultimo e il più brutto funzionario o benestante rurale, dai venticinque anni ai settanta, che si cambi la camicia due volte il mese e si lavi un po’ la faccia tutti i giorni, si crede in diritto d’esser amato dalla maestra del comune, come se essa fosse stipendiata dal municipio per sollazzo dei cuori liberi dei contribuenti. È singolare. Pare che facciano tutti questo ragionamento: — È giovane è sola, è una maestra, e non s’innamora di me! Ma è un’impudenza senza esempio! — E se n’offendono davvero. — Povere maestre! Egli non poteva pensare senza pietà a quell’esercito di ragazze che si rispandeva ogni anno dalle scuole normali nei villaggi. In quell’anno appunto resultava dai conti fatti che ce n’erano ventiquattro mila senza posto! Bene a ragione [p. 17 modifica]aveva detto un certo giornale, con frase gentile: — Il mercato rigurgita di maestre. — Se ne trovava dodici per un soldo. Strette dal bisogno, e anche per soccorrere le proprie famiglie, migliaia di ragazze, appena ottenuta la patente, accettavano qualunque posto, a qualunque patto, nelle scuole, negli asili, negli istituti privati, col titolo d’incaricate, d’assistenti, di supplenti, con mille forme di contratti illegali, con degli stipendi da persone di servizio. E si trovavano in molto peggiore condizione dei maestri, poichè la più parte uscivano da una classe sociale superiore a quella di questi, e sentivan di più le durezze della vita: figliuole d’impiegati, d’ufficiali; molte anche di famiglie agiatissime, cadute nella povertà. Un buon numero, c’era pur da dire, si gettavano in quella professione senza conoscerne le fatiche, e, non avendo la forza fisica per sostenerle, deperivano. Altre si sciupavan la salute mangiando male per vestirsi con decenza. Ce n’eran moltissime che soffrivano dei cambiamenti forti di clima dai comuni della pianura a quelli della montagna. — Buon Dio! E un deputato, difendendo la legge sulle pensioni, ha detto che, in media, le maestre possono far scuola dai venti ai sessant’anni! In ogni caso, c’è da eccettuarne quelle che intisichiscono prima dei trenta. In verità, se ne vedon tante ancor giovani, nelle città come nelle campagne, ridotte in un tale stato, da potersi dire che la quota che rilasciano per il Monte delle pensioni è addirittura del denaro buttato via. E menano una vita d’affanno, con questo, sempre col tremore addosso d’esser licenziate, dopo un certo numero d’assenze, per insufficienza di salute, in modo che vanno alla scuola con la tosse, con la febbre, strascinandosi, e fanno lezione ribevendo le lacrime o svengono fra i banchi. Per questo, in una certa città, hanno stabilito con paterna delicatezza che le maestre debbano subire ogni tanto tempo una visita del medico municipale, come se la loro patente.... Le operaie dei cuori! Così le hanno chiamate. Per dare un’idea del conto in cui si tiene questo mestiere, basta citare il caso della piccola città di R..., dove una scuola preparatoria agli esami di patente, prima abbastanza frequentata, è rimasta deserta affatto dopo che hanno messo su nel paese una fabbrica di stuoie che dà [p. 18 modifica]lavoro alle ragazze. Tutte han trovato che convien di più lavorar le stuoie che i cuori.


Ogni settimana l’avvocato invitava a pranzo gli amici: una domenica d’agosto fu invitato anche il maestro Ratti, e quel pranzo diede occasione a un’avventura che rimase memorabile nella sua vita. Gl’invitati erano una diecina. Fra questi si trovava un professore di Torino, un bell’uomo di cinquant’anni, con uno di quei visi composti e lisci, contornati d’una capigliatura e d’una barba che paion finte; i quali ricordano le reali e imperiali teste di cera che si fanno vedere nei baracconi. Egli dirigeva a Torino una officina a vapore di libri scolastici, dove lavoravano, col guadagno dell’un per cento sui profitti, tre o quattro professori e maestri giovani, pieni d’ingegno e d’appetito, ai lavori dei quali l’impresario non faceva che dar l’ultima mano, o piuttosto l’ultima pedata, ed apporre, come una marca di fabbrica, il proprio nome. Tornava da una gita nella valle vicina, dove aveva cercato presso tutti i maestri certi dati scolastici per un lavoro che teneva sul telaio, poichè egli apparteneva a quella folta schiera di professori che dedicano un quarto del loro tempo alla propria scuola e gli altri tre quarti alla riforma generale dell’istruzione pubblica. Ma, sotto a un gran disordine d’idee monche d’abborracciatore, v’era in quella testa di cera un certo buon senso d’uomo nato all’industria e fuorviato nelle lettere, e nel suo linguaggio un po’ leccato non mancava l’arguzia. Egli aveva il posto d’onore accanto alla signora Samis, e di fronte a questa stava una signora giovane, la sola invitata, moglie d’un fabbricante torinese di polsini e solini, la quale aveva ai due lati un ragazzetto e una bambina, vestiti in gran lusso, coi capelli giù per le spalle e le gambe nude.

La conversazione fu vivace fin da principio, grazie alla stizza eloquente del padron di casa, ch’era stata provocata, come al solito, da un’inezia. La mattina, per la strada, gli era passato accanto quel fante di picche del sindaco con un certo sorriso fatuo sulla faccia, il quale gli aveva fatto pensare che gli fosse toccata qualche soddisfazione d’amor proprio, di cui supponesse lui, Samis, consapevole e invidioso; e [p. 19 modifica]infatti, tonando a casa, egli aveva trovato nel Popolo, arrivato due ore prima, un articoletto datato da Altarana, che faceva molti elogi alla Giunta, e al sindaco in special modo, per la vendita vantaggiosa di certo terreno del comune, posto sulla cima d’un monte, dove un villeggiante mezzo matto voleva far costruire un belvedere e una torre per gli alpinisti. Il sospetto, la certezza anzi, che quel guattero rifatto contrapponesse trionfalmente, in cuor suo, quell’articoletto di elogio alla recensione severa delle Ipocrisie della legge, gli aveva messo i nervi sottosopra. Finita appena la minestra, assalì il nemico con una scarica d’epigrammi feroci, raccontando al professore la storia della maestra Galli.

Il professore si riservò a prender delle note dopo pranzo. Quel fatto, come molti altri, lo confermava nella sua idea, che la condizione del maestro nei piccoli comuni, come era al presente, fosse assurda e ridicola, per questa principale ragione ch’egli si trova tirato di qua e di là da forze nemiche ed opposte, come un condannato allo squartamento. Lo tiran da una parte il sindaco e il soprintendente, dall’altra il delegato e l’ispettore, che spesso son cani e gatti tra di loro, e vi s’aggiunge spessissimo il parroco, che discorda dagli uni e dagli altri, e cerca di tirarlo al confessionale; di modo che il maestro è seccato, angariato da tutti, e non aiutato, non protetto efficacemente da nessuno. L’unico modo, secondo lui, di dargli l’indipendenza, la sicurezza e la dignità voluta era quello di ristabilire il consiglio scolastico autonomo, presieduto dal provveditore, con due od un maestro almeno scelto nel corpo insegnante, e con la facoltà di far le nomine, le promozioni e i trasferimenti, e con l’obbligo di ammettere i maestri accusati a giustificarsi dinanzi ad esso. Oltre a questo, egli avrebbe soppresso i delegati, che o non s’occupano delle scuole, e sono inutili, o se ne occupan troppo, e urtano contro le autorità comunali, e sostituito loro il maestro più meritevole del mandamento; avrebbe fissato gli stipendi a un minimum di ottocento lire per le maestre e di mille per i maestri, facendo concorrere a pagarli i comuni, le Provincie e il governo; avrebbe riformato il monte dello pensioni, stabilito premi, gratificazioni, gare d’onore.... [p. 20 modifica]

Ma l’avvocato, che era uno di quei pessimisti dilettanti, che non vogliono sentir parlare di rimedi, per non aver amareggiato il piacere di pensar male, rispose al professore: — Tempo perso! mi perdoni. Tutte codeste piccole riforme non risolveranno il problema dell’insegnamento elementare e dei maestri. E sa perchè? Le dirò la mia idea: perchè il problema è insolubile.

Il professore, che risolveva tutti i problemi, scrollò il capo.

— Sì, signore; — riprese l’avvocato; — non c’è che questa leggera difficoltà: il problema è insolubile. Noi andiamo facendo da anni dei monti di chiacchiere e di libri per ottener l’impossibile. Che cosa vogliamo in fine? Abbiamo bisogno di cinquanta mila maestri elementari, ossia di cinquanta mila persone che sappiano istruire e educare dei ragazzi, che è quanto dire, che siano relativamente colte, dotate di un’attitudine singolare dell’intelligenza e del carattere, buone di cuore, gentili o corrette di modi, operose e pazienti, e che si perfezionino di continuo, o che vivano con dignità per dar col precetto l’esempio; vogliamo, insomma, cinquanta mila persone che riuniscano in sè un complesso di qualità intellettuali e morali delicatissime, rarissime a trovarsi riunite, e che rarissimamente si richiedon tutte insieme anche nelle più difficili delle altre professioni. Ebbene, io vi dico che il paese non vi può dare nemmeno la metà d’un tal numero di tali persone, e che non ve le darà nemmeno se raddoppierete gli stipendi e riformerete in meglio ogni cosa, perchè, qualunque cosa facciate, non potrete far mai che la professione del maestro sia retribuita in proporzione di quello che richiede e di quello che costa, ossia in maniera da attirare a sè la gioventù che la potrebbe esercitar degnamente. È dunque inevitabile, è nella natura delle cose che il corpo insegnante elementare abbia da essere sempre scadente, e non solo da noi, ma da per tutto. E, più o meno, è così dapertutto. Riformate quanto volete: non vi farete dar dal paese quello che non ha, e che non gli converrebbe di darvi, se l’avesse.

Il professore scrollò lo spalle. — Dunque — disse — a giudizio suo, non ci sarebbe a far altro che incrociar le braccia e lasciar andare le cose per la loro [p. 21 modifica]china. Questa sarebbe la sua conclusione. Io la crederei il peggiore degli errori. Noi non pretendiamo d’aver cinquanta mila maestri perfetti; pretendiamo, cerchiamo in tutti i modi di scemare il numero dei pessimi. Non facendo nulla, è inevitabile, se non altro, che questo numero rimanga qual è; ma io ritengo che crescerebbe. Bisogna dunque far qualche cosa. Salvo il caso che ella mi sostenga che maestri, istruzione popolare, scuole, tutto debba lasciarsi andare a rotoli insieme, perchè tutto è inutile, e l’educazione dell’infanzia un’utopìa.

— Oh senta! — gli rispose il padrone di casa, stuzzicato dalla contraddizione recisa; — io non le dico che sia un’utopìa.... perchè non lo credo. Ma quello che credo, e fermamente, è che intorno all’azione educativa della scuola noi ci facciamo delle grandi illusioni, come in tante altre cose. Io capisco l’educazione dell’esempio, la buona impronta che posson lasciare nell’animo dei ragazzi certi fatti, certi caratteri o modi di vita dei loro parenti e dell’altre persone con cui convivono o che frequentano. Io ho conosciuto un giovanetto discolo mutato di così a così da un atto nobile di suo padre; il quale, nel punto che gli si spezzava sotto i piedi il ramo d’un ciliegio molto alto su cui era salito, ed era certo di rompersi nella caduta un braccio o una gamba, invece di pensare a sè, accennò col dito sulla bocca al figliuolo che stava sotto, di non gridare, perchè non si spaventasse sua madre che stava in fondo al giardino, e pativa di mal di cuore; e venne giù, e si ruppe una gamba, continuando a accennare: — Silenzio. — Io credo nell’efficacia educativa di queste cose. Ma nell’educazione morale della scuola, che consiste tutta in parole! Le parole non fanno nessunissima impressione sui ragazzi quando non sono affermate dai fatti che essi vedono in casa e fuor di casa. Ora i fatti che essi vedono non solo non convalidano, ma smentiscono continuamente le parole che sentono. A otto anni capiscon già il gioco, tutti quanti, che è un proposito generale di parenti e maestri, di render loro migliori di quello che essi furono e sono, e capiscono che ad ottener questo fine essi insistono tanto più con le chiacchiere quanto meno possono addurre ad esempio sè stessi. E allora è finita. [p. 22 modifica]L’educazione della scuola! Ma una mezza bricconeria indovinata in famiglia, una scenetta vista nel buco d’una serratura, una pagina d’un libro dimenticato dal padre, distruggono gli effetti di sei mesi di morale parlata del maestro: e questo accade tutti i giorni. Che serve che sentan discorrere di virtù un’ora al giorno, se sentono, vedono, fiutano delle brutture da tutte le parti per l’altre undici ore! Caro professore, una generazione non ne educa un’altra che con quello che fa, non ne otterrà mai nulla con quello che dice. “I nostri figliuoli saranno migliori di noi„ per me, è il più falso e il più stupido luogo comune del linguaggio umano, quando nel dir quello ci fondiamo sul puro e semplice effetto delle nostre raccomandazioni orali o stampate. E se anche avesse questa grande efficacia l’educazione accademica, e posto pure che avessimo cinquanta mila maestri passabili, io credo che saremmo sempre alle stesse, perchè è un’educazione difficile a darsi con frutto, che richiede un carattere, un modo di sentire, un’arte di parlare ancora più eccezionale dell’ingegno, e uno appena su dieci maestri buoni è da tanto. Trovate voi su dieci padri di famiglia colti uno solo che sappia educare i suoi figliuoli, anche soltanto a parole? I padri fanno assegnamento sull’opera educativa dei maestri, i maestri dicono con ragione che non possono far nulla senza l’aiuto delle famiglie, e così l’educazione rimane una parola vuota che noi ci facciamo suonare all’orecchio, come certi autori si fanno suonare il titolo d’un’opera che non scriveranno mai e che non saprebbero scrivere.

— Allora, mi scusi, — domandò il professore, con un leggero sorriso ironico, — da che cosa c’è da sperare un miglioramento del carattere nazionale?

L’avvocato non aveva l’idea, la cercò in fretta, ed esclamò: — Da una guerra!

Quasi tutti i commensali misero un’esclamazione di dissenso.

L’avvocato s’accalorò nella sua idea, come se l’avesse sempre avuta. — Da una guerra — ripetè — di qualunque riuscita, che scuota la nazione fin nel midollo delle ossa, che ci faccia pensare, volere, sanguinare, soffrire, vivere faccia a faccia con la morte, tanto che non ridiamo più per dieci anni. — [p. 23 modifica]

Tutti protestarono daccapo, esclamando e ridendo, e in mezzo alle varie voci si sentì una risata cordiale della signora invitata, la quale credeva che l’avvocato avesse detto per celia. Il maestro la osservava con curiosità fin dal principio del pranzo. Era una bella signora fra i trenta e i trentacinque, coi capelli neri ondulati, con viso, occhi e bocca rotondeggianti, con un seno superlativo, stretta in un bel vestito di faille nero, guernito di nastri rosa e di pizzi. Stava a sentire i due disputanti, poichè era molto miope, con gli occhi socchiusi e fissi, come se facesse uno sforzo per comprendere, e quando vedeva gli altri ridere, rideva essa pure, a credenza, con la bocca aperta in forma d’un piccolo trapezio, come quella dei bimbi lattanti, mostrando dei piccolissimi denti bianchi e due fossette nelle guance; ma si capiva che non teneva dietro al senso dei discorsi. E divorava come una montanara.

Il professore rispose all’avvocato pacatamente. — Ella non crede all’educazione della scuola, io non credo a quella della guerra. La guerra non è che un macello esecrabile che noi poetizziamo per consuetudine e per interesse. Se fossimo vinti, seguirebbe lo sfacelo; se vincessimo, prenderemmo un’ubbriacatura d’orgoglio che ci farebbe vagellar con la testa per un quarto di secolo. Io credo certo il miglioramento della nazione per mezzo della scuola popolare, quando si migliorino, insieme cogli ordinamenti scolastici, i maestri: lo credo un fatto certissimo come quello che dia miglior frutto un terreno coltivato che un terreno incolto, e tanto migliore quant’è coltivato meglio. Questo, signor mio, è incontestabile. Ora, ad aver migliori maestri sarebbe assurdo il negare che giovi sopra ogni cosa il render più agiata e più sicura la condizione loro; cosa che, facendo concorrere all’insegnamento primario elementi più numerosi e più pregievoli, darebbe modo di porre più in alto l’idoneità e di fare una scelta più eletta. Intanto, checchè se ne dica, abbiamo in Italia degli elementi ottimi, rari a trovarsi negli altri paesi. Abbiamo dei maestri, che pur non avendo una straordinaria coltura, sanno sposare nell’insegnamento l’immaginazione al buon senso e la serietà alla gaiezza, senza perder nè tempo nè autorità, con un tatto istintivo ammirabile, da artisti nati. Ce n’è che, senza mezzi, [p. 24 modifica]senza libri, con una famiglia a cui provvedere, dovendo lesinare il centesimo per vivere, e anche osteggiati, e non avendo nessuna speranza di migliorare il loro stato, studiano e progrediscono di continuo, per la sola forza della passione ardente e disinteressata che hanno per il loro ufficio. Tutti gli ispettori ne trovano. Vada un po’ a informarsi, signor avvocato. Troverà dei maestri sconosciuti, la cui vita si potrebbe scrivere a caratteri d’oro nei libri d’educazione, e che farebbe arrossire molti professori illustri che guadagnan più biglietti da cento di quante lezioni fanno nell’annata, e che si servon della cattedra come il saltimbanco del palco davanti alla baracca, e la baracca per loro è la letteratura e la scienza....

Qui alcuni commensali si scambiarono uno sguardo, pensando a quella tal fabbrica a vapore di libri scolastici, e l’avvocato scrollò una spalla. — Codesti son gli eroi, — esclamò — e gli eroi, in un paese, non contano; sono come i quaterni secchi guadagnati al lotto, che non fanno ricca una nazione. Son troppo rari. Tant’è vero che quando se ne scopre uno, gli si fa una statua.

— Non son tanto rari gli ottimi maestri, — riprese il professore, tenace a difendere la classe ch’era lo strumento della sua fortuna. E accennando il maestro Ratti: — Io non voglio — disse — accennare i presenti....

La giovane signora, al veder gli altri sorridere, credendo a una celia, diede in una risata, esclamando: — Ah! è graziosa!

Ma il professore fu interrotto da vari commensali, che gli domandaron conto della sua gita scolastica nella valle vicina, e dovette volger subito il discorso al faceto riparlando d’un certo originale di maestro che aveva accettato di far scuola in una piccolissima borgata, per due o trecento lire l’anno, col patto espresso di non dover tener registri, perchè non ne avrebbe saputo levare le gambe. Costui, nelle giornate di sole, metteva a sedere i suoi pochi scolari sopra un carro, sul quale aveva posto delle assi, appoggiate alle due sponde, che facevan da banchi; e siccome possedeva un piccolo tratto di terreno, s’era fabbricato a suo profitto una speciale teoria educativa, fondandosi sopra una massima dal Pestalozzi, [p. 25 modifica]interpretata a modo suo: “che l’agricoltura era la migliore occupazione da accompagnarsi, possibilmente, alla scuola.„ — Bisogna, — diceva — ricondurre gli uomini alla terra, che è la madre comune; nella coltivazione della terra è la moralità, la pace del cuore, la sorgente di tutte le buone idee; — e con questo bel pretesto si faceva zappar l’orto dagli scolari; dai quali anche, per avvezzarli alle faccende domestiche, si faceva far da mangiare, spaccare le legna e ingrassar le scarpe. Tutti risero. Ma il professore, per rincalzare il suo giudizio, citò subito un altro esempio: un maestro del piccolo comune di Stacco, un giovane di trent’anni, figliuolo, vedete un po’, di un becchino, una fenice di maestro ch’era a poco a poco diventato l’arbitro del villaggio a forza di bontà, di buon garbo, di sensatezza e di oneste azioni. Il suo primo passo verso la fortuna e la gloria era stato una menzione onorevole guadagnata a un concorso bandito dal direttore generale delle carceri e della Rivista di discipline carcerarie per un libro di sana lettura pei carcerati. Il povero giovane, per mancanza di cultura letteraria, non aveva saputo dare all’opera la forma richiesta; ma aveva messo insieme un libretto, nel quale, in mezzo alle ingenuità e alle scorrezioni, c’era tanto buon senso, tante buone idee e dei sentimenti così generosi, che gli era stato dato, con la menzione, un piccolo premio; e un articolo d’elogio d’un giornale avendo schiacciato gli ultimi tentativi d’opposizione che gli faceva il sacrestano (un vecchio ambizioso e autorevole, a cui tutti nel paese chiedevan consiglio), egli aveva soppiantato il suo avversario e toccato l’apogeo della potenza che può raggiungere un maestro rurale. E non si poteva dire l’operosità di quel giovane, e il bene che faceva al paese, sradicando pregiudizi, riconciliando nemici, riconducendo ragazzi tristi sulla buona via, destando l’amore della lettura nelle famiglie, senza smetter mai la modestia che gli aveva cattivato simpatia da principio. Una cosa da far dire con Lutero che “un buon maestro non può esser pagato con danaro.„ Egli aveva assistito in casa sua a una scena indimenticabile. Il maestro, ch’era ammogliato, aveva un figliuolo malaticcio, per cui un medico di Torino, di passaggio per il comune, aveva consigliato quindici giorni d’aria di mare. [p. 26 modifica]Però, come fare a portar il bimbo in Liguria con quella poverissima paga, che non gli permetteva di fare il più piccolo risparmio? Il maestro era sconsolato. Ma sua moglie, ancor molto giovane, aveva venduto di nascosto le sue poche bricciche e gli ori di sposa, e una sera, mettendogli il danaro in mano, gli aveva detto: — Ecco di che andar sul mare per quindici giorni col nostro Beppino. — E il maestro era partito il giorno dopo, portandosi il bimbo in spalla fino al capoluogo del mandamento, per risparmiar la spesa della carrozza. — Queste non sono cose di romanzo, signori, — concluse il professore.

I commensali gli domandarono degli altri insegnanti, che aveva trovato più su, risalendo la valle.

Ahimè! Quanto più s’andava in su, tanto peggio si trovava: era come un’ascensione verso la sommità delle miserie. Dopo il maestro di Stacco c’era quello della madre terra. Poi ne aveva trovato un altro, già avanzato negli anni, il quale durante l’inverno, non potendo riscaldare abbastanza la scuola, faceva le sue lezioni in una stalla, e gli scolari scrivevano coi lapis, che un contadino temperava col falcetto, per cortesia. Più su ancora aveva trovata una maestrina montanara, con la sottana di panno scarlatto, che portava bravamente il cestone sulle spalle, e che nei peggiori mesi dell’anno andava a dar lezioni da una borgata all’altra, armata d’un bastone d’alpinista, con gli stivali di paglia e le racchette ai piedi; e aveva per scuola, poveretta, una specie di cantina, dove, mancando i banchi, varie alunne sedevano sopra dei sassi, e quando la neve s’ammontava contro le finestre e contro l’uscio, dovevan scappar tutte per non morir soffocate. Al sommo della valle, finalmente, all’ultimo confine del mondo abitato, sotto alla regione delle nevi eterne, c’era ancora un maestro prete, che aveva una catapecchia di scuola stretta fra la chiesa ed il cimitero; una figura di vecchio anacoreta, con la sottana verde e le scarpe rotte, il quale viveva di patate e di carne di marmotta, in compagnia d’una vecchia serva disfatta e lacera, che gli fasciava i piedi con dei cenci quando faceva lezione. E questi era l’ultima espressione della miseria degli educatori del popolo, dopo la quale non c’era più che la morte. [p. 27 modifica]

Con questa immagine funerea si levarono da tavola; ma era così bello il giardino fiorito che si stendeva davanti alla villa, dominato da una torre rossa e da un altissimo pino, e si godeva di lassù una vista così splendida del torrente, dei boschi e delle montagne spiccanti in bianco rosato sul cielo terso, che si riattaccarono subito i discorsi allegri. La comitiva si sparse per il giardino. Il maestro fu chiamato dalla padrona di casa nella stanzina a terreno della torre, dove trovò la signora invitata, la quale, al suo apparire, mandò i ragazzi a giocare di fuori. La signora Samis gli aveva da fare in nome della sua amica, la signora Ribbani, una preghiera che pareva le spiacesse di fargli in quel momento.

— Non sarebbe il momento, — disse in fatti; — ma il signor Ratti perdonerà.

Si trattava d’una lezione privata. La signora Ribbani avrebbe desiderato che il maestro Ratti facesse un po’ di ripetizione, durante le vacanze, al suo ragazzo, il quale ai Santi doveva dar gli esami di riparazione, essendo stato rimandato agli esami di promozione dalla 3ª alla 4ª elementare, nelle scuole municipali di Torino.

Il maestro si mostrò esitante, dicendo che nell’agosto e nel settembre doveva, per desiderio del sindaco, fare un corso di ripetizione ai rimandati della sua classe.

Ma la giovane signora insistette, lo pregò di far quel favore al suo Oscar. Non pronunziava l’erre; faceva invece un verso di pappagallo: Oscao, Si trattava d’una cosa di poco: un’oretta, tre volte la settimana: non c’era che da rinfrancare un poco il ragazzo nell’aitmetica, perchè era stato rimandato soltanto nell’aitmetica. — E poi, — disse — è un ragazzo così pieno di buona volontà, è tanto quieto e docile, che le farà far poca fatica.

— Andiamo, — disse gentilmente la signora Samis al maestro, — lei può far questo piacere alla signora.

— Avrei potuto chiamare, — disse questa, — la maestra Falbrizio, che l’anno passato diede qualche lezione alla bambina; ma lei capirà, per un ragazzo, una maestra non sa abbastanza. — E soggiunse premurosamente: — Quanto al compenso io non bado a prezzo. [p. 28 modifica]

Il maestro fu punto: anche la signora Samis fece un segno di rincrescimento.

— Non ci bado neppur io, — rispose il giovane, un po’ aspro. Ma quella frase era stata detta con una così evidente sventatezza, ch’egli non vi s’impuntò; d’altra parte, la signora aveva l’aria d’essere altrettanto buona che sventata.

— Ha detto — domandò il maestro — dalla terza alla quarta?

E quella: — Ho detto dalla terza alla quarta? Ho sbagliato. Dev’essere dalla seconda alla terza.... dalla seconda alla terza, precisamente. Lei potrebbe fissar l’ora che le fa più comodo: venire, per esempio, dalle tre alle quattro del dopo pranzo. La nostra villa è duecento passi sopra la casa comunale, dove c’è il chiosco con la banderuola. Abbiamo una bella stanza da darle per le sue lezioni. — E voltandosi verso la signora Samis: — Quella tappezzata di turchino, dove dormiva la serva l’anno passato: si ricorda, signora Samis, che lei c’è entrata quella mattina, per farsi appuntare il vestito?

Anche quel particolare della serva spiacque al giovine; ma l’ingenuità faceva passare la sconvenienza.

— Come le dicevo, — riprese la signora vivacemente, facendosi addosso al maestro, con la familiarità inconsciente dei miopi, — non si tratta che di fortificarlo un poco nella composizione italiana; nel resto è preparato. Gli potrebbe anche badare un poco per la calligrafia, perchè a dir la verità, scrive che par raspatura di gallina. — E si mise a ridere. — Insomma, vedrà lei.

Il maestro domandò l’età del ragazzo.

La signora alzò gli occhi alla vôlta, contando rapidamente sulle dita, e rispose: — Otto anni. — E subito dopo: — Otto e mezzo. Son poca cosa, non è vero? Ma è già tanto vivo, se sapesse! Un diavoletto scatenato. E giusto, mi raccomando tanto tanto che abbia pazienza, signor maestro, perchè, pur troppo, è un bambino avvezzato male e la farà disperare. Le comoderebbe di cominciar domani?

Fissarono per il giorno dopo, e ritornarono tutti e tre verso la comitiva, la signora Ribbani tutta contenta, e la padrona di casa sogguardando il Ratti, con un sorriso rattenuto.