Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ultimo anno ad Altarana/III
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UNA SORPRESA.
Il giorno dopo il maestro andò a dar la prima lezione.
La villa aveva davanti un giardino sparso di piccole aiuole di fiori, e in un angolo del giardino, un padiglione da prendervi il caffè, di forma esagonale, con quattro finestre chiuse da persiane verdi, e un tetto conico di zinco. Entrando, il giovane vide vicino al padiglione la maestra Falbrizio che confabulava amichevolmente con la cameriera, e offeso nel sentimento del suo decoro professionale da quella familiarità d’una collega con una persona di servizio, passò, fingendo di non vederla. Un servitore sbarbato lo fece entrare nella stanza turchina, attigua al salotto, che si vedeva per lo spiraglio dell’uscio. Era una casa ricca e disordinata, piena di bei mobili velati di polvere, con giornali di mode, ventagli, giocattoli sparpagliati per i sofà e per le seggiole. Quando comparve la signora col ragazzo, non si trovò il calamaio, e dovettero chiamare il servitore, che andasse a prendere il suo. La signora si credette in dovere di assistere alla lezione, sedendo accanto al tavolino, dalla parte opposta al maestro, in atteggiamento d’attenzione grave. Bastarono dieci minuti al giovane per conoscere il suo scolaretto: era molto indietro, stava a sentir la lezione pigliandosi fra le mani ora un ginocchio ora l’altro, rispondeva francamente: — Capitissimo! — ad ogni domanda: — Ha capito? — e aveva capito a rovescio, e quel ch’era peggio, insisteva nelle sue papere mettendo innanzi cavilli e barattando le parole con una impudenza di avvocato briccone. La signora s’alzò e scomparve due o tre volte per qualche minuto. In uno di questi intervalli il maestro udì delle risa dietro ad un uscio che non aveva ancor visto, e un rumore sordo come d’una lotta, in cui riconobbe la voce del servitore, che doveva pizzicottare la cameriera; poi sentì sonare il pianoforte nel salotto. La signora gli venne a domandare se quel suono gli dava noia, dicendogli ch’era la maestra di pianoforte che insegnava alla bambina. Il giovane le rispose di no, in modo da farle comprendere di sì; ma essa non comprese. Egli sperò che l’avrebbe lasciato solo col ragazzo alla lezione successiva; ma la signora assistette anche a questa, tenendo fra le mani un libro da tagliare, un romanzo italiano; al quale dava di tratto in tratto un’occhiata, e poi si rimetteva in ascolto, con le labbra aperte, come se volesse abboccar le parole, e scoteva la testa ogni tanto, per cacciar indietro una ciocca di capelli neri che le cadeva sulla piccola fronte. Il giovane la guardava di sfuggita: aveva il naso troppo corto e un petto che passava il segno; ma era una bella donna, e non mostrava ombra di civetteria. La sua presenza, però, l’importunava come farebbe a chi legge un libro, una macchia di color vivo sul margine. Il terzo giorno essa gli fece ritardar d’un quarto d’ora la lezione con un monte di chiacchiere; dicendogli come s’era annoiata ai bagni di Sestri, come il marito sarebbe venuto a prenderla ai primi di settembre per condurla a Roma, in che maniera contava di passar l’autunno nella sua villa in collina, dove andava ogni anno per le vendemmie. E tutt’a un tratto gli domandò se il figliuolo aveva fatto molto progresso nelle prime due lezioni. Poi di nuovo stette a sentir lui con grande attenzione, guardando fisso la parete e approvando col capo, e a certe inflessioni di voce del maestro, che commentava un racconto affettuoso, si voltava, con curiosità, come se avesse inteso una nota d’uno strumento musicale sconosciuto. Avendo udito la parola mirifico la ripetè piano, quasi tra sè, come domandandosi che cosa significasse. In fine, avendo il maestro detto: bene! a una risposta giusta, essa gettò le braccia al collo al ragazzo e lo baciò con grande effusione, come se avesse dato un lampo di genio.
Ma nelle lezioni successive il maestro cominciò ad essere ben altrimenti importunato. Venivan delle signore a visitare la padrona di casa, e chiacchieravano e ridevan forte nel salotto senza un riguardo al mondo, mentre egli insegnava. Un giorno sentì la voce d’un signore che discorreva piano con lei, e gli arrivò all’orecchio come il colpo d’una mano sopra una mano, che lo mise in sospetto. Il giorno seguente, quando aveva appena incominciata la lezione, entrò il servitore portando il vassoio con la merenda per il ragazzo, e sopraggiunse poco dopo la signora a pregarlo che avesse la bontà di lasciar mangiare il “piccino„ mentre egli spiegava, perchè dovevano uscire alle quattro in punto per una scampagnata. Il maestro, stizzito, tenne la bocca chiusa fin che il ragazzo non ebbe finito di sgranocchiare le sue pesche e i suoi confetti; ma ella non s’accorse punto di quella dimostrazione di risentimento. E gli pareva così grulla e vuota e ad un tempo così ingenua quel bel pezzo di donna con quella fronte di bambina e quel petto di baliona, che finiva con perdonarle e quella e le altre sventataggini, scrollando le spalle. Pensava nondimeno, di quando in quando, all’ingiustizia della fortuna, paragonando quella signora nulla e sfaccendata, che nuotava nell’oro e negli agi, con quella buona e brava ragazza sua vicina, la cui vita era così operosa e utile e nobile, e che aveva appena da sfamarsi.
Ma un giorno poco mancò che non la piantasse su due piedi, senza nemmeno prender congedo. Aveva terminata la lezione, era già uscito il ragazzo, c’eran nel salotto dei visitatori che bevevan del vino bianco: la signora entrò in fretta a pregarlo di trattenersi ancora un momento, poi scomparve, e subito dopo venne il servitore a portargli un bicchiere di vino. Quei bicchiere mandatogliFonte/commento: ed. 1890 in quel modo, come a un cocchiere, senza averlo invitato a entrar con gli altri di là, senza che lei rimanesse un minuto a fargli compagnia, lo umiliò; egli non bevette, e se n’andò senza ringraziare, proponendosi di far capire un’altra volta alla signora, col suo contegno freddo, che aveva mancato di delicatezza. Ma quand’egli ritornò, quella glie ne fece una seconda che portò via la prima, come uno sbrano porta via una macchia a un vestito. Gli si presentò con l’aria sorridente di chi dà una buona notizia, e gli domandò a bassa voce se voleva far la conoscenza d’un signore ch’era nel suo salotto, un grande personaggio, capo divisione del ministero dell’istruzione pubblica, di quelle persone che è bene di conoscere, perchè possono molto, e una raccomandazione di lui gli avrebbe potuto giovare assai nella sua carriera, non foss’altro che per fargli avere un sussidio, come n’aveva fatti avere a parecchi, ch’essa conosceva. E gli disse: — Venga pure senza suggezione; è un uomo alla mano, che sa stare con tutti. — Il maestro rifiutò netto, rispondendo che non aveva bisogno di nessuno, e dando un’occhiata al biglietto di visita che la signora gli porgeva, non potè trattenere un sorriso nel leggere: — Tal dei tali, capo divisione al ministero dei lavori pubblici. — La signora rimase un po’ mortificata del rifiuto, e se n’andò, senza insistere. Ma poco prima ch’egli finisse la lezione, ritornò a sedere al posto solito. Era pure una singolare creatura! Pareva alle volte al maestro che lo guardasse con un’espressione di simpatia, ed egli pure la fissava; ma quella si riscoteva subito, e voltava gli occhi altrove, come per un ravvedimento improvviso, quasi che dicesse a sè stessa: — Ma che ti passa pel capo! Con un maestro!... — E poi lo tornava a guardare, ma sempre con cert’aria di benevolenza schietta, in cui appariva a momenti l’intenzione di piacere, ma non l’arte punto: pareva una donna che avesse il ticchio intermittente di far la civetta, per far come l’altre, ma che non sapesse, e che smettesse perchè capiva di non sapere.
E così egli avrebbe tirato innanzi le sue lezioni alla meglio, se la signora non glie n’avesse fatte due nuove, l’una sull’altra, veramente marchiane. Entrò una sera nella stanza come un soffio di vento, battendo le mani e sciamando: — Pvesto, Oscao, pvesto! È arrivato lo zio! Oggi niente lezione! — e vedendo il maestro seccato, s’affrettò a dirgli con gentilezza: — Oh, non si dia pensiero; conteremo la lezione lo stesso. — E scappò col ragazzo, senza lasciargli il tempo di rimbeccarla. Tornò il maestro due giorni dopo col proposito deliberato di darle una lezioncina di quelle che si ricordano, anzi con le parole bell’e pronte, e aguzzate per bene; senonchè la signora lo prevenne in una maniera impreveduta, avvicinandosegli tanto, con la sua sfacciataggine di miope, ch’egli ne senti l’alito caldo nel mento, e quella sensazione contenne il suo sdegno. — Stasera, — gli disse ella in tuono di confidenza, — abbiamo a pranzo molti villeggianti, per far onore allo zio; è venuto apposta da Torino mio marito, per una giornata. L’avrei invitato anche lei.... Per me sarebbe stato un piacere, pensi un po’.... e anche per mio marito. Ma con certe persone non si sa mai. Lo zio è un benedett’uomo.... Un po’ aristocratico, ecco. Desinerà un’altra volta con noi in famiglia, e inviterò anche la signora maestra Falbrizio. — La villania gli venne così a bruciapelo, ed era detta con un fare così innocente, che il giovane non trovò lì per lì una parola da rispondere; ma rimasticandola quando fu fuori, ne ebbe il sangue rimescolato. — A questo punto, — pensò, — l’ho lasciata arrivare, quell’asinella impertinente! Ma mi considera proprio come un domestico! Non manca più altro che mi dia gli stivaletti del ragazzo da lucidare! È impossibile che sia tutta ignoranza; c’è sotto del disprezzo, è evidente, e l’intenzione nascosta di avvilirmi. Lo zio è aristocratico! Ah branco di bifolchi indomenicati, vi darò io una lezione d’educazione, che terrete a mente per un pezzo! — E ritornò alla lezione successiva, risoluto a dire alla signora, allo zio, a chiunque altri fosse presente, che lo tenessero per dispensato dal continuare, e per quali ragioni, fuori dei denti, senza attenuare d’un minimo che l’espressione del suo orgoglio ferito. Ma alla porta del giardino trovò piantata la cameriera, la quale gli disse con un sorriso ambiguo che, avendo ritardato il pranzo di due ore, i “padroni„ erano ancora a tavola, e lo pregavano di ripassare un’ora dopo.
Gli salì il sangue al viso e gli corse un’ingiuria alle labbra; ma, vergognandosi di sfogare il suo sdegno con una persona di servizio, lo contenne, e voltate le spalle, se n’andò senza dar risposta, deciso di non rimettere più piede là dentro, e agitato da mille pensieri biechi di vendetta. Tutti i suoi antichi rancori di maestro umiliato contro la plutocrazia maleducata e boriosa gli si risollevarono dentro, e le antiche idee d’una vendetta sociale gli rifecero fuoco nell’animo con la violenza d’una fiammata d’acqua ragia; ed egli vi soffiò dentro, e si pascolò lungo tempo con rabbiosa voluttà nell’immaginazione d’una turba urlante di proletari scamiciati elle irrompessero in quel giardino e in quella casa, rovesciando, sbriciolando, disperdendo ogni cosa, cacciando di stanza in stanza a pedate e a legnate lo zio aristocratico, il marito sfruttatore d’operai, e quel pezzo di carne scipita e ingioiellata, ingrassata poltrendo nella signorìa di mal acquisto, che trasudava da tutti i pori l’ignoranza d’un trastullo da serraglio e il disprezzo della povertà che meritava. E in questo stato d’animo ritornò a casa, e si sfogò, raccontando tutto alla maestra Galli; la quale, con suo stupore, parve che avesse piacere dell’accaduto, e approvò con calde parole la sua risoluzione di romperla senz’altro con quei signori. Ma questo non gli bastò. Egli volle che la signora Ribbani risapesse il vero perchè della rottura, e, certo che le sue parole le sarebbero state rifischiate dalla prima all’ultima, andò a dire ogni cosa alla maestra Falbrizio. — Glielo vada a ripetere, — le disse, — lei che è di casa: le dica pure che io ho piantato mamma e marmocchio per le cose che ho avuto l’onore d’esporle, le quali m’hanno dimostrato che la signora Ribbani non ha un’idea abbastanza chiara della differenza che passa tra un maestro e uno stalliere. — E la Falbrizio gli diede interamente ragione, soggiungendo però, con uno dei suoi sorrisi benevoli, scintillanti di malizia, che la signora, in fondo, doveva esser compatita, non appartenendo a una famiglia.... Sua madre aveva tenuto un piccolo banco di merciaia sotto i portici di piazza del municipio a Torino; essa medesima aveva maneggiato il metro fino a quattordici anni; il signor Ribbani se n’era innamorato al banco; e bisognava anche dire che non era una bella donna soltanto, ma buona, un cuor d’oro, e una signora, “che che se ne dicesse„, d’una condotta superiore a ogni eccezione.
Due giorni dopo andò il servitore a casa del maestro a domandargli in nome della padrona perchè non si fosse fatto più vivo e in che giorno sarebbe tornato a far lezione: la Falbrizio non aveva ancora parlato. Il maestro gli rispose che avrebbe scritto. Scrisse in fatti il dì seguente una letterina asciutta con la quale, senza dir perchè, pregava la signora di dispensarlo dal continuar le lezioni. La signora, che non scriveva mai, gli mandò a domandare, con parole cortesi, la ragione di quella risposta. Il maestro non rispose più. Tornò una terza volta il servitore con una lettera, che doveva contenere il danaro, ripetendogli la preghiera o di tornare o di spiegarsi. Egli rifiutò la lettera e non si spiegò. Era trascorsa intanto una settimana, durante la quale la Falbrizio non aveva aperto bocca, per darsi il gusto raffinato di tener nel pugno per un pezzo le fila d’un affaretto delicato. Venne finalmente ancora una volta il solito messo, con un’aria umile che doveva rifletter l’animo della padrona, a pregar con insistenza il maestro che facesse il favore a andare per un solo momento dalla signora, che era molto addolorata e che aveva da dirgli una cosa di molta importanza. La Falbrizio aveva parlato. Il maestro andò.
La signora era addolorata davvero, poichè non aveva già offeso il giovane per alterigia, ma per non aver idea nessuna del grado che un maestro occupasse sulla grande scala delle persone a cui si dà del danaro in cambio d’un servizio; le quali persone essa confondeva tutte, per ignoranza, in una classe sola, come il selvaggio che non fa differenza fra una cazzaruola e un barometro. Per questo, inteso che ebbe dalla Falbrizio specificare i propri torti, sebbene la maestra ostentasse per adulazione di riderne, ed essa medesima non comprendesse le cose in tutta la loro delicatezza, pure ne ebbe rimorso e vergogna, come voleva la sua natura semplice, e inclinata alla benevolenza, e decise di riparare al mal fatto, a qualunque costo. Il maestro andò da lei con ripugnanza, pensando di dover passare davanti alle persone di servizio, che forse sapevano tutto, e che avrebbero sorriso del suo ritorno di servitore riabilitato; ma guardando dal cancello del giardino, e non vedendo nessuno, si rincorò: tutto il servitorame era a cena, e i ragazzi schiassavano nelle stanze di sopra, con la maestra di pianoforte. Entrato appena, vide sbucar dal padiglione la signora, che gli venne incontro con la mano tesa, un po’ rossa in viso, e fissandolo con espressione d’ansietà. — Ah signor maestro! — gli disse, — ho avuto tanto dispiacere! un vevo, vevo dispiacere, mi creda! — Ma non sapeva trovar parole per scusarsi, e in verità non ce n’erano: non avrebbe potuto rimestar quell’argomento senza offendere il maestro un’altra volta. Per pigliar tempo a trovar qualche frase, lo fece entrare e sedere nel padiglione, sopra un divano di paglia che girava intorno, di contro alla luce rossa del tramonto che entrava fra le stecche delle persiane chiuse. E là cominciò ad affastellar parole che non dicevan nulla o dicevan troppo, rifacendosi da capo dieci volte. — Un vevo dispiaceve, mi creda! Se avessi potuto pensare!... Ma immagini un poco se potevo aver l’intenzione... a un giovane istruito e educato come lei.... Io non so vevamente dove avessi il capo.... Lei anche ha interpvetato male.... Insomma, mi pevdoni. Mi dica puve che sono una testa sventata... non posso lasciarle suppovve ch’io abbia potuto mancare.... A ogni costo bisogna che mi pevdoni, che mi assicuri che considera tutto quanto come un malinteso e che sarà sempve, sempve nostro amico. Lei me l’assicuva? — E per veder bene nel viso del maestro se avesse ancora del risentimento, fissò così da vicino in quelli di lui i suoi occhi di miope, che quel me l’assicura gli entrò prima nella bocca che negli orecchi, ed egli sentì a un tempo un profumo misto di gaggìa, di donna giovane e di biancheria fresca, che gli mise un brivido da capo a piedi. Insistere nel suo rancore gli sarebbe stato difficile, e gli pareva sciocco oramai, chè non avrebbe potuto pretendere un atto di riparazione più esplicito. — Glie l’assicuro, — rispose, facendo il viso un po’ indietro, senza saper dove metter le mani, — per me, è tutto dimenticato; mi rincresce anzi d’esserle stato cagione d’un dispiacere. — Ma per quanto cercasse altre parole, fissando un nodo di nastro che luccicava tra un ginocchio e l’altro sul vestito nero di lei, non ne trovò, e ne sentì dispetto, parendogli d’arrendersi in una maniera un po’ puerile, dopo tanto sdegno. La signora fece un atto vivace di allegrezza. — Lei mi leva una spina dal cuove! — esclamò. — Ne sono proprio contenta! E vevvà ancora a dar qualche lezione al ragazzo, non è vero? Noi restiamo ancora qui qualche giorno. Anche Oscar è così dispiacente che non venga più! Ritornerà, me lo promette? — A questa domanda preveduta il giovane aveva fermamente deciso di dir di no; ma con quel me lo promette sentì nel viso un alito così caldo e odoroso e uno strisciar così morbido del vestito di faille contro la sua mano sinistra, che rispose invece a tre riprese: — Non saprei veramente.... Vedremo.... Verrò. — La signora battè una mano nell’altra. E soggiunse subito, guardandolo negli occhi, col sorriso di chi domanda un favore: — E allora lei accetterà quello che ha vifiutato? — Il danaro daccapo! Ah la bella cretina! Questa volta il giovane dovette ridere, e rise essa pure, senza capir perchè, ma così vicina a lui, premendo così il petto sul suo braccio, aprendo così ingenuamente la sua bocca carnosa di bimba lattante, che fu un punto solo per lui notar che aveva un molare impiombato, veder ballare il padiglione, e sentir nel buio la dolcezza indicibile del suo labbro inferiore, ch’egli aveva stretto fra i denti. Udì bene in quello scombussolìo d’ogni cosa una vigorosa esclamazione: — Maestvo! — ma era più di maraviglia che d’ira, e arrivava tardi.
Son cose, dunque, che accadono anche ai “paria dell’alfabeto?„ Questo fu il suo primo pensiero, post deinde. E la condizione in cui rimanevano l’uno rispetto all’altro dopo quell’abboccamento, parve a lui, novizio, così strana, che uscendo dal padiglione guardò furtivamente la signora con grande curiosità, quasi aspettandosi di vedere un’altra persona. Ma no, aveva il viso di prima, un po’ più animato soltanto, come se avesse fatto il giro del giardino di corsa; e guardava intorno con gli occhi socchiusi, se non ci fosse nessuno. Ah destino! C’era al cancello la maestra Falbrizio, stata spinta lì dalla curiosità irrefranabile di sapere come fosse andata a finire la cosa, e venuta col pretesto di portare una carta di spilli alla cameriera. La signora le andò incontro con disinvoltura, e il giovane ricompose il viso alla meglio; ma vide lo sguardo della maestra fissarsi scintillando sotto il suo mento, e tastandosi subito la cravattina di seta nera, ci trovò il nodo disfatto. Maledizione! — Signor Ratti, — gli disse quella, con un sorriso diabolico, — sa che è morto d’un accidente il sindaco d’Azzorno? Ha portato ora la notizia il catastaro. — Ma gli importava assai del sindaco e del suo accidente! Per tutta quella sera l’immagine di quella cravatta nera snodata si distese come una striscia di lutto a traverso al suo ricordo color di rosa, e gli pareva di vedervi scritta su una minaccia indeterminata, che non gli riusciva bene di leggere, ma che per questo lo teneva più inquieto. Soltanto il giorno dopo, il ricordo gli si riaffacciò senza macchia, più vivo e più ridente che la sera innanzi, e lo risospinse alla villa, curioso, impaziente, palpitante, risoluto, come il ladro che va a veder nel nascondiglio se c’è ancora il tesoro che ha rubato. Al cancello del giardino s’arrestò, peritoso, vedendo il giardiniere. — La signora?... — La risposta fu un colpo di stocco. La signora, chiamata da un telegramma del marito, era partita a mezzogiorno per Torino col ragazzo e tutto il suo seguito, per non ritornare che l’anno dopo. Chi l’avrebbe detto due giorni innanzi che a una notizia simile sarebbe stato addolorato e avvilito come del tradimento di una persona amata da anni! Solo, col capo basso, tormentato nel corpo e nell’anima da quei ricordi che poco prima l’inebbriavano, egli se ne tornò a casa, oppresso da un tale sgomento della solitudine e del vuoto che l’aspettavano, che, appena entrato, s’affacciò al terrazzino, e vi stette aspettando la vicina con l’animo in ansia, preso da un bisogno imperioso di riconfortarsi nella sua buona compagnia, di mettere la sua cara amica fra sè e quella immagine, come per nasconderla al suo pensiero, e quetare i sensi accesi in un sentimento dolce ed onesto. E quando essa comparve la salutò con viva espansione, con uno sguardo e un sorriso quasi di preghiera, porgendole la mano. Ma la maestra non gli tese la sua, e lo guardò freddamente. Un sospetto gli balenò subito: la cravatta, la maestra Falbrizio.... Ah! non c’era dubbio; la Falbrizio lo aveva denunziato. Che cosa dirle? Come uscirne? Mentre cercava, quella gli disse lentamente, guardandolo: — Ora lei dà delle lezioni nei chioschi, non è vero? — E prima ch’egli trovasse una risposta, scrollò il capo con tristezza, e senza salutarlo, rientrò.