Il podere (Tozzi)/VI
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VI.
Il Pollastri, uno dei più vecchi notai di Siena, era molto rispettato e tenuto in conto. Bassotto, con il buzzo a pera, e sempre con il bastone e con il bocchino per fumare il sigaro, aveva una carnagione scura; i baffi biondicci, con le punte come due spaghi untuosi e sottili; gli occhi chiari che doventavano subito fissi e cattivi; una voce che lusingava; un sorridere serio e pacato che faceva esclamare:
— Dev’essere onesto!
Siccome la cenere del sigaro gli andava sempre addosso, molte volte seguitava a parlare ripulendosi il vestito con tutte e due le mani; e poi, specie quando voleva ascoltare, le teneva stese sopra lo scrittoio e i pollici appuntellati sotto.
Remigio era andato da lui come da un padre, contento di confidarcisi; Luigia aveva cercato, anche per mezzo di un avvocato, di capire ch’egli non sarebbe stato parziale a favore del figliastro. E il Pollastri, accontentando ugualmente Luigia e Remigio, trovava sempre qualche motivo per cui era necessario che tornassero da lui. E così le loro chiacchiere, attraverso una imbriacatura legale, doventavano pretese eccessive o addirittura impossibili, in contrasto tra sè e irreconciliabili; proponendo egli, ora all'uno ora all'altro, accomodamenti che non potevano soddisfare nessuno dei due. Con quel suo sorriso, che gli faceva raggrinzare tutta la faccia, diceva a Remigio:
— Sì, lei ha ragione; ma, d'altra parte, dovrebbe essere più generoso, meno tirato intendo dire, più buono verso la matrigna.
— Ma io voglio darle soltanto quel che le si spetta. Non le pare giusto?
— Soltanto quel che le spetta? Ma se le fa vedere che lei è disposto a più, la matrigna, in compenso, sarà più affezionata...
— Non m'importa!
Il Pollastri rideva, come se avesse detto una cosa da far ridere, e rispondeva:
— Ah, non gliene importa!
Remigio, che credeva di avere risposto da furbo, come se avesse da farsi scusare di una bricconata, lo guardava ridendo; sotto quegli enormi scaffali d'incartamenti, a volumi, tutti con la costola nera, con un cartellino numerato.
Più su della poltrona, la cui stoffa era stinta e strappata, un crocefisso d'avorio, d'un avorio scivolevole; e sopra la scrivania, ricoperta d'incerato nero, righelli e penne, bene in ordine, accanto a un enorme calamaio di vetro.
Remigio ripigliava:
— Che forse la mia matrigna è disposta verso di me a farsi dare meno di quello che per legge io non potrei negarle?
— No: tutt'altro!
Il notaio si divertiva a sentire quelle ragioni, di cui non c'era nessun bisogno. E Remigio rincalzava:
— E allora?
— Faccia come crede. Viene qui lei stessa a raccomandarsi, perchè io dica così!
— Non le dia retta! Le dica che avrà il giusto, e che io non ho punto l'intenzione di darle meno.
— Caro Remigio, ci ho perso la pazienza; gliel'ho ripetuto già trenta volte.
E prendendo un'aria di protezione e di degnazione paterna, quasi avesse dovuto rimproverarlo, continuava:
— Io le voglio bene; ma voglio essere di coscienza tranquilla. E, quindi, io non mi presterei a favorire eccessivamente lei a danno della vedova.
Allora, Remigio si raccomandava:
— Vede che sono venuto subito da lei, senza che mi ci abbia consigliato nessuno, appunto perchè lei accomodi, secondo la legge, questa faccenda: nè a favore mio nè a quello della mia matrigna. Ma, nel caso che la matrigna fosse contro di me con pretese sciocche e cattive, io voglio essere certo che lei penserà a tenerla a posto.
— Ma, sì, stia tranquillo!
E aveva sempre voglia di ridere. Poi, gli disse, un giorno:
— Del resto, finchè non sono venuto a fare l'inventario, valutando tutto il patrimonio, è impossibile stabilire qualche cosa di serio.
— È quel che penso anch'io.
— Stia tranquillo, le ripeto. Prima di venire a parlare di somme, c'è tempo ancora. Che importa se la vedova ha fretta? Non sa, forse, che ci sono stati casi, tra matrigna e figliastro, che hanno leticato per i tribunali anche due o tre anni?
Remigio, incuriosito come dinanzi a un agguato, che quasi lo lusingava, chiese:
— Avrebbe fretta, dunque, la mia matrigna?
— Piuttosto!
— E quando verrà a fare l'inventario?
— Per una settimana, ormai, non posso.
— Non può?
— Ho tanto, tanto da fare, mio caro! Tanto!
— E mi farà spendere molto?
— No, no: faremo tutte le cose alla buona!
— Ma non può dirmelo, all'incirca?
— Non saprei... ancora non siamo nè meno al principio di quel che c'è da fare.
E, magari, due ore dopo, diceva a Luigia:
— È un ragazzo che non mi vuol dare ascolto! Sarà difficile intendersi! Badiamo bene! Se seguita così, io lascio a mezzo ogni cosa e non me ne occupo più.
Luigia lo supplicava piangendo.
— Per carità, la sbrighi lei questa brutta matassa! Giacchè Remigio ha avuto l'idea buona di rivolgersi a lei, badi se le riesce di farmi dare almeno quel che mi spetta per legge; altrimenti dovrei mettermi nelle mani di un avvocato e ricorrere al tribunale: sarebbe vergogna, per tutti quelli che lo risapessero.
Il Pollastri, stando zitto e stropicciandosi le mani, guardava la finestra come se cercasse il mezzo di escire dall'imbroglio. Poi, prendeva di tasca la scatola dei fiammiferi; e, dopo aver soffiato dentro il bocchino, abbassandosi sul cestello della cartaccia, accendeva un mezzo sigaro. Luigia ricominciava a piagnucolare!
— Mi consigli lei!
— Mia cara, io faccio di tutto; ma se non mi riesce non è colpa mia. Badiamo bene! Anzi io la metto subito in guardia; perchè, quando ho fatto il mio possibile, non voglio che s'incolpi me.
— Ma questo non lo pensi nè meno!
— Ecco, allora, ci siamo intesi: domani, quando egli tornerà, io farà l'ultimo tentativo.
Luigia, che avrebbe voluto trattenersi ancora, si alzava e usciva; facendo, però, tre passi per ogni mattone.
Il Pollastri, rimasto solo, prendeva un foglio di carta, in cima al quale era il suo nome fatto con un timbro di gomma a inchiostro violetto; e scriveva con quella calligrafia grossa e aggrovigliolata, tra le finche diritte e perpendicolari: «Altra mansione per colloquio con la vedova, durato un'ora, lire venti».
Faceva la somma, con il lapis, sopra un pezzetto di carta, di tutte le mansioni; poi, spargeva il polverino rosso su lo scritto; lo rimetteva nel cassetto, si dava una sfregatina alle mani, una scossa al vestito ceneroso; e passava subito ad altro.
Ma al suo scritturale, che chiamava quando non c'erano più i clienti, per fargli ricopiare gli atti notarili in carta bollata, disse una volta:
— Per un'eredità di dieci lire, non vogliono mettersi d'accordo. Peggio per loro! Se la mangeranno e basta; ma non devono credere di sacrificare me, non pagandomi il conto!
Lo scritturale, che da un pezzo aveva voglia di parlare della successione di Remigio, rispose:
— Del resto, la Casuccia è un possesso che mi piacerebbe; farebbe proprio per me. Comprerei un ciuchino...
Il Pollastri lo guardò in faccia, e si mise a ridere; erano amici da tanti anni e si aiutavano; perchè Roberto Lenzi, pur facendogli da scritturale, aveva un patrimonietto al Monte dei Paschi.
— Perchè mi guarda?
Il notaio rispose:
— E un'idea che mi piace; e io le prometto di aiutarla.
— Dice da vero?
Il notaio si alzò, e gli dette la mano. Lo scritturale, a cui l'impazienza di dire tutto in una volta faceva perfino sbagliare una parola per un'altra, disse asciugandosi il sudore freddo su la fronte:
— Ecco come vorrei entrarci io. So che Remigio, non ha avuto, povero ragazzo, nè meno un soldo in contanti; anzi, ci sarà subito un passivo di circa diecimila lire, perchè gli faranno anche una causa... credo una certa Giulia, che conviveva con il signor Giacomo...
Il notaio assentò, abbassando la testa.
— Deve proporgli di farsi prestare il danaro da qualcuno, ossia da me... si fa una ipoteca!... E quando egli non potrà andare più avanti, comprerò ogni cosa io. Così, non si mette in balìa delle banche!... È meglio che s'ipotechi con me: non ne conviene? Gli dice che con me si fa una cosa alla buona... magari penso io alle spese che ci vogliono per far registrare l'ipoteca; così lui acconsentirà meglio. Che m'importerebbe di dover sopportare io tutte le spese, che dovrebbero essere a metà? Si mette, nel contratto, che egli si obbliga di rendermele dentro un certo tempo...
Il Lenzi voleva dire tutto questo ridendo, ma non gli riesciva; tanto era preso dall'emozione. Aveva scoppi di riso, che gli troncavano le parole; e quando tacque, gli batteva il cuore come se soffocasse: era grasso e biondo, con il viso che pareva gonfio di sangue, con una bocca che gli si storceva anche a respirare, con una pappagorgia come un secondo mento.
Il Pollastri lo guardò un'altra volta; e il Lenzi, avvicinandosigli come per leggere dentro i suoi occhi, disse tutto allegro:
— Siamo d'accordo!
E come se avessero pensato la stessa cosa, aggiunse:
— Lei mi dirà la ricompensa, perchè gli affari sono fuori dell'amicizia; e lei avrebbe tutte le ragioni di rifiutarsi a questo accordo; che, del resto, sarà un bene per quel cretino; perchè, o prima o dopo, dovrà vendere la Casuccia. E, se non la prendo io, chi sa in quali mani cattive va a cadere! Invece, merita che la prenda una persona come me. Non è vero, forse?
E ambedue si guardarono fisso, con gli occhi egualmente scintillanti; che li abbarbagliavano a vicenda. Poi, il notaio sospirò:
— Tra noi non c’è bisogno di discorrere troppo: ci s’intende alla prima, e non manchiamo di parola.
Piegò un foglio di carta bollata; e disse, sempre con la stessa voce:
— Qui copierà quel contratto, che dev’essere firmato domattina. Si ricorda quale?
Il Lenzi lo trovò e glielo mostrò. E il Pollastri, non avendo nient’altro da fare, andò a prendere il bastone, in un cantuccio della stanza; si mise il cappello, senza guastare la scrinatura a taglio; ed escì canticchiando un motivo del Verdi.
Il giorno dopo, a Remigio si mostrò più premuroso del solito; e il giovane, credendo che dipendesse dall’averlo ormai convinto a far tutto con sollecitudine, non stava in sè dalla contentezza e dalla fiducia. Già, gli aveva fatto un buon effetto che il Lenzi, per salutarlo, si fosse addirittura alzato da sedere.
La voce gli tremava, e si aspettava che il notaio gli comunicasse l’accordo ottenuto con la matrigna: non voleva nè meno sedersi, per ascoltare subito in piedi. Il Pollastri, cercando di assecondarlo a sorrisi, per non dargli di colpo una delusione che lo avrebbe mal disposto, gli disse:
— Tutto va proprio bene, secondo i nostri sforzi. Io ho anche trovato un mio amico, un amico intimo, che a lei soltanto presterà quel che ci vuole per le prime spese; di cui non si può fare a meno.
Remigio era così contento che, a queste parole, non capì di quel che si trattava; e rispose, distrattamente, per sapere presto quel che sperava:
— Grazie, grazie di tutto!
Il Pollastri chiamò lo scritturale; e questi, mettendosi dalla parte della finestra, dichiarò:
— Io sono a loro disposizione.
Il Pollastri chiese a Remigio:
— Quanto crede che le occorra?
— Ma! Io non saprei.
— Il signor Lenzi ha pochi denari; ma, forse, basteranno. Se crede, domani stesso, lei può fargli una ricevuta provvisoria, e in seguito si prepareranno gli atti.
Remigio, a cui svaniva quella specie di ebrezza che lo teneva come rapito in un sogno, li guardò ambedue; e, allora, rimase un poco perplesso.
Tuttavia, volendo scusarsi di non accettare immediatamente la proposta, di cui non riesciva ad afferrarne ciò che per lui era indeterminatezza, rispose:
— Ancora, non saprei decidere. Loro lo sanno, meglio di me, che per ora non conosco nè meno quanto mio padre m'ha lasciato e quanti debiti ci sono.
— Mio caro, male! A quando aspetta? Quando siamo nella sua condizione, bisogna rendersi subito conto di quel che c'è da fare; tra le illusioni non c'è mai da scegliere.
— E se non avessi bisogno di farmi prestare niente?
Quelli risero; e lo scritturale disse:
— Io non ci voglio mettere bocca più: quando saranno d'accordo, mi chiameranno. Sono sempre pronto a fare quel che posso; ma di più no. Più buono di così non potrei essere.
Ed escì, strizzando un occhio al Pollastri; che, da solo, vide prendere una brutta piega al tentativo. Allora, finse di adirarsi, mostrandosi indispettito che un suo consiglio non venisse accolto senz'altro. E si mise a sfogliare certe carte, che aveva davanti. Remigio, tanto imbarazzato che si vergognava, disse:
— Ne parleremo quest'altra volta! Intanto, mi dica quel che ha combinato con la mia matrigna.
Il Pollastri, che aveva preso in mano una penna della mezza dozzina che ce ne aveva su la scrivania, scosse la testa e rispose:
— Io non so più quel che dirle, da quando capisco che lei non confida più in me.
— Mi dia prima la risposta della matrigna!
— Non ho da darle niente.
Il giovane, mortificato, si passò una mano su la fronte; e, poi, disse più affabile che poteva:
— Mi spieghi, almeno, come il signor Lenzi mi darebbe i denari: capisco bene la sua buona intenzione! Non lo nego.
— Vorrebbe che il mio amico le prestasse i denari senza una garanzia?
— Questo no di certo.
— È la prima volta che egli si arrischia a entrare in un simile ginepraio. E lo fa anche perchè era amicissimo del signor Giacomo. Penserò io a tutto. Si figuri che egli è disposto ad accettare un'ipoteca per venti anni al sei per cento. Lei ha tempo venti anni, venti anni dico, alla completa restituzione. Ma non solo: se non potrà pagare le rate e anzi avrà bisogno di altro denaro, glielo presterà alle stesse condizioni della prima volta.
Ormai, Remigio era quasi convinto; e il Pollastri, accortosene, proseguì:
— Vuole oggi stesso un acconto? Se non ce l'ha lui nel portafogli, quel che manca lo presterò io stesso al Lenzi. Vede come si fa tra amici, mio caro?
E, sbottonatasi la tasca di dentro della giubba, posò su la scrivania un portafogli di seta rossa ricamata a oro; l’aprì e fece vedere alcuni biglietti da cento lire:
— Noi non si chiacchiera per niente!
Remigio, ammirandolo, senza poter staccare gli occhi da quei biglietti, rispose:
— Lo so.
E sentendosi come gonfiare il cuore, aggiunse:
— Io non ne ho nè meno da cinque lire!
— Ma li prenda lei, dunque! Lo capisco che si trova imbarazzato. Faccia conto che siano suoi.
Ci mancò poco che non allungasse la mano; tuttavia la timidezza lo ritenne; e, sentendosi troppo confuso per decidersi si alzò da sedere. Allora, anche il Pollastri si alzò; e gli disse, accarezzandolo sotto il mento:
— Rivenga domani, e troverà tutto pronto. Le dirò io quanto deve farsi dare. Rifletta, mio caro, che per un’ipoteca a una banca ci vogliono troppe spese, e perciò non ne varrebbe la pena. Ma non solo le spese: non si sa, anche, quante garanzie! E, poi, almeno cinque o sei mesi d’attesa, supposto e concesso che una banca, per esempio il Monte dei Paschi, sia disposta a fare l’operazione.
Remigio tornò alla Casuccia, mettendoci almeno tre volte più del solito. Quasi gli girava la testa, la gente gli dava il senso di un’oppressione pesante; e sentiva il bisogno di stare zitto.
Ma, la sera, prima di cenare, mentre Ilda diceva che in casa non c’era più petrolio, parlò con Luigia. E, cominciando ad intendersi, ambedue capirono abbastanza che il Pollastri, invece di metterli d’accordo, procurava di accrescere e di motivare la loro recíproca diffidenza. Remigio esclamò:
— Ed io che mi fidavo di lui, perchè da tanti anni conosceva mio padre!
La matrigna, che fu l’ultima a convincersi, fu però la più risoluta; e gli giurò di far tutto nel modo più chiaro possibile. Intanto, però, pur promettendosi di non farsi più mettere su l’uno contro l’altro, decisero d’incaricare lo stesso il Pollastri dell’inventario; temendo che egli, se non gli avessero fatto fare nè meno quello, avrebbe mandato un conto da milionarii.
Del resto, tutto quel denaro che si sentiva mettere a sua disposizione, a Remigio faceva piacere. Giacomo lo aveva tenuto sempre come un poveraccio, e lo stipendio dell’impiego non gli era bastato nè meno a pagare tutta la retta alla padrona di casa. Quel denaro, più sognato che posseduto, ma che poteva procurarsi, non importa a quali conseguenze, lo incoraggiava.