Il podere (Tozzi)/V
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V.
Parecchi conti, più o meno veri ed esatti, giunsero in una settimana alla Casuccia: il fabbro avanzava tre annate, il carraio due, il droghiere aveva da riscuotere ottocento lire, il farmacista settecento, il dottor Bianconi novecento; altri medici, chiamati a consulto, cento; poi, c’era da pagare la cera del trasporto funebre, la cassa, il prete, il marmista per la pietra sepolcrale: in tutto, tremila lire, da aggiungersi alle ottocento dei diritti di successione.
Anche Remigio andò da un avvocato; perchè gli pareva che il Pollastri avesse un modo di fare tutt’altro che fidato. Al ginnasio, aveva conosciuto uno studente del terzo anno di liceo; e poi s’erano rivisti per la strada. Questo suo amico, al quale egli non aveva più parlato da anni, era l’avvocato Mino Neretti.
Remigio sperava di spendere meno che da un altro, e di essere consigliato bene. Tuttavia, la prima volta che gli riparlò, tremava e non riesciva a spiegarsi; arrossendo, e arrabbiandosi.
Il Neretti lo guardò, ridendo e battendogli una mano sopra una spalla: bastò questo perchè Remigio sentisse per lui un'amicizia capace di tutto. Allora l'avvocato, accorgendosene con piacere, lo fece passare dentro la sua stanza; e, dettogli che si mettesse a sedere, picchiettando con la costola di un piccolo codice rosso sopra la scrivania tutta seminata di fogli e di libri aperti, lasciati l'uno sopra addosso all'altro, lo rimproverò:
— Dovevi venire subito da me, e non andare dal notaio; e, poi, dal notaio Pollastri! Quello è un imbroglione che ti mangerà ogni cosa.
Remigio, spaventato, sentì come addentarsi fino al cuore.
— Se tu vuoi che io mi occupi delle tue faccende, prima liberati dal Pollastri; e lascia parlare me alla tua matrigna. Se credi, le scrivo subito una lettera; per invitarla a venire qui. Vi accomodo io! Ma, piuttosto, c'è un'altra cosa molto più grave... Tu, forse, ancora non la sai; ma è bene che t'avverta.
Il Neretti smise di picchiettare con il codice; e, riponendolo nel punto più sgombro della scrivania, proseguì;
— Giulia, quella ragazza che teneva in casa tuo padre, ti fa causa.
Il giovane, impallidendo, si alzò di scatto:
— Mi fa causa?
E tentò sorridere, per essergli simpatico e per mostrarsi fiducioso di lui:
— Come può farmela?
Il Neretti, burlandosi dei modi di Remigio, vedendolo così esaltato e nello stesso tempo smarrito, aggiunse con un dispiacere sincero, perchè era buono:
— Dice che avanza da te ottomila lire.
Remigio rimase così sottosopra, che non capì più niente. L'avvocato, lasciando prima che quell'emozione diminuisse, lo richiamò in sè minacciandolo; anche con lo scopo di conoscere, per sua curiosità, se aveva ragione o torto:
— Le deve avere, sì o no?
— Se le dovesse avere, gliele darei. E come l'hai saputo?
Il Neretti battè il pugno su la scrivania, come se non gl'importasse nè meno di sfondarla:
— Di questo non te ne devi occupare.
Ma, per attenuare l'effetto che gli vedeva anche nel viso, aggiunse:
— Ho visto la domanda per ottenere il gratuito patrocinio, che fa il suo avvocato, il Boschini.
— E allora?
— Allora, aspetteremo; e noi ci opporremo. Vedremo le ragioni che portano! Sei sicuro che tuo padre non ha fatto testamento?
Il giovane si mise una mano sul cuore palpitante; e disse, provando un certo piacere:
— Ormai, ne sono sicuro! Il Pollastri me lo avrebbe detto.
L'avvocato, appoggiandosi alla poltrona, di traverso, e arricciandosi i baffetti, stette un poco a pensare; poi, disse:
— Non capisco perchè anche un sensale ti faccia causa per dugento lire.
— A me?
Il Neretti, arrabbiandosi, gridò:
— A me, forse? Non sei tu Remigio Selmi, erede del fu Giacomo?
E fece una sghignazzata. Remigio, mortificato, rispose;
— Sì, son io.
L'avvocato, allora, sorrise: ingenuo fino a quel punto non lo avrebbe creduto mai. Ma si propose di aiutarlo il meglio che fosse possibile.
— L'avvocato di questo sensale è lo Sforzi.
— E come faccio io a trovare questi denari? T'ho detto, appena entrato, che mi sono arrivate tremila lire di conti da pagare... E, poi, ci sarà la successione!
— Eh, non ti spaventare! Oggi parlo io con il direttore del Banco di Roma; e ti faccio dare quel che ti occorre. Fai una cambiale... Per esempio, se ti ci vogliono tremila lire, tu devi fare, invece, una cambiale di tremilasettecento; così, fra tre mesi, alla prima scadenza, hai già il denaro per scontarne il quinto; aggiungendovi, di tasca tua, una sciocchezza; quaranta lire, mi pare, più lo sconto... Hai fatto mai le cambiali?
— No.
— Allora te lo insegnerò io. Il mio giovane di studio ti ci metterà la firma, che ci vuole per la banca.
E poi, dopo averlo guardato, aggiunse:
— Si vede che ancora non hai mai vissuto. Bada, però, con le cambiali ci vuole giudizio! E io mi presto a fartele fare soltanto a patto che tu badi ai tuoi interessi e che tu non sciatti il denaro. Ora, vattene; e torna domani; e bada di tenermi informato di ogni cosa, e di non fare niente senza il mio consiglio, perchè cercheranno d'imbrogliarti.
Gli dette la mano, e lo sospinse verso la porta foderata di lana verde.
Il Neretti si sedè, mangiucchiandosi l'unghia d'un pollice: Remigio gli aveva fatto ricordare tante cose del passato; e, sentendosi troppo distratto, invece di studiare un processo che aveva alle mani, si mise alla finestra a fumare. Aveva trentadue anni: piuttosto magro, con un ciuffetto nero e due anelli d'oro alle dita. Quando rifletteva, teneva la bocca chiusa e mandava a ogni momento il fiato giù per il naso, strizzando gli occhi rotondi; come se fossero stati troppo grossi per le loro palpebre.
Remigio si credette sicuro, persuaso e contento d'essere stato accolto confidenzialmente dal Neretti; quantunque ora fosse avvocato, ed egli avesse soltanto la licenza ginnasiale.
Ma quando, la sera, tornò alla Casuccia, dopo aver girato senza scopo tutto il pomeriggio, provò una delusione forte; e si chiese perchè era stato così espansivo e aveva dato importanza a cose che ora gli parevano insignificanti.
Alla matrigna non disse nulla dei due processi, volendo prima aspettare d'essersi messo d'accordo con lei; perchè gli venne il timore che avrebbe fatto come Giulia. Invece, Luigia sapeva già ogni cosa; perchè glielo avevano detto Giulia e il sensale, aizzandola contro il figliastro, mettendole tanta diffidenza da farla quasi decidere a ricorrere al tribunale. E, credendo che ancora non sapesse niente, stette zitta; temendo, ch'egli, preso dalla collera e comprendendo quali difficoltà stava per incontrare, non si mostrasse meno buono verso di lei e meno disposto a cedere con larghezza quando doveva essere stabilita la quota del suo usufrutto.
L'aia della Casuccia era già buia; tra la casa, la capanna e la parata. Egli si sentì salutare da Berto e da Tordo, che stavano seduti insieme sul primo scalone della loro casa. Moscino, che era figliolo di Picciòlo e fratello di Lorenzo, cantava tra i cipressi; e, tutto a un tratto, attraversò l'aia saltando: aveva quindici anni; magrolino, con la pelle annerita dal sole. Finchè non era proprio inverno, portava soltanto un paio di calzoni, che gli arrivavano ai ginocchi; la camicia sempre rimboccata, perchè mancavano le maniche. Ma la domenica si metteva un vestito nero, cucitogli dalla mamma; e, al collo, una ciarpa rossa a fiocco. Con il sigaro in bocca, andava a sentire la musica militare in città; e, la sera, cercava di tornare in compagnia di qualche ragazza; per darsi l'aria d'essere un giovanotto.
Remigio, che s'era fatto prestare la mattina due lire dalla matrigna, per le sigarette, si chiuse in camera e si mise a fumare.
Qualche lume, a Siena, s'accese; e siccome non si distinguevano bene le case, perchè c'era un poco di caligine, pareva che quei lumi stessero per aria, sospesi; e, quando Moscino si rimise a cantare, gli parve che tutto fosse stupido e insulso come quel canto.