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sua ultima punzecchiatura a un architetto insigne, e Serena ascoltava con gravità, da signorina diciottenne agguerrita dall'esperienza ad accogliere con senno e discernimento confidenze d'indole scientifica ed a largire in proposito maturi consigli. Ella indossava un abito di mussolina bianca a ricami, proprio come nell'epoca eroica delle sue gesta infantili; ma il velo azzurro svolazzante intorno alle falde del cappello, ombreggiava i riccioli capricciosi ancora, non più scapigliati.
Era una signorina, una signorina vera, che ricamava con dita esperte i piviali affidati a zia Domitilla Rosa, che sapeva di storia e di poesia, che leggeva di latino sui libri sacri di zia Domirò, di francese sui volumi profani di Pericle Ardenzi, e che, quando si arrabbiava, la qual cosa le accadeva assai spesso, preferiva aggrottare le ciglia o mordersi le labbra, anzichè lasciarsi uscire dalla chiostra dei nitidi dentini parole brutte di collera.
— Signorina, mi dia un consiglio - Pericle Ardenzi le disse, troncando a mezzo una dissertazione e fermandosi all'estremità più solitaria del giardino.
Il velo azzurro si gonfiò nell'aria e il nasetto ardito di Serena si arricciò tutto nello sforzo che ella fece di concentrarsi mentalmente.
— Vorrei perpetrare una corbelleria - e Pericle Ardenzi rideva, stropicciandosi le mani.