Il marito di Elena/II
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II.
Elena intanto, a braccetto di Cesare, andava bussando di porta in porta, dagli amici e dai parenti, in cerca di asilo. Dopo che sua zia donn’Orsola aveva rifiutato di riceverla, sotto pretesto di non guastarsi con donna Anna, i due amanti si erano persi d’animo.
Si trovarono di nuovo nella strada, a capo chino, incerti sul da fare, sgomenti. Elena aveva suggerito di andare a chiedere ospitalità alla madre di Roberto, un’altra parente lontana di don Liborio. Ma Roberto era corso a casa mezz’ora prima a dar l’allarme, e sua madre perciò aveva avuto il tempo di non esser colta alla sprovvista, e ricevette i profughi nell’anticamera, col candeliere in mano, e le ciglia in arco, fingendo di farsi la croce dalla sorpresa, protestando che non poteva alloggiare una ragazza, in coscienza, col figlio giovane che aveva in casa. Il vicinato avrebbe mormorato. Ella era molto scrupolosa su certe cose delicate. Il suo confessore era il padre Mansueto dei Cappuccini, il quale non era di manica larga. Roberto ascoltava dietro l’uscio. Elena un po’ pallida, col mento leggermente convulso dall’emozione, chinava il capo, e tirava pel braccio Cesare, il quale cercava di insistere balbettando, col cappello in mano, quasi chiedesse l’elemosina, evitando gli occhietti acuti della sua interlocutrice. Costei, quando li udì sgattaiolare tastoni per le scale al buio, mise un sospirone, e disse al figliuolo, che allungava il capo dall’uscio:
— Finalmente! se ne sono andati!
— Ci mancava quest’altra! osservò Roberto. Ho avuto buon naso, ho fatto bene a prevenirvene. Chi sa quando si sarebbe aggiustato il matrimonio. E intanto ci toccava mantenere la ragazza!
Mentre scendevano le scale, annientati, Elena si rammentò che al secondo piano ci stava una vedova, la quale passava per ricca, e andava a far la calza ogni sera dalla mamma di Roberto, dove si erano prese di una grande amicizia con donn’Anna. Cesare non seppe che dire, e tornarono a far le scale. La vedova era presente allorchè Roberto trafelato era giunto a portar la notizia, ed era fuggita, dimenticando persino la borsa coi gomitoli, a chiudersi in casa, raccomandando alla sua donna di non aprire a nessuno, se venivano, e rispondere che la padrona non era in casa. Pareva che il cuore le parlasse, e come udì il campanello esclamò senz’altro:
— Eccoli!
La donna dal buco della serratura rispondeva che la padrona era uscita, e come Cesare, sorpreso dallo incredibile avvenimento, tornava a insistere, supponeva un equivoco, domandava se sarebbe stata molto a tornare, ella suggerì:
— Di’ che sono in letto ammalata. Di’ che ho la terzana!
I due amanti volsero le spalle senza aggiungere altro, e sotto la porta si consultarono sul partito da prendere. Mezzanotte suonava lì vicino. Uno spiraglio di luce penetrava dall’uscio di un panattiere che dava nel cortile, e si udiva l’abburattare del frullone. Un cane chiuso nel magazzino della legna si mise ad abbaiare.
Cesare, senza dir nulla, abbracciò stretta la ragazza. Ella si svincolò dolcemente. Non si vedeva che la sua forma indistinta nell’oscurità, tutta vestita di nero, col velo sul viso. Poi disse: — Usciamo di qua.
— Dove andremo?
— Non lo so.
La strada era deserta e sonora pel primo freddo d’autunno, fiancheggiata a lunghi intervalli da fanali a gas che mettevano una striscia luminosa nelle vie laterali. Nelle facciate oscure delle case si apriva di tratto in tratto qualche finestra illuminata, silenziosa. Da lontano si udiva ancora il rumore delle carrozze nelle vie più frequentate.
Elena taceva; quando passavano sotto un fanale, si vedeva la punta dei suoi stivalini sotto il lembo della veste che teneva raccolta e un po’ sollevata da un lato colla mano destra. Cesare con voce esitante, le chiese:
— Mi ami sempre?
Ella gli strinse il braccio silenziosamente. Due questurini passarono rasente al muro, colle mani nelle tasche del cappotto.
Il giovane scoraggiato, a secco di risorse, balbettò:
— Andiamo a casa mia?
— No! diss’ella risolutamente.
Egli la guardava in silenzio, timidamente, quasi per chiederle se fosse già pentita. Elena, come gli leggesse negli occhi, riprese:
— T’amo sempre! Tornerei a fare quello che ho fatto per essere tua!
Egli voleva prenderle la testa fra le mani, con un bacio casto da fratello. Ma Elena lo respinse, mettendogli le mani sul petto, senz’aprir bocca. Solo di tratto in tratto gli si stringeva al braccio, camminandogli allato. Cesare non sapeva dove la conducesse, con una gran confusione nella mente, e il cuore che gli martellava. Elena teneva il mento sul petto. Tutto a un tratto si trovarono in via del Duomo. Cesare chiese infine:
— Dove andiamo?
— Da tuo zio don Luigi.
Il giovane si fermò su due piedi. Elena soggiunse:
— Lo so, tuo zio mi è ostile, ma non mi lascerà in mezzo alla strada. Vedrai.
Cesare voleva obbiettare che suo zio era severo ed inflessibile, e che egli non andava più a fargli visita dacchè aveva ricevuto una certa ramanzina a proposito della sua assiduità in casa dell’Elena.
— Tanto meglio! ribattè costei. Vuol dire che sa tutto! Una volta o l’altra bisognava pure far la pace con tuo zio, che è ricco. Vedrai che ti perdonerà.
Sulla via larga e buia luccicavano una miriade di stelle, nel cielo profondo e freddo. Elena le fece osservare all’amante, posandogli la testa sull’omero, col bel viso bianco rivolto verso il cielo.
Cesare picchiò risolutamente.
Lo zio Luigi non teneva domestici, dicendo che eran nemici salariati, e venne ad aprire in persona, tutto rabbuffato, pallido di freddo e di ansietà per quella visita notturna, cercando dieci minuti colla chiave prima di trovare il buco della toppa. Egli rimase attonito davanti al gruppo che gli si presentò appena aperto l’uscio.
Elena gli si buttò ai piedi, piangendo, chiamandolo caro zio.
Lo zio non ebbe bisogno di chiedere altro. Egli andava cercando dove posare il lume, tanto era turbato. Infine si sfogò contro di Cesare, dandogli dello scapestrato, dicendogli che era la rovina della famiglia, che sarebbe stato causa della morte di sua madre, che pensava a maritarsi senza sapere ancora nè leggere nè scrivere, e senza aver pane da mangiare. — Per conto suo, padrone! Il poco che aveva bastava appena a lui e a sua moglie! — Elena col bel viso in lagrime, gli teneva le mani, scongiurandolo di non lasciarla in mezzo alla strada. Infine lo zio sentì piegarsi le gambe strette fra le braccia di quella bella ragazza, riabbottonò sulla camicia scomposta il vecchio paletò che gli serviva da veste da camera, e finì col borbottare:
— Quanto a voi, restate pur qui, se volete, giacchè avete fatto la frittata. Non posso lasciarvi in mezzo alla strada! Mia moglie vi preparerà un letto alla meglio. Ma avete fatto una rovina! Cosa credete di aver preso? un terno al lotto, o il figlio di Vittorio Emanuele?
Cesare non osava levare il capo. — Tu vai a dormire in piazza! gli gridò lo zio. Va a riposarti oramai della gloriosa impresa! Hai fatto una bella cosa! E come lo spingeva fuori peggio di un cane, Elena sull’uscio prese la mano di Cesare, e gli disse:
— Ora son tua, sta tranquillo!
E per la prima volta lo baciò in fronte.
Cesare si allontanò passo passo, stretto nelle spalle, colle mani in tasca; e per la prima volta ebbe un’idea chiara di quel che aveva fatto, come una fitta al cuore, un misto d’angoscia, di tenerezza e di sgomento.
La sera innanzi, Elena, cogliendo l’istante in cui il babbo si bisticciava colla mamma, e Roberto guardava in silenzio le mani di Camilla, gli aveva piantato in faccia uno sguardo singolare, balbettando:
— Ho paura!
Era bianca come cera in quel momento; teneva chino il capo, su cui posavansi mollemente le folte trecce, e in quell’atteggiamento metteva a nudo un collo da statua, una nuca superba, piantata di capelli fini e folti, che si stendevano molto basso, e si arricciavano leggermente. Successe un lungo silenzio. Infine, mentre Roberto e Camilla scambiavano per caso qualche parola con voce discreta, Elena prese la mano di Cesare sotto il tappeto del tavolino, e gli disse:
— La mamma sa tutto!
Il giovane allibì. Pure egli l’aveva quasi indovinato alle labbra strette di donn’Anna, ad un che d’imbarazzato che pesava sui frequenti silenzii quella sera, ai monosillabi straordinari di Roberto, il quale tentava di rianimare la conversazione, alle occhiate lunghe che Camilla posava sulla sorella, senza aprir bocca, lasciando cadere mollemente le mani sui ginocchi. La partita finiva in quel momento, clamorosamente, al solito.
Donn’Anna, suo marito e Camilla parlavano tutti insieme. Lo stesso Roberto s’era lasciato andare a prender parte alla discussione animata con dei cenni del capo.
Cesare domandò sottovoce.
— Come faremo?
— Io non lo so, rispose Elena. Aiutami tu! Era la prima volta che gli dava del tu, siffattamente era turbata. La conversazione cadde ad un tratto.
Don Liborio aveva segnato la partita sul registro apposito, scrupolosamente. Quindi posò il berretto ricamato sulla tavola, accanto alla tabacchiera, tirò una presa, e si appoggiò alla spalliera della seggiola, con un grosso sospiro, per riposarsi. Donn’Anna riponeva le carte e i lupini che servivano a segnare i punti nella solita scatola di cartone.
L’innamorato taceva, guardando Elena, la quale teneva il mento sul seno, su cui luccicava ad intervalli una crocetta di vetro nero fra la trina della scollatura. Ella aveva un vestitino bianco che le andava come un guanto, un po’ aperto a cuore sul petto, e colle maniche sino al gomito. Gli occhi di lui passavano allora dalla figliuola alla mamma, la quale se ne stava quella sera colle labbra strette e le ciglia aggrottate, e non gli aveva detto una parola. Ella sgridava perfino l’Elena che non s’era affrettata a levarle di mano la scatola di cartone per andarla a riporre nello stipo, e le domandava dove avesse la testa quella sera!
Don Liborio caricava l’orologio diligentemente, fermandosi ad ogni giro per non guastar la macchina. Allora Cesare disse sottovoce all’Elena, accanto al pianoforte:
— Volete che mi allontani?
Ella gli rivolse uno sguardo lungo lungo, e rispose:
— Potresti farlo?
— Se tu vuoi.... Se tua madre....
— No! rispose Elena.
— No! ripetè poco dopo, fingendo di cercare fra le carte di musica. — Non potrei più stare senza vederti.
— Cosa faremo?
— Quello che tu vuoi; — rispose la ragazza semplicemente.
Egli si sentì penetrare e sconvolgere da quelle parole dettegli con un soffio di voce, mentre Elena evitava gli occhi di lui, gli voltava quasi le spalle. Ma la tentazione che quelle parole gli mettevano nel cervello lo spaventava. Elena vedendo che non rispondeva altro, ripetè:
— Quello che vuoi. Tutto quello che vuoi!
Cesare si fece rosso. Cercava far intendere che i suoi parenti non avrebbero acconsentito a dargli moglie, finchè non ci avesse uno stato, ed anche i parenti di lei avrebbero risposto di no.
— Allora?
Ei taceva. Elena ripetè: — Allora? Egli non sapeva che dire. Sentiva fisso su di lui quegli occhi penetranti.
— Fuggire?... balbettò.
Elena si recò le mani al petto, bianca come statua, e non rispose. Egli non fiatava, atterrito dalla parola che gli era sfuggita. Elena lo guardò in faccia un lungo momento, e chinò il capo lentamente.
Il cugino si alzò per aiutare Camilla a riporre in ordine gli aghi ed i gomitoli nel cassettino del telaio. Donn’Anna era scomparsa. In quel mentre Elena china sul pianoforte scriveva due parole sulla fascia di un giornale, e com’ebbe finito disse forte:
— Sentite, se domani non potete venire, mandatemi questa romanza.
Nella strada, al lume di un lampione, Cesare seppe che romanza gli chiedeva l’Elena.
«Domani sera, alle undici, dopo che sarà partito Roberto. Aspettami nella scala.»
Come gli aveva promesso, dopo una mezz’ora che stava aspettando, al buio, comprimendo colle mani il batticuore, la vide arrivare in punta di piedi, col viso così pallido e affilato che sembrava tagliare il velo. Aveva le mani fredde, ma non tremava. Gli disse con voce breve e sorda:
— Andiamo!
Egli voleva abbracciarla, ma la giovinetta stornò il viso dai baci che ei non osava darle, e soggiunse collo stesso tono:
— No, non ancora.
Il primo bacio doveva darglielo lei per la prima, sulla porta dello zio Luigi, dicendogli che ormai era sua.