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siffattamente era turbata. La conversazione cadde ad un tratto.

Don Liborio aveva segnato la partita sul registro apposito, scrupolosamente. Quindi posò il berretto ricamato sulla tavola, accanto alla tabacchiera, tirò una presa, e si appoggiò alla spalliera della seggiola, con un grosso sospiro, per riposarsi. Donn’Anna riponeva le carte e i lupini che servivano a segnare i punti nella solita scatola di cartone.

L’innamorato taceva, guardando Elena, la quale teneva il mento sul seno, su cui luccicava ad intervalli una crocetta di vetro nero fra la trina della scollatura. Ella aveva un vestitino bianco che le andava come un guanto, un po’ aperto a cuore sul petto, e colle maniche sino al gomito. Gli occhi di lui passavano allora dalla figliuola alla mamma, la quale se ne stava quella sera colle labbra strette e le ciglia aggrottate, e non gli aveva detto una parola. Ella sgridava perfino l’Elena che non s’era affrettata a levarle di mano la scatola di cartone per andarla a riporre