Il fanciullo nascosto/La veste del vedovo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il primo viaggio | Il voto | ► |
La veste del vedovo.
Viaggiavano senza affrettarsi, perchè la sposa, accovacciata e a volte sdraiata sul carro tirato da due piccoli buoi neri sonnolenti, era malandata in salute e bisognava usarle molti riguardi.
Lo sposo invece era un bel giovane robusto, rosso in viso, fin troppo rosso a volte, quando il sangue sovrabbondante gli saliva a ondate sino alla fronte alta sfuggente entro i capelli ricciuti polverosi; ma quando arrossiva così, per ogni piccola cosa, per la rabbia come per la gioia, diventava ancora più bello, e gli occhi neri limpidi rifulgevano come quelli di un bambino. E di bambino aveva anche il sorriso che lasciava vedere una chiostra di denti intatti chiusi come un solo anello d’avorio: mentre la donna sembrava una vecchietta, ma una vecchietta infantile anche lei, col viso affilato e bruciato, le palpebre azzurrognole così gravi che stentavano a sollevarsi e tardavano a riabbassarsi sui grandi occhi melanconici. Ma una volta aperti, i grandi occhi si volgevano attorno stupiti, come per raccogliere il riflesso delle cose più belle, e si animavano, si riempivano di luce, e tutto il viso allora si rischiarava e ringiovaniva d’improvviso.
Forse per questo il giovine, che guidava il carro seguendolo a piedi per non farlo sbalzare troppo, ogni tanto si chinava un poco e diceva:
— Giula, Giula, guardami, su. Non parli più? Hai sonno?
Giula sollevava lentamente le palpebre; e riprendevano il discorso interrotto; ma le cose da dirsi se le avevano già dette tutte e ben presto lei si stancava, riabbassava le palpebre e si lasciava cullare dal moto pesante del carro. Aveva sonno, sì: le pareva d’essere in una culla, in una barca, e che tutto fosse un sogno, la vita passata, il presente, l’avvenire.
Perchè il sole già forte di maggio non le facesse male, un grosso lenzuolo di lino era stato disteso fra due pertiche da un lato del carro, e così questo, col suo lento sobbalzare nello stradone coperto di ghiaia azzurrognola, tra il verde fitto dell’altipiano selvaggio, sembrava davvero una barca che andasse con difficoltà in un mare mosso. L’illusione del mare era accresciuta dal cerchio perfetto dell’orizzonte, azzurro di vapori, dai quali salivano grandi nuvole argentee che presto si scioglievano sul cielo caldo percorso a tratti dal vento di levante. Quando il vento sostava, tutto ritornava immoto, a perdita d’occhio, e macchie e macchie, e pietre e pietre si seguivano e si circondavano fra loro.
Si saliva insensibilmente. Un punto nero apparve in lontananza in cima alla linea bianca dello stradone, su uno sfondo di nubi correnti: il vento diventava sempre più caldo e odoroso e la donna si sollevava, con le narici diafane agitate da un lieve fremito, respirando forte quell’aria selvaggia e pura: aria di passato, di giovinezza e d’amore.
— Giula, Giula, come andiamo? Alza quelle nuvole. Hai sonno ancora? Siamo a metà strada e nonna adesso comincia già ad accendere il fuoco e a riempire la scodella di grano per augurarci la buona fortuna. Giula, siamo a metà strada. Ecco il nuraghe di Mesu Caminu....
Ma Giula riabbassò tosto le palpebre che aveva sollevato a metà e anche l’uomo diventò pensieroso.
Dopo alcuni passi, egli parve voler dire qualche cosa; arrossì, chinò un poco la testa e la scosse come per mandar giù tutto quel sangue che gli montava dal cuore, e guardò lontano, davanti a sè, verso il punto nero che cresceva, cresceva, che pareva chiudesse con una muraglia la strada. E la donna anche lei volse la testa, piano piano, guardando lassù. Pensavano entrambi alla stessa cosa, ma l’uno cercava di nascondere all’altro il proprio viso per nascondere il proprio pensiero. E un senso di soffocamento li vinceva, come se la strada fosse davvero ostruita e di lì non si andasse avanti.
Lassù, nel nuraghe, un anno avanti, di quei tempi, era stato trovato ucciso, nudo, sfregiato, un uomo, un ricco massaio vedovo che aveva domandato Giula in moglie. In quel tempo Giula era una ragazza forte; aveva allevato lei, orfana, i suoi cinque fratellini poveri e da sola era capace di pulire la farina e impastare e cuocere il pane di tre ettolitri d’orzo. Il vedovo, suo vicino di casa, aveva bisogno di una donna così, da fare il pane ai suoi servi, da custodirgli la casa senza pericolo che la sua roba venisse decimata: di una serva fedele, insomma, che costasse poco. Lui morto, infatti, Giula se n’era andata a Nuoro a servire, con due dei suoi fratelli, presso un altro ricco padrone, che non era vedovo, però, questo, anzi aveva una bella moglie che a cinquant’anni era gravida del decimo figlio, e coi fratelli di Giula contava sette servi appena bastanti a badare alle sue greggie, ai porci, ai cavalli, ai boschi di soveri.
Nei primi tempi a Giula era sembrato di trovarsi in mezzo al mare, in quella casa agitata; il rumore della culla rispondeva a quello della mola, i ragazzi la spingevano di qua e di là, incontrandola nelle loro corse che il sonno solo, alla notte, fermava: ma poi la padrona le aveva assegnato il suo còmpito, e la monotonia del suo lavoro aveva disteso un velo intorno a lei, fra lei e gli altri abitanti della casa. Giorno e notte puliva farina d’orzo e faceva il pane per i servi.
In autunno fu sentita a cantare, accompagnandosi al rumore eguale e dolce dello staccio. Erano sempre quattro versi, ed erano così monotoni che l’asinello intorno alla mola si fermava di tanto in tanto e si addormentava. Per svegliarlo l’altra serva che cullava il bambino nell’angolo della cucina attigua sporgeva la testa e urlava altri quattro versi in risposta a quelli di Giula. E Giula sollevava meravigliata le palpebre nel viso pallido di farina, svegliandosi dal suo sogno.
Allora tentava di ricordare altri versi, e cantava una battorina nuorese. A sa bessida ’e s’istella, 1
bessi, bella, a sa bentàna,
pro ti cumponner, galàna,
chin s’amante....
Ma l’asinello si fermava di botto, addormentato, e l’altra serva urlava più forte:
A sa bessida ’e s’istella, 2
bessit su mazzone a runda,
sos chi azes muzere bella
sonadebolla sa trumba....
Insomma in quella casa non si poteva sognare, nè di giorno nè di notte. Di notte si cuoceva il pane, e il suo odore si spandeva lontano col rumore monotono della pala battuta dentro il forno e col chiaccherio delle donne sedute per terra a stendere a furia di ditate le grandi focacce grige di farina d’orzo. Giula infornava. Era diventata pallida e magra. La farina d’orzo corrode chi la respira di continuo, e la vampa continua del forno acceso, la vampa calma inesorabile che va contro il viso e il petto della donna seduta per terra protesa a combattere con le pale il pane che si gonfia e s’agita e palpita come cosa viva, brucia e consuma, specialmente se la donna ha anche dentro di sè un altro fuoco e altre cose da combattere.
E Giula, assonnata, febbricitante, guardava in fondo al forno coi suoi occhi che riflettevano la fiamma; ma più che i lunghi pani lividi viventi vedeva agitarsi le sue visioni interiori. Erano pietre e pietre, livide in un altipiano tinto di rosso dal chiarore di un tramonto tragico; e tutto il forno rotondo con la buca bassa le ricordava il nuraghe dove era stato trovato nudo sfregiato il cadavere del vedovo.
Così si consumava; finchè un giorno un altro suo antico pretendente aveva mandato a chiederle, con uno dei fratelli di lei, se lo voleva ancora. Non era ricco come il vedovo, il nuovo antico pretendente; era un pastore di capre, un orfano anche lui raccolto bambino da una vecchietta ch’egli chiamava nonna; ma nella sua casetta c’era poco da lavorare, appunto perchè lui non aveva servi nè cavalli, e lassù Giula avrebbe potuto riposarsi, respirare l’aria della montagna natia e guarire.
Ella rispose di no; ma i fratelli, i due servi pastori presso lo stesso padrone di lei, e gli altri tre che lavoravano anch’essi sparsi di qua e di là pel mondo, si riunirono un giorno presso di lei per consigliarle di accettare. E la guardavano, tutti e cinque intorno a lei come quando da bambini aspettavano ch’ella distribuisse loro il poco pane e le chiedevano l’acqua e le altre cose necessarie alla vita. Allora disse di sì.
Il giovane era sceso a sposarla, e adesso se la portava via sul suo carro steso d’erba e di felci, e dopo che s’erano dette tante cose, sulla gente del paese, sui padroni di lei, sui fratelli pastori (i quali avevano adornato i piccoli buoi sonnolenti del carro nuziale come si usava negli antichi tempi, con arance ficcate nella punta delle corna e tralci di pervinca intorno ai colli flosci dondolanti), adesso tacevano, guardando verso il nuraghe in cima alla strada.
*
Arrivati sotto il nuraghe sostarono. Era il punto più elevato dell’altipiano e di lassù si vedeva il mare. Il luogo intorno era triste, sparso di macigni e di rovi, come desolato ancora dagli avanzi di una battaglia di giganti: eppure tutti quelli che passavano là sotto usavano fermarsi, specialmente nel tempo di sole forte, perchè l’ombra del nuraghe, in quel luogo senz’alberi, invitava alla sosta. I due sposi seguivano l’uso comune.
L’uomo era ritornato allegro come Giula lo aveva conosciuto molti anni prima; di un’allegria dolce e selvaggia, col viso fiammante, gli occhi a momenti teneri, a momenti crudeli, come quelli dei fanciulli che si divertono. Parlava forte, ma la sua voce si sperdeva, divorata dal grande silenzio attorno; un silenzio che stupiva Giula, entro la cui testa ronzavano ancora i rumori della casa del suo padrone. Pareva d’essere in cima a una montagna, in un’ora di quiete quando il vento dorme e laggiù all’orizzonte anche le nuvole dormono adagiate sulla culla del mare.
Qualche cosa di primordiale era intorno e il mondo lontano, il paese lassù, la città laggiù, i padroni, i servi, i ricchi e i poveri, le leggi degli uomini, non esistevano più.
Giula scese dal carro e si scosse le vesti: era piccola ma ben fatta nonostante la sua estrema magrezza, e quando si sciolse il fazzoletto apparve il suo collo bianco venato di azzurro, la treccia pesante che le scendeva dalla nuca. Era bionda, d’un biondo bruciato, brunito del fuoco del forno. L’uomo la guardò e trasalì.
— Giula, — le disse, mentre tirava giù dal carro la bisaccia, — ti rammenti?
Si guardarono sorridendo, e fu il momento più felice di quella prima giornata di nozze.
— Adesso faremo il banchetto, — egli disse, traendo le provvigioni dalla bisaccia.
Sedettero per terra, in mezzo ai cespugli d’oro dei fiori di San Giovanni, e mangiarono.
Di tanto in tanto egli le prendeva una mano e gliela stringeva forte, sorridendole ancora, coi bei denti scintillanti fra le labbra carnose. La costrinse a bere, sebbene a lei non piacesse, poi la baciò sulla bocca per asciugarle dalle labbra il vino.
— Adesso bisognerebbe cantare; ma e con chi? Giula, pochi invitati ci sono, al nostro banchetto.
Si alzò un momento e si guardò attorno, per assicurarsi che erano soli: lei lo guardava dal basso, così alto su lo sfondo azzurro davanti a lei, e le pareva sempre di sognare. Le tornavano in mente le battorinas che cantava laggiù, fra il rumore monotono dello staccio e della mola, e aveva l’impressione che la voce rude della sua compagna di lavoro la traesse dal sogno.
— Cantare, ma con chi? Giula, che sponsali da orfani abbiamo fatto, — egli disse rimettendosi giù accanto a lei, e le si strinse tutto attorno deponendole la testa sul grembo, infantilmente. Giula lo guardava dall’alto, adesso, materna eppure pallida, agitata dentro da un batticuore che cresceva, cresceva sempre più, a misura ch’egli le stringeva la mano e sollevava il viso sulle ginocchia di lei per guardarla: un batticuore simile a uno scalpitare di cavalli che si avvicinavano, si avvicinavano e dovevano passarle sopra.
Egli le si stese davanti, come spiegandosi tutto davanti a lei per offrirsele meglio, sollevò le braccia e attirò la testa di lei sul suo viso. Pareva volesse dirle un segreto.
— Giula, ti rammenti dunque, la prima volta che ci siamo baciati? Era qui, ti ricordi? Avevi quindici anni e io sedici; tuo padre aveva il gregge qui, e siamo venuti per la tosatura. Sì, ti ricordi, uccello mio? E c’era anche lui, il vostro vicino di casa, che non era ancora vedovo e non pensava a te.... Ma perchè non mi vuoi baciare? Pensi ancora a lui?
Giula cessò di scuotere la testa e si abbandonò, a occhi chiusi, con le labbra tremanti. Tutto il viso aveva preso un colore bluastro, e sotto le palpebre si era scavato un cerchio nero.
— Giula, Giula, — egli disse spaventato, sollevandosi e sollevandola fra le braccia. — Guardami.
Lei riaprì gli occhi e gli sorrise: ma piangeva. Allora egli ritornò fanciullo, come quella prima volta dieci anni prima, e si rimise giù, e le tirò le treccie facendole del male per farla sorridere, e la baciò sul collo, le contò le dita, finse di rubarle l’anello. E ricominciò a parlare della gente del paese, e dei fratelli di lei, e della vecchia nonna di lui che stava nella casetta ad attenderli col caffè pronto e i dolci per i vicini di casa e i parenti e gli amici, e di una donna che s’era messa in mente di fargli sposare una vecchia zitella zoppa ricca di quaranta vacche e di tre alveari.
— Ma il mio alveare sei tu, sei tu, Giula! Quanto mi hai punto con le tue api! Ma quanto miele, uccello mio, uccello mio.... Guardami, Giula, non sei più arrabbiata con me?
Ella taceva; lo guardava in fondo agli occhi, fisso, come guardava una volta dentro il forno; e il viso le si era fatto di nuovo bianco, poi roseo ai baci di lui. Era bella come dieci anni prima; ed egli piano piano si alzò sulle ginocchia, la prese tesa sulle braccia, balzò così con lei e la portò dentro nel cerchio delle rovine del nuraghe, per nasconderla anche alla solitudine e al silenzio attorno.
*
Giula sembrava morta: morta di felicità, di terrore. Le pareva che i cavalli di cui aveva sentito lo scalpitare lontano e poi sempre più vicino le fossero già passati sopra calpestandola. Le rimaneva solo la voce per domandare una cosa.
— Cosma, cuore mio, adesso siamo sposi, adesso che m’hai preso puoi dirmi tutto, — mormorò, abbandonando la testa con le treccie disfatte sulla spalla di lui. — Sei tu che lo hai ucciso? Dimmelo: adesso siamo la stessa carne e io non posso tradire il tuo segreto. Dimmelo; tanto in fondo al cuore lo so.
Egli le sollevò il viso e si guardarono ancora. Gli occhi di lei erano pieni d’ansia, di terrore e di speranza: occhi con cui l’anima sospesa sull’abisso invocava ancora la salvezza che pure sapeva impossibile. Egli la guardava: si sentiva perduto, ma l’abisso attirava anche lui.
— Sì, — disse finalmente. E chiuse gli occhi.
Ella non gridò, non si mosse.
— Cosma, cuore mio, senti, perchè lo hai denudato, perchè lo hai sfregiato?
— Perchè era lui che voleva spogliarmi, voleva sfregiarmi, togliendomi te. E tu, pure, mi avevi spogliato e sfregiato, lasciandomi perchè ero povero e lui ricco.... Ecco perchè....
— E le vesti, dove sono?
— Le ho nascoste qui, nel fondo d’una buca del nuraghe. Qui, — disse volgendo il viso per cercare ancora con gli occhi il posto: e quando tornò a guardarla la vide di nuovo azzurra in viso, con le palpebre sollevate immobili e le pupille che salivano in su come a ricercarle per nascondersi.
— Giula! Giula!
Balzò di nuovo con lei fra le braccia e tornò fuori; l’adagiò sull’erba, tra i fiori di San Giovanni, le abbassò con le dita le palpebre, preso dal terrore degli occhi bianchi senza sguardo che non fissavano più nulla sulla terra.
E non piangeva, non gridava; ma non si decideva a rimetterla sul carro e portarla così, vestito da sposo, al suo paese. Rimase lì tutto il giorno: il tramonto tinse di sangue le macchie, le pietre intorno; poi sparve anche l’ombra del nuraghe e tutto fu un’ombra intorno alla donna morta. Seduto sull’erba egli la guardava, e gli pareva che ella dormisse finalmente, dopo tante notti di fatica, con le treccie confuse con l’erba, le mani stanche e tristi di lavoro.
— Perchè l’avevi accettato? Era forse più uomo di me, lui? — le domandava; e pensava alla vecchia nonna che aspettava col caffè e coi dolci e che adesso doveva cucirgli anche i vestiti da vedovo.
Infine sentì la rugiada cadere e pensò che poteva far male alla povera Giula. Tornò a sollevarla un’ultima volta e la depose sul carro, la coprì col lenzuolo abbassandolo come un’ala sopra di lei. E tolse le arance e le pervinche dai buoi e gliele mise accanto. Poi aggiogò le bestie al carro, ma non si decideva a partire.
Era già sera; la luna saliva sopra il nuraghe, ed egli vedeva la sua ombra nera sotto di sè. Era vedovo anche lui; ma senza servi, senza beni, senza figli. Non aveva bisogno d’una seconda moglie; ma un poco di fatica si poteva risparmiare alla vecchia nonna. Allora, senza sapere veramente cosa si facesse, rientrò nel nuraghe e frugò e riprese le vesti del vedovo ucciso. E le portò con sè in paese, entro la bisaccia, ai piedi della sposa. Al traballare del carro, al chiarore della luna, la bisaccia gonfia si agitava come se dentro ci fosse un agnello vivo; ed egli in fondo pensava che Dio aveva voluto tutte le cose accadute in quel giorno per castigarlo del suo delitto. Sì, era Dio che gli aveva inspirato di nascondere le vesti in quel posto, per riprenderle e fargliele indossare in segno di castigo.
*
Infatti le vesti gli furono riconosciute addosso ed egli fu preso, confessò e fu condannato.