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la veste del vedovo | 131 |
Insomma in quella casa non si poteva sognare, nè di giorno nè di notte. Di notte si cuoceva il pane, e il suo odore si spandeva lontano col rumore monotono della pala battuta dentro il forno e col chiaccherio delle donne sedute per terra a stendere a furia di ditate le grandi focacce grige di farina d’orzo. Giula infornava. Era diventata pallida e magra. La farina d’orzo corrode chi la respira di continuo, e la vampa continua del forno acceso, la vampa calma inesorabile che va contro il viso e il petto della donna seduta per terra protesa a combattere con le pale il pane che si gonfia e s’agita e palpita come cosa viva, brucia e consuma, specialmente se la donna ha anche dentro di sè un altro fuoco e altre cose da combattere.
E Giula, assonnata, febbricitante, guardava in fondo al forno coi suoi occhi che riflettevano la fiamma; ma più che i lunghi pani lividi viventi vedeva agitarsi le sue visioni interiori. Erano pietre e pietre, livide in un altipiano tinto di rosso dal chiarore di un tramonto tragico; e tutto il forno rotondo con la buca bassa le ricordava il nuraghe dove era stato trovato nudo sfregiato il cadavere del vedovo.