Il buon compatriotto/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera di Costanza.

Costanza e Ridolfo.

Costanza. Eh via, caro sior Ridolfo, no la se staga a far da la villa1.

Ridolfo. L’assicuro, signora, che io non so di che mi parlate.

Costanza. Noi cognosse siora Bettina?

Ridolfo. Io non conosco la signora Bettina.

Costanza. Noi s’arecorda più a Livorno?

Ridolfo. Sono stato a Livorno, ma non ho mai sentito a mentovare la signora Bettina.

Costanza. Siora Betta gnanca?

Ridolfo. Nemmeno. [p. 368 modifica]

Costanza. Siora Isabella?

Ridolfo. Oh Isabella! Vorreste forse dire Isabella?

Costanza. Isabella, o Isabrutta, la cognosselo?

Ridolfo. Ho conosciuto a Livorno una signora che si chiamava Isabella.

Costanza. Veneziana?

Ridolfo. Sì, veneziana, ma che parlava toscano.

Costanza. Ghe piasevela?

Ridolfo. Così, e così: passabilmente.

Costanza. Gh’alo fatto l’amor?

Ridolfo. Perchè mi fate tutte queste interrogazioni?

Costanza. Che el me responda a mi. Gh’alo fatto l’amor?

Ridolfo. Sono cose passate, sono cose lontane. Ora ho i miei affetti tutti impiegati per voi.

Costanza. Ma se vegnisse a Venezia siora Bettina?

Ridolfo. Che importa a me della signora Bettina? Venezia è grande, potrebbe darsi che ella non sapesse di me, e che io non sapessi di lei.

Costanza. Ma se ghe fusse qualche impegno, bisognerave che i se trovasse.

Ridolfo. (Non so che cosa sappia costei. Mi mette in sospetto).

Costanza. (El se immutisce. Cattivo segno).

Ridolfo. La conoscete voi questa signora Isabella?

Costanza. Sior sì, per obbedirla. La cognosso, la xe mia amiga, e no xe mezz’ora che ho parla con ela.

Ridolfo. È in Venezia la signora Isabella? (con ammirazione)

Costanza. La signora Isabella è in Venezia. (con caricatura)

Ridolfo. (Questo vuol essere per me un imbroglio).

Costanza. Vorla andarghe a far una visita?

Ridolfo. Io non ne ho nessuna premura.

Costanza. E sì la lo aspetta con tanto de cuor.

Ridolfo. (La vedrei anch’io volontieri. Ma sarà meco in collera con ragione).

Costanza. Se la vol andar, mi gh’insegnerò dove che la sta.

Ridolfo. E dove abita la signora Isabella? [p. 369 modifica]

Costanza. L’abita in calle dell’orso che ve spulesa, al ponte del diavolo che ve porta.

Ridolfo. Signora, io non so perchè vi adirate?

Costanza. Eh patron caro, questo no xe gnente: no la sa chi sia, no la me cognosse gnancora. Vegnir in casa de una donna civil, de una vedua da ben, onorata, farme delle mignognole2 per tirarme zoso, prometterme de sposarme, e aver impegno e aver obbligazion con un’altra? Xelo questo el trattar? Questo el proceder da cavalier? El xe un trattar da poco de bon, el xe un proceder da farabutto, e cospetto de diana, me farò far giustizia.

Ridolfo. (È una bestia costei). Cara signora Costanza, acchetatevi, ascoltatemi. Chi vi ha detto ch’io abbia alcun impegno colla signora Isabella?

Costanza. La me l’ha ditto ela, patron.

Ridolfo. Non è vero; v’assicuro che non è vero. L’ho conosciuta, ho trattato con lei, ma con indifferenza, senz’attacco del cuore, e molto meno della mia parola.

Costanza. (No so se gh’abbia da creder. Ma col tempo vegnirò in chiaro).

Ridolfo. (Convien ch’io dica così, altrimenti costei mi precipita).

Costanza. La senta, signor, voggio anca crederghe per un pochetto. No credo mai che una persona civil sia capace de trattar malamente, e de ingannar una donna. Ma se el me burla, se el me minchiona, poveretto elo. Alo mai prova che bestia che xe una donna co la xe in collera? Me védelo? Mi gh’el farò provar.

Ridolfo. Ma cara signora Costanza, lo sapete pure che voi siete l’idolo mio.

Costanza. Me vorlo ben?

Ridolfo. Vi amo con tutto il cuore.

Costanza. Me sposeralo?

Ridolfo. Sicuramente.

Costanza. Ma quando? [p. 370 modifica]

Ridolfo. Prestissimo.

Costanza. La senta, se poderave mandar a chiamar... O sia malignazo3: vien zente. A st’ora chi mai me vien a seccar.

Ridolfo. Fate gli affari vostri. Frattanto andrò di sopra nella mia camera, a scrivere una lettera per un affar che mi preme.

Costanza. Sior sì, che el vaga, e co l’ha scritto, ch’el vegna da basso, che finirò de dirghe quel che voleva dir. (si accosta alla scena)

Ridolfo. Vi ascolterò con piacere, e con desiderio grandissimo di soddisfarvi. Or ora sono da voi. (Manderò il servitore a far diligenza, per rinvenire dove abita la signora Isabella. Ora ch’ella è qui con suo padre, se avesse una buona dote, la sposerei mille volte più volontieri di questa vedova. (parte)

SCENA II.

Costanza e Musestre.

Costanza. Caro sior Musestre, ve son obligada del vostro amor; ma mi no fazzo nè ostaria, nè locanda. Savè che son una donna civil, che fitto do camere per inzegnarme a tirar avanti, ma mi no recevo in casa chi va e chi vien.

Musestre. So tutto, so chi la xe, so che la so casa no xe locanda, e se no la fusse chi la xe, e se la so casa no fusse una casa propria e civil, mi no gh’averave messo da ela quel cavalier.

Costanza. Oh sì dasseno; in quanto a questo ve son obligada. Sior Ridolfo xe un pulitissimo signor, e son contenta de elo, e spero che elo sarà contento de mi.

Musestre. No la vol mo farme sta grazia de tor in casa sta signora per amor mio?

Costanza. Con donne mi no me ne voggio intrigar.

Musestre. La me fazza sto favor. La la tegna per do o tre zorni. [p. 371 modifica]

Costanza. Mo che premura gh’aveu? Chi xela, cossa xela? Oe, sior Musestre, in casa mia potacchietti4 no ghe ne voggio.

Musestre. A mi la me dise ste cosse? Chi credela che sia mi?

Costanza. So che sè un galantomo, ma delle volte se se pol ingannar.

Musestre. Questa xe una signora onesta e civil; la xe una milanese che vien a Venezia per una lite; me l’ha raccomandada un amigo, un galantomo, una persona da ben, e no gh’è pericolo che ghe sia sporchezzi. La xe ela e el so servitor.

Costanza. Dove voleu che li metta?

Musestre. La me fazza el servizio de legarli per do o tre dì: ghe troverò po un altro logo, e la sarà sollevada.

Costanza. No so cossa dir, no voggio gnanca parer da esser ingrata con vu, perchè gh’ho obligazion. Che la vegna, che me inzegnerò.

Musestre. Grazie, siora Costanza. In verità la me fa gran piacer. Adesso i fazzo vegnir de su. Con so bona grazia.

Costanza. Comodeve.

Musestre. (Parte.)

Costanza. Lo fazzo mal volentiera, ma no ghe posso dir de no a sior Musestre. El xe stà elo che m’ha messo in casa sior Ridolfo, e se el me sposa, gh’averò a elo l’obligazion. Bisognerà che vaga a destrigar un pochetto la camera. E el servitor dove dormiralo? Per do o tre zorni el starà anca elo come ch’el poderà. (parte)

SCENA III.

Rosina, Musestre e Traccagnino.

Segue fra loro Scena come in soggetto: poi

SCENA IV.

Costanza e detti.

Segue fra loro come in soggetto.

Costanza parte: poi

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SCENA V.

Traccagnino e Rosina seguono; poi

Traccagnino. (Che non vuol disonorar la famiglia Batocchi.)

SCENA VI.

Ridolfo e detti.

Ridolfo. (Che genti sono queste!) (da sè indietro)

Rosina. Zitto, che vien zente. (a Traccagnino)

Traccagnino. (Tutto sì, ma servitor no.)

Ridolfo. (Oh stelle!) (con ammirazione vedendo Rosina)

Rosina. (Cessa védio!) (con ammirazione vedendo Ridolfo)

Traccagnino. Cossa xe sta. (osservando li due)

Ridolfo. Voi qui, Rosina?

Rosina. Son qua, patron.

Traccagnino. (A suo modo) L’è che me despiase che ghe son anca mi.

Ridolfo. Godo infinitamente di rivedervi.

Rosina. Anca mi dasseno gh’ho gusto d’averlo trovà.

Ridolfo. Chi è quel giovane ch’è con voi?

Rosina. Sto zovene? El xe un mio fradello.

Traccagnino. (Si contenta che gli dica fratello.)

Ridolfo. Siete venuta a Venezia per qualche affare?

Rosina. Sior sì, son vegnua a Venezia per un affar d’importanza.

Ridolfo. Se posso impiegarmi per voi, comandatemi liberamente.

Rosina. Manco cerimonie, sior Ridolfo carissimo; che se elo xe cortesan5, gnanca mi no son una pampaluga6. Bergamo no xe lontan centomile mia da Venezia, e no xe un secolo che s’avemo visto. M’intendela, patron, quel che voggio dir?

Ridolfo. Sì, cara la mia Rosina, capisco tutto. Conoscete voi la signora Costanza? la padrona di questa casa? [p. 373 modifica]

Rosina. Se la cognosso? No vorlo? Son qua alozada anca mi.

Ridolfo. (Maladetta la mia disgrazia!) Quel giovine, siete più stato in Venezia? (a Traccagnino)

Traccagnino. (Risponde di no.)

Ridolfo. Come vi piace questa gran città?

Traccagnino. (Che non gli piace, perchè ha sempre paura di cascar in canale.)

Ridolfo. Oh che apprensione ridicola! (ridendo)

Rosina. La parla con mi, patron: che intenzion gh’ala? Mi son vegnua a Venezia per elo.

Ridolfo. Aspettate, aspettate un momento. Mi piace infinitamente questo vostro fratello. (Ma non son persuaso che le sia fratello).

Rosina. (Che el parla pur col fradello, el sentirà adessadesso quel che saverà dir la sorella).

Ridolfo. Che nome avete quel giovane? (a Traccagnino)

Traccagnino. (Dice chiamarsi Traccagnin Batocchio.)

Ridolfo. Batocchio! Avete nome Batocchio?

Traccagnino. (Che ha nome Traccagnino, e che Batocchio è il cognome.)

Ridolfo. Signora Rosina, come va cotest’imbroglio? Voi vi chiamate di cognome Argentini, ed ei si chiama Batocchio?

Rosina. Sior sì, semo de casa Arzentini, e a mio fradello i ghe dise de soranome Batocchio.

Traccagnino. (Dice non esser vero; che ella si chiama Argentini, e lui Batocchio, e che tant’e tanto sono fratelli, perchè la sua arma è un batocchio d’argento.)

Ridolfo. Ho capito benissimo. Son persuaso della ragione. Signora Argentini, signor Batocchio, signori fratelli, mi consolo seco loro infinitamente.

Traccagnino. (Fa i suoi complimenti, esibendosi ecc.)

Rosina. Sior Ridolfo, discorremo un pochetto de quel che preme.

Ridolfo. Che cosa avete da comandarmi?

Rosina. S’arecordelo cossa ch’el m’ha promesso?

Ridolfo. Siete anche voi bergamasco? (a Traccagnino)

Traccagnino. (Dice di s), e che se ne gloria, e che se ne vanta.)

Rosina. Orsù, se el fa el sordo, me farò sentir. (forte) [p. 374 modifica]

Ridolfo. No, gioia mia, non fate. Ho per voi lo stesso amore, la medesima tenerezza. Ho un piacere estremo di rivedervi e di potervi dare più certe prove dell’amor mio. Ma per amor del cielo, non ci facciamo scorgere in questa casa. Ci va dell’onor mio, e molto più ancora del vostro. Stiamoci chetamente già che ci siamo, e che nessuno se n’accorga della nostra buona corrispondenza. Politica, gioia mia, politica. Zitto, signor Batocchio; fidatevi di me, e non temete. (Se mi danno tempo, le mando tutte del pari).

Rosina. No vorave che sior Ridolfo....

Ridolfo. Zitto.

Traccagnino. (Zitto.)

Ridolfo. Viene la signora Costanza.

Rosina. Se el credesse che la buttessimo in barzelletta...

Ridolfo. Zitto.

Traccagnino. (Zitto. Arrabbiandosi.)

SCENA VII.

Costanza e detti.

Costanza. Sior Ridolfo, me consolo con ela.

Ridolfo. Di che, signora?

Costanza. Gnente, gnente. (L’ho ditto, no la voleva in casa sta femena).

Rosina. Signora, non credo mai che prendiate ombra di me, perchè questo signore ha favorito di tenermi un poco di compagnia.

Traccagnino. (Zitto. Piano a Rosina.)

Ridolfo. (Brava costei davvero. Ora parla toscano perfettamente).

Costanza. Mi la sa che l’ho ricevuda in casa per servizio, ma in casa mia, la me compatissa...

Ridolfo. In fatti, signora Costanza, io son venuto ad alloggiare da voi, credendo di star qui solo.

Rosina. S’ella desidera che gli si levi l’incomodo...

Ridolfo. Ma trattandosi per pochi giorni, ed essendo una persona onesta, che viene accompagnata da suo fratello... [p. 375 modifica]

Costanza. Ha da vegnir anca un so fradello...

Traccagnino. (Dice che sicuramente ha da stare in quella casa anche lui.)

Costanza. Eh, per vu v’ho parecchià un lettesin in spazzacusina, e bisognerà che stè come che podè. (a Traccagnino)

Traccagnino. (Che in spazzacucina non ci vuole stare, che vuole una buona camera.)

Costanza. Certo! Anderò a intrigar una camera per un tocco de servitor?

Traccagnino. (Va in collera, perchè gli dice servitore.)

Rosina. (Zitto, patriotto, per amor del cielo). (a Traccagnino)

Ridolfo. Con permissione della signora Costanza, vado per un affare, e ritornerò quanto prima.

Costanza. Dove valo, patron?

Ridolfo. A consegnar questa lettera ad un mercante, perchè me la spedisca sicura.

Costanza. Tomeralo presto?

Ridolfo. Prestissimo.

Costanza. La s’arecorda che me preme fenirghe quel discorsetto.

Ridolfo. Preme anche a me moltissimo. Or ora ci rivedremo. Servo di lor signore. (Ho una curiosità ardentissima di rintracciare Isabella). (parte)

SCENA VIII.

Costanza, Rosina e Traccagnino.

Rosina. (Me par, da quel che vedo, che tra de lori i se l’intenda pulito).

Costanza. Se la vol restar servida, la vegna con mi, che la vederà la so camera.

Rosina. Verrò fra poco. (Mi permetta ch’io dica qualche cosa a quello sciocco del mio servitore). (piano a Costanza)

Costanza. (E so fradello quando l’aspettela? ) (a Rosina)

Rosina. (Verrà a momenti, e subito che verrà mio fratello, le leverò l’incomodo).

Costanza. (Sì, perchè l’ha sentio, che sior Ridolfo no vorave nissun). [p. 376 modifica]

Rosina. (È un signor compitissimo, mi pare, il signor Ridolfo).

Costanza. (Oh sì dasseno, el xe el più degno cavalier de sto mondo).

Rosina. (E mi pare che abbi per lei della stima e della parzialità non poca).

Costanza. (Per dirghe la verità, el gh’ha per mi della bontà e dell’amor).

Rosina. (Me ne consolo infinitamente).

Costanza. (Grazie alla so gentilezza).

Rosina. (È maritata, signora?)

Costanza. (Son vedua, per obbedirla).

Rosina. (Potrebbe darsi che ella passasse col signor Ridolfo alle seconde nozze).

Costanza. (Chi sa? No semo tanto lontani. Se le sarà riose, le fiorirà. Se se farà ste nozze, la magnerà anca ela dei mi confetti7). (parte)

SCENA IX.

Rosina e Traccagnino.

Segue la Scena a soggetto, e Traccagnino parte.

SCENA X.

Rosina sola.

Traccagnin xe un poco alocchetto; ma ghe vol pazenzia. In tel caso che son, gh’ho bisogno de qualchedun che fazza per mi, e se nol fusse un alocco, nol staria saldo alle figure che ghe fazzo far. Me preme de sentir qualche novità de sto sior Leandro. La speranza che gh’ho sora de elo, me fa sopportar i torti che me fa sior Ridolfo, e bisogna che procura, co dise el proverbio, che tegna el cesto8 su do scagni. E se darò el preterito in terra? Ghe vorrà pazenzia. Son zovene, qualchedun me farà levar su. No bisogna perderse de coraggio. [p. 377 modifica] Son in mar, navego per tutt’i venti. Chiapperò porto dove che poderò; e se la fortuna me xe contraria, co no me nego, me basta. Dirò co dise quello:

    » Quando s’ha principià ghe vol costanza,
    » E fin che ghe xe fià, ghe xe speranza.

SCENA XI.

Piazza.

Pantalon e Brighella.

Scena a soggetto.

SCENA XII.

Brighella, poi Traccagnino.

Segue fra loro come in soggetto, e partono tutti.

SCENA XIII.

Camera d’Isabella.

Isabella, poi un Servitore.

Isabella. Non è picciolo il combattimento ch’io soffro nell’animo, fra il pensiere che mi ricorda Ridolfo, e lo sforzo ch’io deggio far per obbedire a mio padre. Dovrebbe incoraggirmi a staccarmi dal cuore l’amante, sentirlo in novelli amori invischiato, ma non lo credo, e quand’anche il credessi, la sua infedeltà non basterebbe a distruggere la mia passione. Oh cieli! troppo tenera son io di cuore, e troppo facile alle lusinghe.

Servitore. La perdoni, è qua un signor che desidera riverirla.

Isabella. Sapete chi sia?

Servitore. No lo cognosso. El xe un forestier.

Isabella. Domanda di me, o di mio padre?

Servitore. El domanda de ela.

Isabella. Fatevi dire chi è. [p. 378 modifica]

Servitore. Ghe l’ho ditto ch’el me diga chi el xe, e nol lo vol dir.

Isabella. Ditegli che mi scusi, ch’io son qui sola, che non vi è mio padre, e ch’io non ricevo chi non conosco.

Servitore. Benissimo, ghe lo dirò. (parte)

Isabella. Chi mai può essere? Ridolfo non crederei. Sa ch’io sono in casa di mio padre, non si prenderebbe una simile libertà.

SCENA XIV.

Ridolfo e la suddetta.

Ridolfo. Possibile che non mi sia permesso di riverirvi?

Isabella. Oh cieli! Voi qui, signore?

Ridolfo. Son qui, impazientissimo di rivedervi.

Isabella. In casa mia non si viene senza la permissione di mio padre.

Ridolfo. Vostro padre non c’è, e voi potete accordarmi un momento di grazia.

Isabella. È molto, signore, che vi ricordiate ancora di me.

Ridolfo. Potete voi dubitare ch’io mi dimentichi dell’amor vostro e dell’amor mio?

Isabella. Veramente la parola che data mi avete, doveva farvene sovvenire anche prima d’ora.

Ridolfo. Subito che ho avuta nuova di voi, sono volato a protestarvi lo stesso affetto e la stessa stima.

Isabella. Che dirà ella, se arriva a saperlo, la vostra tenera albergatriee?

Ridolfo. Come, signora? Dove io pago il mio danaro, dovrò aver soggezione?

Isabella. Oltre al danaro, non le avete voi accordata la grazia vostra e il vostro cuore medesimo?

Ridolfo. V’ingannate, se ciò credete; il cuor mio è tutto vostro, e mi lusingo che non siate meco nè infedele, nè ingrata.

Isabella. Ah! signor Ridolfo, ora sono in balìa di mio padre; egli intende di voler disporre di me. [p. 379 modifica]

Ridolfo. E voi acconsentirete a privarmi del vostro cuore?

Isabella. Ne avete fatto finora sì poco conto, che non mi ho creduto in debito di custodirlo per voi.

Ridolfo. Quest’è un annunzio di morte, è un eccesso di crudeltà, è un motivo per me di disperazione.

Isabella. Se il vostro labbro dicesse il vero, parerebbe che voi m’amaste colla maggior tenerezza del mondo.

Ridolfo. N’avete dubbio, signora?

Isabella. Per dire la verità, non vi credo.

Ridolfo. Ah barbara, non mi credete? Sì, vi farò conoscere s’io dico il vero, o se io mento. Lo vedrete a vostro rossore, ma tardo sarà allora per me il vostro conoscimento; vedrete, sì vedrete s’io v’amo, allora quando vi cadrò a’ piedi svenato. Misero me! Isabella mia non mi crede. Ah sì, ora con questa spada... (mette la mano sulla guardia della spada)

Isabella. Fermatevi, signor Ridolfo. (lo trattiene)

Ridolfo. No, lasciatemi.

Isabella. Fermatevi, per amor del cielo.

Ridolfo. Barbara! Non credete ch’io v’ami?

Isabella. Sì, lo credo, acchetatevi.

Ridolfo. E sarà possibile ch’io vi abbia a perdere?

Isabella. Oh cieli! come mi potrò esimere dal voler di mio padre?

Ridolfo. Io non vi deggio dare consiglio. Consigliatevi col cuor vostro.

Isabella. Il mio cuore è troppo angustiato.

Ridolfo. Amore v’aiuterà a serenarlo.

Isabella. Ah! voglia il cielo ch’io non soccomba.

Servitore. Signora, xe qua el patron con dei forastieri.

Isabella. Mio padre. (a Ridolfo, con ansietà)

Ridolfo. Che volete ch’io faccia?

Isabella. Partite subito. Ma no; per di là l’incontrate. Partite per la scala segreta. (a Ridolfo) Voi compagnatelo per la via segreta, e per amor del cielo non dite niente a mio padre. (al servitore) [p. 380 modifica]

Servitore. La vegna con mi, signor: no la s’indubita gnente. (Poverazza! Le putte le me fa compassion). (parte)

Ridolfo. Non vi scordate di me. (partendo)

Isabella. Me ne ricordo pur troppo.

Ridolfo. Amatemi, ch’io vi son fedele. (partendo)

Isabella. Può essere, ma ne dubito ancora.

Ridolfo. Giuro al cielo! (tornando indietro con caldo)

Isabella. Partite. (con forza)

Ridolfo. Non mi fate fare degli spropositi. (Quando ci trovo delle difficoltà, allora m’innamoro come una bestia). (parte)

SCENA XV.

Isabella sola.

Possibile ch’ei m’inganni? No, sarebbe troppo inumano. Ma s’egli si protesta per me fedele, sarò io ingrata con esso lui? No, non fia vero; non lo sarò mai.

SCENA XVI.

Pantalone, Dottore, Leandro e la suddetta.

Pantalone. Oh fia mia, semo qua. Questo xe sior Dottor Balanzoni che ti cognossi, e questo xe sior Leandro so fio.

Dottore. (Fa il suo complimento a Isabella, e le presenta il figlio, come a lei destinato in consorte.)

Isabella. Mi sorprendono, signore, le vostre finezze, perchè ora mi giungono inaspettate. Scusatemi se non vi rispondo come dovrei. (Non so nemmeno quel che mi dica).

Pantalone. (La gh’ha del spirito, ma cussì all’improvviso la se vergogna un pochetto). (al Dottore)

Dottore. (Dice a suo figlio che faccia il suo dovere colla sposa.)

Leandro. Signora, la riverisco divotamente. (freddamente)

Isabella. Serva umilissima. (sostenuta)

Leandro. (Mi sta nel cuor la Contessa).

Isabella. (Non mi so scordar di Ridolfo). [p. 381 modifica]

Dottore. (a Leandro: che le dica qualche cosa di buona grazia.)

Leandro. Che dice ella di questo freddo? (a Isabella)

Isabella. (Scioccherie!) (da sè)

Pantalone. (Via, respondighe con bona maniera). (a Isabella)

Isabella. Ha fatto buon viaggio?

Leandro. Buonissimo. (In grazia della mia Contessina).

Isabella. (Poteva far a meno di venir qui a tormentarmi)

Pantalone. Cossa gh’astu? Gh’astu mal?

Isabella. Sì signore, mi duole il capo.

Dottore. (a Leandro: che le dica qualche cosa per divertirla.)

Isabella. No signore; non s’incomodi, che sarebbe tutto gettato.

Pantalone. Poverazza. Ghe dol la testa. (al Dottore)

Leandro. Sarà bene che le leviamo l’incomodo.

Isabella. Veramente avrei bisogno di riposare.

Dottore. (A Isabella.- che suo figlio ha studiata la medicina, e potrà farla guarire.)

Isabella. Potrebbe anche darsi che mi facesse star peggio.

Leandro. In fatti, quando le medicine non sono simpatiche, fanno più mal che bene.

Isabella. Ella parla prudentemente.

Leandro. Credo per altro di aver conosciuto il suo male.

Isabella. Quand’è così, saprà qual possa essere il mio rimedio.

Leandro. Lo so benissimo, e desiderando ch’ella risani, sarà bene ch’io vada.

Dottore. (Se vuol andar a scrivere qualche ricetta.)

Pantalone. Se el vol scriver, ghe darò carta, penna e calamar.

Isabella. No no, signor padre, tra lui e me ci siamo intesi che basta.

Leandro. Ci siamo intesi perfettamente.

Pantalone. Gh’ho gusto da galantomo; co l’è cussì, sior Dottor, l’anderà d’accordo.

Dottore. (Che suo figlio ha del talento, della penetrazione.)

Leandro. Andiamo, signor padre. Servitore umilissimo di lor signori.

Pantalone. Sior zenero, a bon reverirla.

Isabella. Serva sua divotissima. [p. 382 modifica]

Leandro. (Ella si risana s’io parto; ed io mi ristoro se posso rivedere la mia Contessa). (da sè, e parte)

Dottore. (A Pantalone, se è contento.)

Pantalone. Contentissimo.

Dottore. (Anche lui, e parte.)

Pantalone. E ti, xestu contenta? (a Isabella)

Isabella. Sì signore. Non posso essere più contenta di quel ch’io sono. (parte)

Pantalone. E anca mi me sento in giubilo dall’allegrezza, (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Farsi nuovo: vol. XII, 477; XIII, 319
  2. Vezzi, moine, spiega il Goldoni: vol. II, 505.
  3. Per maledetto: vol. VIII. 115 ecc.
  4. «Detto in senso disonesto, amoracci, amicizie disoneste od equivoche»: Boerio cit.
  5. Esperto, accorto, spiega il Goldoni: vol. I, 452; II, 121.
  6. Una scioccona: vol. XIII. 322 ecc.
  7. Il dialogo tra Rosina e Costanza è chiuso tra parentesi nell’ed. Zatta.
  8. Vol. XIII. 310 ecc.