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IL BUON COMPATRIOTTO 381


Dottore. (a Leandro: che le dica qualche cosa di buona grazia.)

Leandro. Che dice ella di questo freddo? (a Isabella)

Isabella. (Scioccherie!) (da sè)

Pantalone. (Via, respondighe con bona maniera). (a Isabella)

Isabella. Ha fatto buon viaggio?

Leandro. Buonissimo. (In grazia della mia Contessina).

Isabella. (Poteva far a meno di venir qui a tormentarmi)

Pantalone. Cossa gh’astu? Gh’astu mal?

Isabella. Sì signore, mi duole il capo.

Dottore. (a Leandro: che le dica qualche cosa per divertirla.)

Isabella. No signore; non s’incomodi, che sarebbe tutto gettato.

Pantalone. Poverazza. Ghe dol la testa. (al Dottore)

Leandro. Sarà bene che le leviamo l’incomodo.

Isabella. Veramente avrei bisogno di riposare.

Dottore. (A Isabella.- che suo figlio ha studiata la medicina, e potrà farla guarire.)

Isabella. Potrebbe anche darsi che mi facesse star peggio.

Leandro. In fatti, quando le medicine non sono simpatiche, fanno più mal che bene.

Isabella. Ella parla prudentemente.

Leandro. Credo per altro di aver conosciuto il suo male.

Isabella. Quand’è così, saprà qual possa essere il mio rimedio.

Leandro. Lo so benissimo, e desiderando ch’ella risani, sarà bene ch’io vada.

Dottore. (Se vuol andar a scrivere qualche ricetta.)

Pantalone. Se el vol scriver, ghe darò carta, penna e calamar.

Isabella. No no, signor padre, tra lui e me ci siamo intesi che basta.

Leandro. Ci siamo intesi perfettamente.

Pantalone. Gh’ho gusto da galantomo; co l’è cussì, sior Dottor, l’anderà d’accordo.

Dottore. (Che suo figlio ha del talento, della penetrazione.)

Leandro. Andiamo, signor padre. Servitore umilissimo di lor signori.

Pantalone. Sior zenero, a bon reverirla.

Isabella. Serva sua divotissima.