Il bel paese (1876)/Serata XXIII. - I marmi di Carrara

Serata XXIII. - I marmi di Carrara

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Serata XXIII. - I marmi di Carrara
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SERATA XXIII


I marmi di Carrara1.

Carrara e le sue cave, 1. — Trasporti de’ massi, 2. — Un barbaro spettacolo, 3. — L’antica e la moderna barbarie, 4. — Pregiudizi volgari contro il progresso delle industrie, 5. — Un po’ di statistica dell’industria carrarese, 6. — Un po’ di storia, 7. — Imprevidenza e disastri, 8. — Perizia e abilità dei carraresi, 9.


1. «Giunsi il 14 giugno 1871 a Carrara, la città del marmo per eccellenza.» Da questo marmo, sotto sembianze divine, nacquero così piene di candore e di dolcezza le Grazie, le Ore, la Carità, la Psiche, la Fama e l’Abele che resero sovrani nel regno dell’arte i nomi di Canova, di Finelli, di Bartolini, di Tenerani, di Rauch e di Duprè2. «Carrara è città che credo non pretenda alla fama nè di bella nè di ben situata. Ma, tanto, chi ci arriva non ha tempo di badarci, tutto compreso immediatamante da quel va e vieni di uomini, di buoi, di carri carichi di marmo, e assordato dalla incessante soneria degli scalpelli, dall’aspro stridore delle seghe, da cento rumori diversi; onde la vista e l’udito lo avvertono del pari ch’egli è giunto in una città eminentemente industriale, alla quale si deve chiedere più l’utile che il bello. Il mio sguardo del resto si curò ben poco di fissarsi sulle vie e [p. 380 modifica]sulle case, attratto immediatamente da quel gruppo maestoso e severo di ignude montagne, sulle cui verticali pareti larghe macchie di bianco candido, sopra un fondo biancoscuro, disegnano le cave, che resero a quella piccola città tributari i due mondi3. Era troppo tardi però perchè mi ci avviassi in quell’ora, e dovetti attendere il seguente mattino.

» Levatomi di buon’ora, attraversata la parte orientale della città, che era già tutta un brulichio di gente che andava e veniva, fui presto al Torano, un torrentaccio che passa in mezzo alla città; poi tosto, per lenta salita, là dove esso torrente è raggiunto dal suo confluente, detto Canale di Colonnata. In quel punto, per rimontare la corrente del Torano, bisogna piegare quasi ad angolo retto, ascendere verso occidente fin sopra il paese dello stesso nome, e di li ripiegare verso nord, dopo aver oltrepassato il confluente d’un altro fiumicello, che si chiama Canale di Pescina e discende da ovest. Il Canale di Colonnata ascende invece verso nord-est.

» Il teatro dell’industria carrarese è così ripartito quasi in due campi a occidente la valle di Torano; a oriente la valle di Colonnata, percorse ciascuna dal fiume o canale che ne porta il nome. A lato dei due fiumi corrono le strade, che, diramandosi in istraducole e sentieroli, conducono alle cave. Io mi misi su quella della valle di Colonnata, che passa sotto Miseglia.

2. » Qual via per carità! polverosa e fangosa ad un tempo, tutta infossature e ridossi, rilevata nel mezzo a schiena d’asino, fiancheggiata da due fosse parallele, cioè da due rotaje larghe e profonde, ben mi avvisava quali fossero i rotabili che erano usi a percorrerla, e quale spettacolo essi mi avrebbero offerto. Infatti non mi si fecero molto attendere. Eccone uno che discende, poi due, poi tre, infine una vera processione di quei carri cigolanti sotto il peso di formidabili massi, tirati da più paja di muscolosi buoi. Essi venivan giù barcollando in modo da incutere spavento. Sono carri quelli di rozza struttura, veramente ciclopici; e non avendo grossezza di ruote proporzionata all’enormità del peso, fanno quasi le veci di un vomere, affondando e raffondando le rotaje su quelle povere vie, che nessuno pensa sul serio a mantenere. [p. 381 modifica]

» Avevo già sentito a descrivere dallo zio Carlo, che fu per così lungo tempo a Carrara, lo spettacolo piacevole insieme e pauroso di quei convogli, ove tutto, massi e carri, uomini e buoi, tutto tien del ciclopico; ma vi assicuro che l’impressione non fu punto, come di solito avviene, diminuita dall’aspettazione. Fate il calcolo, miei cari, che un pajo di buoi tira da 6 a 7 metri cubici di marmo durante l’inverno, quando le strade sono più fangose, e da 12 a 13 metri cubici d’estate. Ma ci hanno dei monoliti destinati a grandi monumenti, i quali raggiungono fino i 1500 metri cubici. Per trascinare uno di questi pezzi ci vorranno almeno 115 paja di buoi».

«Impossibile!» gridò Giovannino: «un tal masso è una montagna».

«Impossibile? No davvero. Un masso di 1500 metri cubici non sarebbe che un monolito, il quale non avesse che 15 metri di lunghezza e 10 di altezza e larghezza. Però anch’io duro fatica a ritenere fattibile la cosa, benchè narratami da persona pratica e di tutta buona fede. Probabilmente in questi casi s’impiegheranno, non già carri tirati da buoi, ma gli argani o altri mezzi di locomozione. No ’l so. Ad ogni modo debbono essere casi assai rari anzi affatto eccezionali. È caso ordinario invece di abbattersi per via in carri tirati da 12 o da 16 paja di buoi, tutti aggiogati, un pajo dietro l’altro, e fanno, v’assicuro, un effetto sorprendente».

«Quei massi», riflettè Giovannino, «devono avere una grossezza di 120 a 160 metri cubici almeno. Pare impossibile che possano da mano d’uomo caricarsi sul carro».

«Eppure lo zio Carlo mi diceva che il sollevarli da terra per collocarli sui carri è pei Carraresi una difficoltà da non ci badare. Il masso è lì, mezzo sprofondato nel suolo, duro al suo posto, dove sembra sicuro di rimanere in eterno. Si direbbe che per ismoverlo ci voglia un popolo di atleti. Ed eccoti quattro o cinque uomini, armati di lunghe leve di ferro, gli si accostano; puntano contro il suolo l’estremità delle leve, alzandole reiteratamente contro i lembi inferiori del masso, quasi volessero semplicemente stuzzicarlo; accompagnano quella manovra con una monotona cantilena, e il masso si sveglia, quasi fosse un gigante addormentato, che, tentennando, barcollando, vada da se stesso a collocarsi sul carro».

«Di massi così grossi ne hai tu incontrato alcuno?» replicò Giovannino. [p. 382 modifica]

3. «Standoci un giorno solo non potevo pretendere di essere fortunatissimo. Il masso più grosso lo incontrai lungo il confluente della valle di Colonnata, che si chiama Canal Grande; e Trasporto de’ monoliti a Carrara giaceva sopra un carro tirato da sei paja di buoi. Esso scendeva giù barcollando per la via polverosa con tale prestezza e regolarità, ch’io ne rimasi stupito. Tiratomi fuor della via, col dorso [p. 383 modifica]rivolto alle rupi che la fiancheggiano, me lo vidi passare davanti minaccioso. I bovari, uno per ogni pajo di buoi, armati di pungoli, o seggono tranquilli sul giogo colla faccia rivolta al carro, o camminano al fianco del carro stesso, intenti alle mosse del pesante monolito. Ma che diamine oscilla di lungo e sottile dietro il carro!... un carro colla coda?... la è cosa nuova davvero.... To’.... Che è quel coso che vien giù ruzzolando per la via, intoppando, urtando ad ogni tratto, sobbalzato incessantemente a destra e a sinistra in mezzo a un nembo di polvere? Vedi.... è un masso anche lui che scende democraticamente a piedi dietro l’aristocratico fratello che lo precede in carrozza. M’avete inteso?» M’accorsi che non avevano inteso niente.

«Dunque mi spiegherò. Per quanto quei carri abbiano dei freni, costrutti s’intende come Dio vuole, rotando per un pendio talora assai ripido, potrebbero facilmente esser vinti dal peso formidabile dei monoliti. Che fecero essi i buoni Carraresi per garantirsi in un caso da quei subitanei capricci? Imaginarono il freno che vi ho descritto.... ossia che vi descriverò ora. Dietro al carro annodano una lunga catena, e all’estremità libera di essa legano un gran masso, supponete, di un metro cubico e più, il quale, facendo il riottoso a modo suo, lasciandosi strascinare a tutto corpo per terra come un ragazzaccio caparbio, urtando, balzando quasi in preda a convulsioni tetaniche4, serve di freno al carro, che arrischierebbe altrimenti di andar ruzzoloni giù per la china. E mi faceva proprio l’effetto di quei tali che noi scapatacci chiamiamo codini: buona gente che il tempo trascina avanti per forza, mentre essa vuole per forza rimanere addietro, e intanto serve di freno alla società che, per foga d’andare avanti, arrischia talvolta di andar giù a capo fitto nel precipizio.

«Ero tutto assorto nel contemplare quello strano spettacolo, quando a un tratto il convoglio s’arresta. Anche il masso di dietro rimane immobile, come colpito da sincope. Così avviene ad ogni tratto, appena su quella via disastrosa si presenti un intoppo. I buoi son lì, immobili, pietrificati, quasi dicessero: noi siamo pazienti quanto robusti; ma non si pretenda da noi l’impossibile. — L’impossibile?... lasciate ai bovari la cura di trarre da’ quei corpi affranti una forza, di cui nessuno li crederebbe capaci. È un feroce spettacolo, vedete, che si rinnova le cento [p. 384 modifica]volte in un giorno su quelle vie scoscese. I bovari, ch’erano seduti sui gioghi, si lanciano sulla via e si trovano a fianco di quelli che camminavano a piedi; ed eccoli tutti quanti addosso ai poveri buoi, urlando e figgendo spietatamente a colpi replicati la lunga punta dei loro pungoli nelle vive carni delle povere bestie. I buoi aizzati si contraggono, pontano, strisciano quasi col ventre a terra; tutti i muscoli si disegnano sotto la pelle, che tutta si tende come un sistema di corregge. Ma il carro non si muove.... esso è lì confitto come una rupe. Si raddoppiano gli urli a cui si aggiungono talora, con accordo infernale, i muggiti tremendi, dolorosi, penetranti che i buoi gettano all’attacco feroce del pungolo, i cui colpi son divenuti più implacabili e più spessi. Ormai tu non vedi che un gruppo di corpi tesi, di facce stravolte, di occhi injettati di sangue, di bocche sbuffanti d’uomini e d’animali, in mezzo a una nube di polvere che si appiccica alle nari, agli occhi, alle orecchie. D’un tratto il carro crepita, cigola, e si butta innanzi con fracasso orrendo, con islancio repentino e formidabile, quasi desto all’improvviso da un soprassalto di vita. La catena di dietro si tende, e il masso, che dormiva impassibile infossato nella polvere, sveglio da uno strattone villano, ricomincia i suoi grotteschi tomboli dietro il carro, che trionfalmente discende».

4. «È uno spettacolo crudele codesto», si alzò a dire la Cia tutta corrucciata.

«È crudele davvero; e non credere che io ci dovessi pigliare spasso come di cosa amena. Ma poi il pensarci mi richiamava alla mente altri spettacoli più crudeli. Ricordavo specialmente quegl’immensi bassorilievi (se così si possono chiamare) di Ninive, in cui avevo visto ripetersi fino alla noja la scena altrettanto monotona quanto feroce di lunghe file di prigionieri o di schiavi, attaccati ad una corda, che terminava in qualche enorme monolito, e a intervalli, a fianco dei poveri condannati, i barbari custodi, armati di lunghe fruste, pronti a flagellare spietatamente chiunque allentasse un istante. Ricordavo le non molto antiche galere, dove centinaja di galeotti, nel fondo oscuro di una bassa stiva, legati alle panche, inarcavano il dorso sui remi, con cadenza misurata dai colpi di sferza dell’odiato nostròmo5. [p. 385 modifica]Ricordavo i negri che oggi ancora lavorano nelle micidiali piantagioni di zucchero, sotto la sferza del sole tropicale e quella ancor più spietata di tigri dal viso umano che si chiamano custodi. Quì almeno si trattava di bestie, non di uomini».

«Ma anche le bestie non vanno maltrattate», replicò con un certo risentimento la Cia.

«Chetati», le risposi, «non ho detto ch’io approvi si maltrattino le bestie. Non sono però di quelli che hanno più carità per le bestie che pei cristiani. Io vorrei che ci fosse tutta la carità per gli uomini, e per tutti gli uomini; poi ne rimanesse d’avanzo anche per le bestie. Ti pare? Ma via; e dal lato della civiltà, e dal lato dell’economia, la cosa va male. Quanto alla civiltà, siamo intesi. Il maltrattamento delle bestie è ad essa contrario, ed è pure, almeno di rimbalzo, all’umanità. Quanto all’economia industriale, è evidente che qui c’è uno spreco di forze del pari inutile che dispendioso, mentre lo stesso effetto si potrebbe ottenere con mezzi molto più semplici e assai più convenienti. Per esempio, una ferrovia.... Ma che smemorato! mi dimenticavo per l’appunto di dirvi che, già quando andai a Carrara, si stava costruendo una bella strada ferrata, che rimontava precisamente la valle di Colonnata. Forse a quest’ora gl’immani monoliti sorvolano le aeree pendici come piume leggere. Non so tuttavia se tutti i Carraresi ne siano contenti».

5. «Diamine!» sclamò Giovannino; «chi vuoi che no’l sia?».

«Così parrebbe anche a me. Eppure mi si voleva far credere che i Carraresi in genere non vedessero di buon occhio nè la ferrovia, nè gli altri miglioramenti reclamati dall’economia, dall’umanità, dal senso comune e da quanti se ne fecero pubblici interpreti (per esempio il Magenta) coi loro scritti sull’industria apuana».

«Sicuro!», riflettè Battista, «hanno ragione quei di Carrara. I bovari, per esempio, perdono il pane».

«Perdono il pane, tu dici. Bisognerebbe mostrarmi che quei bovari non possano guadagnare il pane altrimenti che restando bovari. Devi pensare che (parlando pure soltanto della ferrovia) i pezzi di marmo non andranno da sè a collocarsi sulle vetture; che la locomotiva non funzionerà certamente senza uno che accenda il fuoco, e un altro che diriga la macchina; che insomma sulla ferrovia vi saranno facchini, guardiani, fochisti, macchinisti. Perderà forse il pane il bovaro, se d’ora in avanti si chiamerà facchino, guardiano, fochista, macchinista? Ma il fermarci in [p. 386 modifica]questi particolari è un impiccolire la cosa che si vuol dimostrare. Ragioniamo piuttosto sulle generali. Ogni miglioramento di un’industria ha per iscopo di ottenere un prodotto maggiore (migliore anche, se vuolsi) con minor dispendio di mezzi. Questo è guadagno, n’è vero? Precisamente danno cessante e lucro emergente, come direbbe un economista. I Carraresi, introducendo i proposti miglioramenti, produrranno con minore spesa una maggior quantità di marmi, e potranno venderceli a minor prezzo. Sarà un vantaggio per loro e per noi».

«Per noi, capisco», ripigliò il mio interlocutore, che si era infervorato nella questione. «Per noi, sì: ma per loro.... Se vendono a minor prezzo, guadagneranno meno».

«Ohibò, ohibò! ho detto che venderanno a meno, ma anche che produrranno di più. Le perdite e i guadagni saranno adunque per lo meno bilanciati. Anche un bambino può intendere questa ragione, che il numero dei compratori di una merce, cresce in proporzione del buon mercato; ma si potrebbe anche dimostrare che questo accrescimento non è soltanto in ragione del pari, ma del doppio, del triplo».

«Non capisco», disse questa volta Battista.

«Ebbene, mi spiegherò con un esempio alla tua portata, voglio dire con ciò che avviene ogni anno sul mercato delle frutta, di cui tu devi esser ghiotto la tua parte. Le prime fragole, le pesche primaticce costano un occhio, e non ve n’è che qualche libbra sul mercato. Tu le adocchi; ti senti correr l’acquolina in bocca; ma dici: — non sono per me.

» Soltanto il ghiottone o il gran facoltoso avranno il coraggio di comperarle al prezzo che valgono. Qualche settimana più tardi le fragole o le pesche spesseggiano. Costavano, supponiamo, due lire la libbra; ora non costano che una, e sono migliori. Ecco che tu e gli altri ghiottoncelli tuoi pari, vi sentite il coraggio di metter mano al borsellino per cavarvi la voglia. In luogo di un gran ghiottone, il fruttajolo avrà trovato cento ghiottoncelli di modesta fortuna. Qualche settimana più tardi il mercato è tutto fragole o pesche. Son più mature, più deliziose, e non si vendono che cinquanta centesimi la libbra. È la volta del popolino: i compratori si affollano cento per volta attorno al banco del venditore. Domanda un po’ al fruttajolo se ha guadagnato più quando ha venduto a così caro prezzo quei frutti primaticci, scarsi e forse acerbi, o quando ha venduto a così buon mercato gli ultimi, maturi e deliziosi. Il primo giorno avrà venduto, supponiamo [p. 387 modifica]cinque libbre a due lire, intascandone dieci; l’ultimo avrà venduto cento libbre a cinquanta centesimi, e si troverà in tasca cinquanta lire, con pari gioja di chi intasca e di chi sborsa».

«Accadrebbe lo stesso anche sul mercato dei marmi», domandò Battista, «quando i Carraresi riuscissero a produrne di più e a venderli a prezzo minore!».

«Manco dubbio. Pesche o marmi che siano, la massima e l’esperienza valgono lo stesso. Mi ricordo, quand’ero ancor giovinetto, che i vetturali di Monza, proverbiali per la loro lentezza, come per l’indeclinabile va e vieni da Monza a Milano e da Milano a Monza, facevano un subisso di piagnistei e d’imprecazioni contro quel povero troncherello di ferrovia (il primo, se non m’inganno, costrutto in Italia), destinato a congiungere quel quasi sobborgo alla capitale lombarda. Pensate se avessero ragione, voi che, venuti più tardi al mondo, avete il vantaggio di vedere più presto su tutta la penisola distesa una rete di ferrovie, e il conseguente visibilio di viaggiatori, di diligenze, di vetture, di omnibus, di brummi, che percorrono in tutte le direzioni tanto le vie della città, quanto le strade delle province. Ma non vo’ farvi un trattato d’economia politica, e torno per la più breve alle cave di Carrara.

6. » Continuando a rimontare il Canal Grande, nuovo spettacolo mi offrivano i cumuli enormi dei rifiuti delle cave. Partendo dalla bocca d’ogni singola cava, ch’essi d’ordinario nascondono allo sguardo, discendono sino al fondo della valle, allargandosi in forma di mezzi coni addossati alla montagna; e’ somigliano ai cosiddetti coni di dejezione, che sono quei mucchi di ciottoli, di ghiaje, di sabbie, che i torrenti vengono accumulando colle successive piene dove sboccano d’un tratto dal monte al piano. Vi assicuro che quei cumuli di rifiuti bisogna vederli per averne un’idea, e per formarsi un concetto di ciò che può l’uomo col tempo. Ovunque v’inoltriate verso le cave, la strada vi appare tutta fiancheggiata di quegli sterminati ammassi di scheggiame di marmo, che la fatica di tante generazioni ha cumulati, e sembrano monti sfasciati, appoggiati a monti che si vanno sfasciando. Quando poi si pensa che quei cumuli enormi non sono composti che degli avanzi di marmi lavorati e trasportati via di lì in tutte le parti del mondo; che quegli ammassi rappresentano il lavoro dell’uomo nella misura che le briciole intorno alla mensa rappresentano le imbandigioni di un lauto banchetto; il dirli montagne sfasciate non è nemmeno un’iperbole. Quei cumuli ingenti [p. 388 modifica]vanno colmando le valli, rivestono fino a grandi altezze i fianchi delle montagne, tanto che la generazione presente è costretta ad aprire le cave centinaja di metri più in alto che le generazioni passate».

«Bisogna dire che ci si lavori assai», osservò Luigino.

«Eccome!... si tratta di un’intera popolazione, la quale ad altro non intende che a ridurre quelle montagne in minuzzoli. Pensate che sono 300 persone del comune di Carrara che lavorano alle cave. Aggiungetevi altre 450 persone impiegate nel servizio di trasporto, con 300 paja di buoi, 125 carri a quattro e 300 a due ruote. Non dimenticate altre 550 persone tra scultori, modellatori o sbozzatori, ornatisti, lustratori, scalpellini, addetti alle officine di scoltura. Fanno dunque nella sola Carrara 4000 uomini occupati nell’industria paesana, intesi cioè a demolire quelle montagne, o a ridurne i brani in istatue e in oggetti di edilizia cittadina. Ma a quei 4000 uomini, aggiungetene altri 4500, che oggi accorrono dai paesi limitrofi a prender parte ai lavori. Avremo infine 8500 demolitori di montagne. La produzione annuale di marmi segati in lastre, o sbozzati, o scolpiti, per la sola Carrara ammonta a 85000 tonnellate6, pari a quintali....».

«850000», fu pronto a rispondere Giovannino.

«Bravo! Però, quei cumuli immensi non si spiegherebbero ancora, se non si sapesse che l’industria carrarese è antichissima e rimonta fino all’epoca romana».

«All’epoca romana!» gridarono alcuni.

7. «Sicuro. I Greci dapprima, i Romani dappoi furono grandi incettatori di marmi. Sono celebri nella Grecia le cave di Paro, immense caverne, chiamate dai Greci latòmie, che si visitano ancora con meraviglia dai viaggiatori, e sono antiche cave di marmo che s’internano nelle viscere delle montagne a incredibili profondità. L’antica Roma era poi divenuta ai tempi degl’imperatori un vero museo di marmi, come sono ancora le sue non mai abbastanza ammirate e deplorate rovine. L’introduzione delle statue e dei marmi ci era diventata quasi mania, sicchè udiamo l’imperatore Ottaviano Augusto gloriarsi di lasciar dopo di sè marmorea quella città che aveva trovata di mattoni, e Ovidio e Plinio esprimere il timore che si distruggessero i monti. Figuratevi se all’occhio degl’incettatori di tutti i marmi del mondo dovevano sfuggire le marmoree montagne delle Alpi [p. 389 modifica]apuane, torreggianti sulle rive del mare Tirreno e, relativamente parlando, così prossime a Roma. Tant’è: per testimonianza di Strabone, nell’ultimo secolo avanti l’Era volgare la maggior parte de’ più bei lavori che si ammiravano in Roma e in altre città erano di Marmo lunese....».

«Marmo lunese», domandò Camilla, «vuol dire marmo di Carrara?». «Appunto. Marmo lunese era detto da Luni, celebre città dell’Etruria, che si direbbe quasi l’antica Carrara, le cui rovine si scoprono non molto lontano di là, cioè sulla sinistra della valle di Magra. Questa città fu devastata successivamente dai Vandali, dai Longobardi, dai Normanni e dai Saraceni, finchè i suoi abitanti l’abbandonarono definitivamente nel 1058, emigrando a Sarzana. Ai tempi di Roma i marmi delle montagne carraresi venivano, come al presente, trasportati fino alla riva del mare e imbarcati nel porto di Luni, che da alcuni si vuole l’imbocca tura della Magra, da altri più probabilmente l’incantevole golfo della Spezia. Fin da que’ tempi sono celebri, per la quantità di marmi che se ne traeva, le cave del Polvaccio nella valle di Torano, quelle di Colonnata nella valle di questo nome, e quella di Fantiscritti nella valle di Canal Grande. Nelle cave di Canal Grande, verso le quali appunto mi avviavo, è fama che già abitasse il famoso indovino Arunte, di cui disse l’Allighieri:

Aronta è quei che al ventre gli s’atterga;
     Che ne’ monti di Luni, dove ronca
     Lo Carrarese che di sotto alberga,
Ebbe tra bianchi marmi la spelonca
     Per sua dimora, onde a guardar le stelle
     E il mar non gli era la veduta tronca7.

» Pensate adunque che quei cumuli di rottami di cui vi parlavo rappresentano semplicemente le minuzzaglie di un lavoro, in cui si occuparono e si occupano molte migliaja di uomini, un popolo intero, da duemila anni almeno. Vi pare che sia questo uno storico monumento dell’umana attività, meritevole d’esser visto Meno interessano per questo lato le ’cave, le quali non vi parlano che del presente. Anche qui tuttavia c’è sempre [p. 390 modifica]qualcosa di meraviglioso. Se volete vedere che cosa sia la febbre del lavoro, cercate un di que’ punti, da cui si scoprano trenta o quaranta cave, situate a grandi altezze, a piombo le une sopra le altre, aperte sull’orlo di precipizi vertiginosi, di cui l’accesso si direbbe assolutamente impossibile. Tutto brulica, tutto risuona. In mezzo ad un’onda continua di frastuono indistinto, l’aria vi porta la tempesta dei colpi di mazze e di scalpelli mossi da centinaja di persone, i flebili ululati del corno che avvisa il pericolo, lo scoppio delle mine che fa tremare la terra, il fragore dei massi che rotolano giù giù lunga pezza sui cumuli di rottami, le grida dei cavatori, gli urli dei bovari, il muggito de’ buoi. È qualcosa che vi richiama la torre di Babele, o la battaglia dei Giganti, o la musica dell’avvenire. Ma badate a voi, perchè mal non vi capiti, assorti come siete nella contemplazione di quello spettacolo».

8. «C’è dunque pericolo?» domandò una delle mamme.

«Certamente, per chi non istia continuamente in guardia. Prima di tutto, lo scoppio delle mine. Figuratevi l’effetto mostruoso di quelle mine, scavate talvolta fino alla profondità di 20 metri, ove si versano fin 2000 libbre di polvere. Quali enormi spaccature devono produrre nella montagna, e che gragnola di sassi lanciare all’ingiro! Guai a chi toccano!».

«Ma non hai detto che c’è il corno che avvisa del pericolo?» domandò la Marietta.

«Il corno c’è difatto, un corno naturale che consiste in una di quelle grosse chiocciole di mare, dette tritoni, forate con troncarne l’apice, a cui si aggiustano le labbra come alla bocchetta di un corno artificiale. Le avrete vedute queste chiocciole in bocca a quelle statue mitologiche che ornano sovente le fontane dei giardini, e son detti Tritoni, donde il nome che i naturalisti impongono alle conchiglie di cui vi parlo. Ma il suono emesso da quelle conchiglie è così cupo, così monotono.... riempie l’aria talmente, che torna difficile all’orecchio il distinguerne la direzione. Dove salvarsi, principalmente chi non abbia pratica dei luoghi, chi non conosca la situazione delle cave, restando esse per lo più nascoste all’occhio di chi si trova per via? Lo zio Carlo mi narrava ancora con ispavento che, trovandosi un giorno alle cave con un amico, si erano fermati a riposare in un certo sito. Per buona ventura avevano pigliato seco una guida. Si ode il terribile corno. La guida senza punto scomporsi, accenna loro una rupe dove porsi al riparo, dicendo: Ora badino là davanti. — Si [p. 391 modifica]ode il formidabile scoppio: un fracasso come di una frana passa sopra la testa dei ricoverati, e grosse pietre si veggono lanciate là, proprio nel sito dove testè si erano messi a riposare. Quì, grazie a Dio, non ci fu nulla di male. Ma continuava a narrarmi come le disgrazie siano pur troppo frequenti, e talvolta veramente terribili. Pochi anni fa, mi diceva, successe appunto un disastro, di cui i Carraresi s’avranno a risovvenire per lungo tempo. Si era dato il fuoco ad una mina straordinaria. Un gruppo d’uomini e di buoi stava a riparo dietro una piccola altura, ove sembrava assolutamente impossibile di ricevere alcun danno. Ma la mina, scoppiando, invece di scaricarsi da una parte, si scaricò dall’altra. Pezzi grossi di marmo cascarono appunto nella direzione dove si trovavano da dodici o quattordici persone con carri e buoi. Un masso tra gli altri rotolò giù con tale veemenza, che ebbe forza di risalire la piccola altura, gettandosi entro il riparo. Fu una vera carnificina.

» Anche prescindendo dalle mine, avviene talvolta che i massi, rotolando dai monti, vengono addosso all’improvvido passeggero. Nei luoghi troppo erti, quindi inaccessibili a’ buci, i massi vengono calati giù per lunghi tratti sopra robuste tregge, trattenute da forti canapi. Ma succede talvolta che il masso rompa ogni freno, e giù precipiti terribilmente in sua balía. Narra l’inglese Jervis che alcuni anni or sono un masso di prodigiosa grossezza staccossi da uno dei luoghi più elevati della montagna, e precipitando per il ravaneto8, polverizzava lo scheggiume per via, sollevando un nembo di polvere fitta come la colonna di fumo che esce dalla bocca di un cannone nell’atto che piglia la miccia. Ne’ suoi salti portentosi, quasi titanica palla, risospinto dall’una all’altra china, lo si vedeva scendere in mezzo ad un nembo di pietre, che, smosse e lanciate da lui, ne accompagnavano volando o ruzzolando la scesa. Ruppesi infine dopo aver percorso un mezzo miglio, ma non prima d’aver ucciso un certo numero di poveri operai9».

«Ma tali disgrazie accadranno di rado», disse la Giannina commossa. [p. 392 modifica]

«Di così terribili, certamente, per grazia di Dio. Ma dopo quanto avete sentito narrarvi, non vi farà meraviglia che sieno invece frequentissimi i brutti casi di operai feriti od uccisi in quella specie di battaglia continua. Un tempo, narrava lo zio Carlo, c’era il costume, ogni volta che s’avea un morto o un moribondo alle cave, di sonar la campana, invitando, come si costuma dappertutto nei paesi cattolici, i fedeli alla preghiera. Non passava quasi giorno che la campana non facesse udire i suoi terribili rintocchi, ed ogni volta era un soprassalto di terrore, un’angoscia mortale per centinaja di vecchi padri, di madri, di spose, di donzelle, infine di tutta la città, perchè non c’era forse tra le persone che udivano quel suono chi non avesse alcuno de’ suoi alle cave. Era dunque il caso che il pensiero religioso cedesse a un sentimento di umanità; e il suono della campana fu proibito».

«Da quanto hai narrato», disse Giovanni, «bisogna conchiudere che codesti Carraresi non prendano tutte le cure che dovrebbero, per evitare tali disgrazie; che non ci sia insomma quella regola.... che so io?»

9. «Pur troppo, è vero. L’industria carrarese è ammirabile, ma non cessa di saper di barbarie. Quelli che insistono presso di loro, perchè la perfezionino, coll’introdurre le macchine, col mettere in pratica i metodi in uso presso altri paesi, non mirano soltanto al lato economico, ma anche al lato umanitario della questione. I Carraresi tuttavia, come avete inteso, sono da quella parte un po’ duri d’orecchio. Con quel benedetto così faceva mio padre, certi del resto di vistosi guadagni stante il gran prezzo dei marmi, lasciano che altri si sfiati a predi care a sua posta il perfezionamento dell’industria, l’introduzione delle macchine, l’associazione del lavoro, tutti trovati della moderna saccenteria. È difficile, vedete, ragionare di progresso con chi può intascarsi mille e settecento lire vendendo un metro cubo di sasso, buttato giù, purchessia, dalla montagna10 . A parte questo difetto, i Carraresi sono indefessi lavo ratori ed egregi conoscitori di marmi, come v’ho detto. Dovetti persuadermene quando, di ritorno dal Canal Grande, e dopo aver [p. 393 modifica]rimontato un pochino anche la valle di Torano, ritornai in città per fare una rapida visita alle segherie ed alle officine di scoltura. Se vedeste quante seghe, quanti strumenti per lavorare il marmo, e come bene sanno adoperarli gli artefici11. Ma a proposito della loro finezza tanto nel conoscere marmi quanto nel lavorarli, bisogna lasciar dire chi ebbe agio di apprezzarla meglio di me che ci fui di passaggio. A sentir parlare lo zio Carlo si direbbe che i Carraresi odorino il marmo assai meglio del mineralogista e del lapidario, con quell’istinto con cui il selvaggio fiuta il vento assai meglio di un professore di meteorologia. Io son d’opinione, — mi diceva egli, — che in tutta Europa non esista chi più del Carrarese sia esperto nel trattare il marmo. Avvezzo fin dalla nascita a non vedere che marmo, a non apprezzare che il marmo, a non lavorare che il marmo, vi acquista una pratica meravigliosa. — Quand’ero professore a Carrara, — continuava lo zio, — venivano a scuola dei ragazzetti, che sapevano indicarmi di punto in bianco tutti i pregi e i difetti dei marmi, declinarmi il nome di ciascuno, e quello della cava da cui ciascun pezzo proveniva: sapevano in un pezzo di marmo scoprire un pelo, cioè una crepa, quand’io non l’avrei nemmeno sospettata: sapevano di più fabbricare anelli esilissimi per loro trastullo, non solo col marmo, ma con brecce durissime e al tempo stesso così friabili e vetrigne, che avrebbero tradito il colpo del più abile artista.... — Ahimè!... s’è fatto tardi. Buona notte, bambini! Un altra sera ci occuperemo d’altro, chè di marmi dovete esserne sazî».

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Note

  1. L’autore, mettendoci del proprio quanto ritrasse da una gita sui luoghi, si giovò del resto assai di due scritti, edito l’uno ed inedito l’altro. Il primo è il volume eruditissimo del signor Carlo Magenta, che s’intitola L’industria de’ marmi apuani. Firenze, 1871. Il secondo è un manoscritto del proprio fratello Carlo Stoppani, già professore all’istituto Tecnico di Carrara, e s’intitola Osservazioni sui marmi di Carrara. Questo secondo lavoro era compito nel 1868; ma, rimasto inedito per diverse cagioni, fu condannato dal suo autore a rimaner tale per sempre, avendo perduto assai della sua novità e della sua importanza dopo la pubblicazione del Magenta.
  2. Magenta, opera citata, pag. 62.
  3. Il commercio di esportazione de’ marmi apuani (di Carrara, Massa e Serravezza) si fa principalmente con la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Spagna, la Russia e le due Americhe. (Vedi Magenta, op. cit., pag. 83).
  4. Il tetano è una malattia nervosa, per lo più mortale, che stira e convelle i nervi con ispasimi atroci. Il suo nome deriva dal verbo greco tetno = io stiro, distendo.
  5. Nostromo, maestro d’equipaggio è l’uffiziale marinajo che reca all’equipaggio gli ordini dell’uffiziale comandante, e ne cura l’eseguimento. Nelle antiche galee, spinte a remi dai condannati e dagli schiavi, l’ufficio del nostromo era naturalmente odiosissimo.
  6. Questi dati statistici sono tutti attinti all’opera del Magenta.
  7. Inf., C. XX, V. 46, 51: — Quegli che volge il tergo al ventre di lui è Arunte, il quale abitò una spelonca fra i bianchi marmi dei monti di Luni, nella contrada coltivata dai Carraresi, la cui città giace al piè di quei monti. Dall’alta soglia di tale spelonca poteva Arunte contemplare il cielo ed il mare, nè alcun ostacolo gliene troncava la veduta.
  8. Ravaneto dicono i Carraresi il complesso dello sfasciume che copre il piede delle montagne.
  9. Il fatto è riportato dal Magenta colle parole del signor Jervis, che lo narra nella sua opera The mineral resources of Central Italy, London, 1868. Non posso assicurare che non sia lo stesso fatto che, con circostanze un po’ diverse e più precise, ho narrato appena più sopra, parlando delle mine, e che ho preso dal citato manoscritto di Carlo Stoppani.
  10. I marmi di Carrara, secondo il Magenta, vendonsi per ogni metro cubo ai seguenti prezzi:
    Marmo statuario finissimo da L. 850 a L. 1700
    Marmo statuario di 2ª. qual. da L. 230 a L. 550
    Bianco chiaro da L. 160 a L. 250
    Bianco venato da L. 180 a L. 260
    Bardigli da L. 190 a L. 280
  11. Agli studiosi di lingua toscana non sarà discaro di veder riportato il seguente tratto del Vasari, che può dirsi un piccolo dizionario dell’arte di lavorare il marmo:
    Questi marmi si abbozzano con una sorte di ferri chiamati subbie, che hanno la punta a guisa di pali a facce, e più grossi e sottili; e di poi seguitano con scarpelli detti carcagnoli, i quali nel mezzo del taglio hanno una tacca, e così sono più sottili di mano in mano che abbiano più tacche; e gl’intaccano, quando sono arrotati, con altro scarpello. E questa sorte di ferri chiamano gradine, perchè con esse van gradinando e riducendo a fine le loro figure, dove poi con lime di ferro e dritte e torte vanno levando le gradine che sono restate nel marmo; e così poi con la pomice, arrotando a poco a poco, gli fanno la pelle che vogliono; e tutti gli strafori che fanno, per non intronare il marmo, gli fanno con trapani di minore e di maggior grandezza, e di peso di dodici libbre l’uno, e qualche volta venti; che di questi ne hanno di più sorte, per fare maggiori e minori buche, e gli servon questi per finire ogni sorta di lavoro e condurlo a perfezione». (Dalle Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori ed Architetti, vol. 1, pag. 106-107: Firenze, 1846).