Il bel paese (1876)/Serata XXIV. - Il Vesuvio dell'antichità

Serata XXIV. - Il Vesuvio dell'antichità

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Serata XXIV. - Il Vesuvio dell'antichità
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SERATA XXIV


Il Vesuvio dell’Antichità.

I vulcani, 1. — Zona dei vulcani d’Italia, 2. — Il Vesuvio di Napoli, 3. — Il Vesuvio de’ Romani, 4. — I due Plinii, 5. — L’eruzione del 79, 6. — Morte di Plinio il vecchio, 7. — Singolare apatia degli antichi, 8. — Intermittenza dei vulcani, 9.


1. «Ormai non ci rimangono che poche sere. D’inverno il convegno, d’estate il passeggio.... A ciascuno la parte sua. E quanto mi rimarrebbe a dire, per darvi almeno un’idea generale della geografia fisica d’Italia!... Vediamo.... Di che bramereste vi intrattenessi in queste ultime sere di conversazione?».

«Dei vulcani» rispose Giovannino per tutti. «Non vogliamo chiudere la stagione, senza sentirci parlare di una parte così interessante della geografia fisica d’Italia. Tu ce l’hai anche promesso; ti ricordi? la sera che ci parlavi del vulcano della Porretta».

«Sì, sì.... i vulcani, i vulcani!» esclamarono in coro, assentendo, fanciulli e fanciulle, mamme e papà.

«Vedete» dissi sorridendo «se io non sono indovino. Aveva proprio fissato di consacrare ai vulcani le poche serate che ci restano, e di cominciare stasera. Tanto è vero che ci ho qui delle vedute.... Via.... zitti per ora! Ve li mostrerò a suo tempo. È un grande argomento, vedete, quello dei vulcani. Il turbine che scompiglia e atterra la foresta, la tempesta che solleva le onde del mare come montagne, ci danno una grande idea delle forze della natura; ma non v’ha nulla forse che ci dia un concetto della sua irresistibile potenza meglio dell’eruzione di un vulcano. Un’eruzione vulcanica è una grande rivelazione di quelle forze occulte che, rinserrate nell’interno del globo, ne [p. 395 modifica]costituiscono la vita; di quelle forze che, agendo dall’interno all’esterno, mantengono la terra in uno stato di continuo parossismo, sicchè fin dal principio dei tempi la terra si scompiglia e si ricompone, si rinnova e si mantiene, per una serie di meravigliose rivoluzioni. Le salse, i vulcani di fango, le fontane ardenti, che porsero materia a parecchie delle precedenti conversazioni, ci rivelarono già qualche cosa della interna attività del globo. Ma credereste di esservene formato un concetto adequato? Sarebbe come chi credesse d’aver compreso tutta la potenza di una macchina a vapore, che trascina vorticosa sulle onde tempestose un bastimento o per valli e per monti un esercito di pesanti carri, solo perchè ha udito il fischio di una locomotiva. Chi ha assistito una volta ad una eruzione vulcanica, chi ha visto squarciarsi da cima a fondo una montagna, aprirsi un abisso senza fondo, e uscirne, fra i lampi, i tuoni, le scosse che fanno tremare la terra per centinaja di miglia all’ingiro, colonne di vapore più nere e vorticose di quelle del più tremendo uragano, e nembi di cenere, e grandini di pietre, e torrenti di liquido fuoco, e in un istante sconvolta, mutata la faccia di un’intera regione; ah questi può ben dire di aver avuto un saggio dell’attività interna del globo! Eppure le eruzioni si succedono a brevi intervalli, forse senza interruzione, da milioni e milioni di anni, e centinaja, migliaja di vulcani, distribuiti in file serrate tutto all’ingiro del globo, vomitano lo sterminio e la morte, fabbricano montagne di ceneri, che sorpassano le più alte catene del globo. Eppure la terra non dà segno di essere estenuata da tanti sforzi, e ridesta a ogni istante, rinnova, con furore sempre uguale, le prove di sua misteriosa, indomabile potenza.

» Voi, miei cari, non siete ancora abbastanza maturi per abbracciare il grande complesso dei fenomeni vulcanici, e per dedurre, e apprezzare quelle conclusioni, a cui la scienza moderna arriva a stento, gloriandosene pur già come delle sue più ardite conquiste. Continuando i vostri studî, attingerete senza dubbio un giorno quelle alte cime, da cui si prospettano, si abbracciano con un solo sguardo le grandi vedute, e si scoprono le leggi fondamentali e si stabiliscono i supremi principî. Per ora sarà più opportuno arrestarvi entro il dominio dei singoli fatti, cercando di ben comprenderne la natura, e di sorprendere quelle leggi parziali, che essi rivelano. Invece di parlarvi dei vulcani in generale, ve ne descriverò specialmente alcuno. State sicuri del resto che, visto un vulcano, li avete su per giù tutti conosciuti, come [p. 396 modifica]veduto un fiume, studiato un ghiacciajo, voi potete vantarvi di aver conosciuto e studiato ad un dipresso tutti i fiumi e tutti i ghiacciai del globo; tanto la natura è costante nelle sue leggi. Volendo scegliere, non abbiamo nemmeno bisogno di uscire dai confini d’Italia, per trovare un vulcano. Anzi dobbiamo starci se vogliamo trovarne uno, il quale, oltre all’essere come il tipo di tutti i vulcani, è l’unico che ci possa fornire in sè stesso e nella sua storia tutt’i migliori elementi per conoscere il vulcanismo. I vulcani più celebri, i soli vulcani che abbiano, propriamente parlando, una storia, sono in Italia. Il Vesuvio di Napoli e l’Etna di Catania: vulcani che furono visitati, studiati da tutt’i geologi del mondo, i quali vennero a cercarvi le ragioni di quella vita interna, che tiene in uno stato di continuo esaltamento la terra. Il Vesuvio poi.... Oh! quello, per la scienza, è proprio il vulcano dei vulcani, mentre può dire d’averlo visto nascere, crescere, morire, per risorgere le cento volte, attestando quel vigore perenne, per cui la terra, coi segni della decrepitezza stampatile in volto dalle infinite rivoluzioni a cui andò soggetta, fa mostra pur sempre, rinnovandosi continuamente, del più bel fiore di gioventù».

2. «Tu hai dunque visto il Vesuvio?» domandò la Giannina. «E ce lo vuoi descrivere... Bravo zio! Io mojo della voglia di vedere una volta quella montagna che vomita fuoco, di cui sentii parlare tante volte, di cui lessi più volte nei libri, senza potermene formare un’idea un po’ precisa».

«Sì, l’ho visto: ne ho toccato la cima più volte, riportandone un’impressione sempre ugualmente profonda, indelebile. Mi ricordo che la prima volta fu nel 1865, in quella stessa occasione in cui m’era recato alla Spezia, e mi era deliziato dello spettacolo della fosforescenza marina, che vi ho descritta, se ancora ve ne sovviene».

«Sì, sì, ce ne ricordiamo» s’alzò a dire Giovannino per tutti.

«Ebbene, dalla Spezia mi recai a Siena, e di là ai confini romani. Essi sono anche i confini di una gran zona vulcanica, che comincia coll’enorme cratere di Bolsena, e continua, quasi senza interruzione, fino al Vesuvio di Napoli, dove, interrotta da breve tratto di mare, si ripiglia, coi vulcani delle isole Lipari, col mostruoso Etna, e termina coll’isola Giulia, cioè con quel vulcano sottomarino, davanti a Sciacca, sulla estremità della Sicilia che guarda l’Africa così da vicino; quel vulcano che, pochi anni sono, eruttando dal fondo del mare, improvvisò in [p. 397 modifica]pochi mesi un’isola di tre miglia di circuito, che scomparve in breve tempo, demolita dalla furia delle onde1. Quante cose vi potrei dire, se volessi L’Isola Giulia. intrattenervi dei particolari di una zona seminata di cento vulcani, i quali, ciascuno alla sua volta, si manifestarono colle più poderose eruzioni! Il Vesuvio infatti non è altro, almeno al di quà dal mare, che la sentinella avanzata di un esercito di giganti che mossero guerra al cielo: unico superstite da una lotta di secoli, se pure non avverrà che, nel Cratere-Lago di Vico e Monte-Venere. corso dei secoli, quei mostri che vomitarono fuoco le tante volte, [p. 398 modifica]non si ridestino, come dal letargo di una morte apparente. Ma si andrebbe troppo per le lunghe. Vi dirò dunque semplicemente come mi aggirai parecchi giorni intorno al lago di Bolsena, cioè a quell’immane cratere vulcanico, che vanta circa 32 miglia di giro, il cui fondo è occupato da un limpido lago, quasi perfettamente circolare, con 22 miglia di sponda. Quell’immenso vulcano, superbo del più grande cratere che si conosca sulla superficie della terra, è circondato da un gran numero di satelliti, cioè di vulcani minori, che vissero con lui e per lui, come i cento vulcani che rizzarono i loro coni e apersero i loro crateri sui fianchi dell’Etna. Passai quindi a visitare i colli Cimini, cioè le montagne di Viterbo, tutte masse vulcaniche, che, prolungandosi da un lato, e formando una gran cerchia elittica, cingono il lago di Vico, prosciugato dai Romani in gran parte. Quella vasta cerchia non è altro che un enorme cratere, di 13 miglia di circonferenza, dal cui fondo, occupato da un lago come il cratere di Bolsena, sorge il monte Venere, un cono vulcanico, il quale, come vedrete, ritrae il Vesuvio nei rapporti col monte Somma. Dal cratere di Vico, mi gettai nell’immensa campagna romana, lasciandomi a destra il lago di Bracciano, ossia un altro gigantesco cratere, della circonferenza di 14 miglia, circondato da una coorte di vulcani minori. Tutta la campagna romana non è che una immensa distesa di ceneri, di lapilli, di scorie, eruttate dai vulcani. Un altro colosso vulcanico è quello che forma i colli Laziali, tra i quali si distinguono i colli Albani, Tusculani, Veliterni, tanto nominati nella Storia Romana. Quei colli, come dissi, non sono che le membra di un solo grande vulcano, le cui correnti di lava corsero fin sotto le mura di Roma; se pure le fondamenta dell’eterna città non furono gettate quando il vulcano era già spento. Non dirò nemmeno una parola di quella grande sede dell’antica [p. 399 modifica]civiltà, dove mi trattenni alcuni giorni. Bisognerebbe dirvene troppo, per narrarvene qualche cosa. Partiamo adunque tosto colla ferrovia che deve portarci al piede del Vesuvio. Sono allineati su questa via altri vulcani spenti; il vulcano di Ticchiena, il monte di Pofi tra Frosinone e Ceprano, la rocca Monfina non lontano da Gaeta, finalmente i Campi Flegrei, un gruppo formidabile di vulcani, che si spingono, in truppa serrata fino alle mura di Napoli.

» Intenderete come io avessi dovuto formarmi un grande concetto dei vulcani e del vulcanismo, passando in rassegna quella serie formidabile di colossi, che avevano vomitato con sì spaventevoli bocche tanti incendî, percorrendo una così vasta regione, dove i monti, le valli, i piani, tutto era creazione dei vulcani. Ma dei vulcani io non poteva formarmi che il concetto, che altri potrebbe formarsi di una gran razza di giganti, contemplandone le tombe, e misurandone le ossa. Ma vedere un vulcano attivo!... Sentirne il ruggito!... Beverne l’alito infocato!... E io mi avviava a vederlo!... Fra poche ore mi si sarebbe affacciata la formidabile vetta, e fra un giorno o due, l’avrei calcata.... mi sarei trovato sospeso su quella voragine, dove, mi pareva, avrei lanciato lo sguardo giù nelle profonde viscere della terra!...

3. » Desioso, impaziente, il viaggio mi parve assai lungo. A pensare che è pure così delizioso!... Inchiodato allo sportello del vagone, spiava ansioso quando spuntasse sull’orizzonte la cima del fantastico cono. E vola, e vola.... passano come fantasmi, fuggenti, monti, castelli, città.... Doveva pur già trovarmi in luogo dove il Vesuvio mi sarebbe apparso.... Aveva contato le stazioni.... Quei monti là in faccia dovevano esser quelli che chiudono a mezzogiorno il golfo di Napoli.... Sì, certo! Ma il Vesuvio non compariva. Ben distingueva, spiccata sull’azzurro purissimo del cielo, una montagna dentata, e là sospesa vedeva una piccola nube bianca, la quale a volte a volte si scioglieva nell’aria, e si rifaceva di nuovo, e svaniva e tornava. Quella nube è fumo.... fumo certamente.... Quella montagna è il Vesuvio!... Ma no; il Vesuvio l’ho negli occhi, dipinto come l’imagine di un vecchio amico. L’ho visto, l’ho amoreggiato le mille volte disegnato sui libri, dipinto nelle sue fasi diverse nelle vetrine dei venditori di stampe. Ohibò; non è lui.... Eppure non può essere che lui.... Per sventura non vi era nessuno nel mio scomparto che potessi interrogare. Dovete sapere che il Vesuvio, si può dire invariabilmente, disegnato quale lo si vede da Napoli, e da qualche punto del golfo, [p. 400 modifica]dove si presenta il cono isolato, nella sua vera individualità, cioè staccato dal monte Somma, che forma geologicamente un tutto con lui, ma topograficamente una montagna da sè. Chi invece giunge a Napoli per la ferrovia romana, guardando verso il Vesuvio, si trova in faccia il dorso del monte Somma, la cui cerchia dentata rizzata attorno al Vesuvio a mo ’ di scena, glielo nasconde allo sguardo. Io dunque non vedeva quello che propriamente si chiama Vesuvio; anzi il fumo, sollevandosi dal cono nascosto dietro il Somma, sembrava una nube che si dipartisse immediatamente dalla cresta di questa montagna. Quando si può contemplare il Vesuvio nella sua forma così caratteristica si è già quasi in città; e fu soltanto quando ebbi guadagnato una delle camere più elevate dell’Albergo Venezia, che potei cavarmi la voglia di contemplare estatico, da una finestra che dava sul mare, la vista incantevole del golfo, distesa innanzi come una magica tela, in mezzo alla quale spiccava, nelle sue forme più schiette, l’oggetto de’ miei sogni.

» Vi ho portato un disegno.... eccovelo; se non vale a darvi un’idea sufficiente di ciò che non puossi nè descrivere, nè dipingere, vi darà almeno delle sufficienti nozioni sulla topografia del golfo, sulla forma del Vesuvio, sull’aspetto delle eruzioni, e sopra i diversi particolari necessarî alla intelligenza delle cose che vi andrò narrando. Questo disegno ritrae il Vesuvio, visto da Napoli nel momento della grande eruzione dell’Ottobre 1822. Voi vedete alla destra quella parte del golfo che si insinua, con semicerchio regolare, tra le falde del Vesuvio, e la città di Napoli. Tra la città e il vulcano si distende un piano, o piuttosto una gran valle, tutta coltivata e sparsa di paesi. Da quel piano vedete spiccarsi isolato, sopra l’immensa base, con regolare pendio, un cono, il cui vertice è tronco, e diviso in due montagne gemelle: alla sinistra il monte Somma, elevato 3430 piedi (1114 metri) sopra il livello del mare; alla destra il Vesuvio, la cui altezza, naturalmente instabile, oscillò in questi ultimi secoli verso i limiti stessi del Somma, ora superandone il livello, ora abbassandosi al disotto di esso, secondo le diverse fasi della sua vita convulsa. Ma osservate bene; il monte Somma, che discende con regolare pendio sulla sinistra, è tagliato a picco dalla parte opposta, e scavato in guisa da formare una muraglia semicircolare, un vero recinto, che circonda e quasi abbraccia un cono interno, il vero Vesuvio. Anzi, vedete, la cresta semicircolare del monte Somma, si prolunga verso il golfo in un certo rilievo, [p. 401 modifica]che compie il giro della base del cono centrale e si ripiega su se stesso alla destra del cono suddetto, e va di nuovo a congiungersi colla vetta del monte Somma, da quella parte che è sottratta alla vista dalla elevazione del Vesuvio. Il monte Somma Il Vesuvio visto da Napoli durante la grande eruzione del 1822. adunque ricinge veramente il Vesuvio, lo chiude quasi entro un anello obliquo, lo circonda come di una fossa, il cui labbro, saldato colla base del cono sul davanti e per la maggior parte del suo giro, se ne stacca pel restante, di maniera che, tra il [p. 402 modifica]Vesuvio e la parte più elevata del Somma è scavata una valle profonda, che accerchia pure il Vesuvio come gigantesca fossa che cinga la torre di una fortezza. Il fondo di quella fossa ha la forma di un gran piano semicircolare, e si chiama l’Atrio del Vesuvio, o più comunemente l’atrio del Cavallo. Avete inteso?».

«Oh sì!» rispose Giovannino per tutti; «benissimo. Ma quella gran nube? quei lampi?».

«Adagio, adagio. Per ora volli soltanto darvi i primi rudimenti della topografia vesuviana. Dobbiamo farci delle corse su quella montagna, e spero che la vostra curiosità si troverà appagata in tutto e per tutto».

«Perchè» insistè Giovannino, «quella gran valle si chiama l’atrio del Cavallo?».

«Perchè fin là ci si può andare benissimo con una cavalcatura. Più oltre, chi voglia salire, bisogna che si raccomandi alle gambe. Fu detto adunque atrio del Cavallo quel luogo ove il cavallo suole arrestarsi. Ma non confondetemi con troppe interrogazioni, se no faremo una Babele, ed io invece faccio conto di descrivervi il Vesuvio un po’ per benino, perchè vi formiate un concetto abbastanza esatto di quei fenomeni che sono tanta parte della fisica terrestre. Questo disegno lo terremo intanto qui sotto gli occhi. Ma quanto è diversa la realtà!... E’ mi pare di essere ancor là alla finestra, in quella sera così tranquilla, con un cielo così perfettamente sereno, a bevermi cogli occhi quella scena incantevole. Come sorgeva maestoso quel cono, inciso nella volta del cielo suffusa di una tinta rosea: quella tinta meridionale, così sfumata, così calda! Quel cono così tranquillo, quasi alitante nell’aere purissimo; nascente da un golfo di smeraldo, coronato di città, sparso di villaggi e di bianche casipole, vestito di vigneti e di ulivi!... Eppure quante volte destossi a guisa di un mostro furente! Quante volte questo golfo, così terso, riflettè, a guisa di specchio gigantesco, i sinistri splendori de’ suoi terribili fuochi! Quante volte questa vaga ed immensa città, ora così lieta, così fiorente, stette, colpita dal terrore, aspettando da un istante all’altro di essere sepolta o inghiottita! Quante volte quella ricca campagna fu cambiata in squallido deserto! Quante vittime umane immolate alle ire inesorabili di quell’Idra! Quanti paesi, quante superbe città, giaciono là sepolti sotto montagne di ceneri e torrenti di lava! Dalla morte di Plinio in fino a noi, quante volte questo golfo, tutto riso, tutto pace, serenità, delizia, divenne teatro di terrore, di desolazione e di morte!». [p. 403 modifica]

4. «È dunque assai antica la storia del Vesuvio?» riflettè Giannina.

«Per la geologia è antichissima; certo rimonta assai oltre la comparsa dell’uomo sulla terra. Per la storia propriamente detta, vi sono dei vulcani più antichi; per esempio l’Etna, il Mongibello degli antichi, sotto il cui incubo giaceva il gigante Encelado, che a volte a volte contorcendosi, agitandosi, faceva traballare la montagna, mentre forse in un angolo lasciato libero dal gigante, soffiavano i robusti mantici del dio Vulcano, che sudava indefesso a fabbricare i fulmini a Giove. Erano quei fuochi divini, che talora erompevano di sotterra. Così lo Stromboli serviva di faro ai piloti greci, come serve in oggi ai naviganti nell’Arcipelago delle Lipari. Ma il Vesuvio ha, come dissi, il vantaggio di una storia particolareggiata, sgombra da favole. Questa storia tuttavia non rimonta che al principio dell’era volgare.

» Gli autori del secolo di Augusto parlano del Vesuvio come di un vulcano spento. Guardando al modo con cui si esprimono Diodoro Siculo e Vitruvio, e parebbe che nel paese vivesse ancora a’ quei tempi la tradizione di antiche eruzioni. Strabone ne parla anch’esso in guisa da farci credere che ne avesse riconosciuta, o almeno sospettata, la natura vulcanica. Il celebre Spartaco, si sarebbe trincerato entro il recinto naturale d’una montagna, di cui il pretore Claudio teneva guardato l’unico accesso2. Vorrebbesi che quella montagna fosse il Vesuvio, o piuttosto il monte Somma, il quale presentava la forma di un cono, tronco alla sommità, dove vaneggiava una depressione, un incavo, infine un cratere, tappezzato di viti selvatiche, con un piano sterile sul fondo. Chi sa da quanti secoli dormiva quel vulcano. Era un mostruoso gigante che nel sonno rifaceva le sue forze. Destossi infatti nell’anno 79 dopo Cristo; e quella eruzione fu terribile. È la prima ma anche la più formidabile di cui parli la storia. Fu allora che il Somma, letteralmente sventrato, presentò quella gran fossa, da cui sorse il Vesuvio moderno, riempiendola in guisa che noi non ne vediamo che il labbro. Il Vesuvio è tutto una creazione dei secoli, che volsero, dopo l’anno 79 dell’era nostra. Esso, cioè, non è altro che il cumulo formato dai materiali rigettati nelle successive eruzioni. Ciò si deduce con molta probabilità dai fatti, mentre si ignorano quasi interamente i particolari di quella, per quanto famosa, eruzione». [p. 404 modifica]

«Peccato!» fece Giannina. «Credevo mo’ proprio di sentire qualche cosa di bello».

5. «Via; qualche cosa ci è restato; anzi, per l’importanza del soggetto, possiam dire assai. Nell’epoca in cui avvenne (e fu nel settembre dell’anno 79 dell’era volgare) esisteva un uomo, forse un uomo solo, che potesse venire attratto dai grandi spettacoli della natura, e fosse al tempo stesso capace di lasciarcene un’esatta descrizione. Ma quest’uomo fu vittima della eruzione, e ne fu vittima appunto perchè voleva tramandare ai posteri un rendiconto esatto di quella grande catastrofe. Quest’uomo era Cajo Plinio Secondo, detto Plinio il vecchio, il grande naturalista, e quasi il precursore di tutti i naturalisti».

«È quel Plinio» interruppe Giovannino, «di cui si mostra ancora il palazzo, detto la Pliniana, sul lago di Como?».

«Il palazzo tu dici? Ohibò? Il palazzo della Pliniana è una delizia di fattura tutto moderna. Fu fabbricato dal conte Giovanni Anguissola nel 1570. Tu confondi il palazzo colla sorgente intermittente, detta la Pliniana, appunto perchè fu descritta da Plinio, anzi dai due Plinii. Che Plinio ci possedesse una villeggiatura, non è impossibile, perchè vuolsi nativo di Como (benchè Verona abbia anch’essa delle pretese in proposito) dimorò a Como, e scrisse di quei luoghi. Ma chi sa che avvenne, nel caso, di quella villeggiatura? In fine, v’ha di certo soltanto che egli conobbe quella sorgente, la quale più a lui, che al fenomeno della intermittenza, deve la sua celebrità».

«E che cosa è una sorgente intermittente?» domandò la Chiarina.

«E sempre qualche inciampo!... Eh via! Diconsi intermittenti quelle fonti che accrescono e diminuiscono la quantità delle acque, o anche scorrono e si arrestano alternatamente, con certa periodicità, e in sì breve periodo di tempo che la intermittenza non può spiegarsi colle leggi ordinarie, per cui le sorgenti, in conseguenza delle piogge o della siccità, si gonfiano, si dimagrano, si esauriscono. La Pliniana, per esempio, è una sorgente che si gonfia e si dimagra alternatamente tre volte al giorno, piova o faccia bel tempo».

«E che?» chiese la Giannina; «m’han parlato tanto di codesta Pliniana, che io credevo proprio fosse la sola sorgente intermittente che esistesse al mondo».

«Tutt’altro; non è la sola, e non è nemmen quella che presenti nel modo più brillante il fenomeno dell’intermittenza. Ve [p. 405 modifica]ne ha una nella Linguadoca, che scorre per sette ore, e per tre riposa. Un’altra nella Franca Contea, dopo un intervallo d’esaurimento, si annuncia col rumore di una caldaja bollente, quindi l’acqua si slancia in tre getti, che crescono, diminuiscono, cessano affatto. Il gioco si ripete di quarto in quarto d’ora, coll’intervallo di due minuti. E potrei dirvi di altre assai; ma non dimentichiamo il Vesuvio».

«Come si spiega che?...» volle aggiungere Giannina; ma io le ruppi la domanda fra i denti.

«Come si spiega?... In nessun modo per ora.... Torniamo al Vesuvio. Vi diceva dunque che Plinio il vecchio rimase vittima della prima eruzione vesuviana, che sia registrata nella storia. La sua morte ci è narrata da Plinio il giovane, suo nipote e figlio adottivo, in una lettera da lui scritta a Tacito, quel grande storico che sapete, il quale gli aveva chiesto notizie della morte dello zio, volendo scrivere la biografia del grande naturalista».

6. «Ci vorrai almeno raccontare si arrischiò a dire, con qualche esitanza la Giannina «come avvenne la morte di quel grande scrittore».

«Plinio il giovane scrive dunque a Tacito, che egli si trovava Sezione naturale del Capo Miseno. collo zio, e colla madre, sorella dello zio, a Miseno, dove lo zio comandava una squadra romana. La città di Miseno sorgeva a occidente di Napoli, alla distanza di forse 5 ore dal Vesuvio. Più non esiste una città di questo nome; ma esso rimase al promontorio, al piede del quale era probabilmente edificata. Quando andrete a Napoli, non mancate di recarvi al Capo Miseno. È un promontorio sporgente assai, formante l’estremità del corno occidentale della Baja di Pozzuoli; un poggio che sembra fatto a bella posta per chi desidera saziarsi degli incanti del golfo di Napoli, che vi si domina in tutta la sua estensione, e assistere, nel [p. 406 modifica]caso, allo spettacolo di una eruzione del Vesuvio, che sorge precisamente sullo sfondo di quel gran teatro. E, sapete?... è anch’esso un vulcano il Capo Miseno; un vulcano spento, s’intende; ma col suo cono, col suo cratere, come il Vesuvio, salvo che è assai più piccolo, e rovinato dalla furia del mare, che ne rivelò magnificamente l’interna struttura, tanto che i geologi hanno potuto risparmiarsi la fatica di far l’anatomia di un vulcano, per vedere come nascono e crescono quegli animali di nuovo genere, che vivono di ciò che rigettano3. Eccone quì il disegno, ossia uno schizzo piuttosto teorico. Vedete come si distinguono gli strati di materie eruttate, sovrapposti successivamente gli uni agli altri, formanti un cono svasato nel mezzo, e mezzo demolito dalla furia del mare che da tanti secoli ne flagella la base. Tornando dunque a Plinio, egli stava facendo la siesta nell’ora più calda, quando la sorella gli viene a dire che si vede là in fondo, chi sà da quale montagna, levarsi una gran nube, di forma assai strana. — Sorgeva, scrive Plinio nella sua lettera, una nube che, per la forma e l’aspetto, non potrebbe che paragonarsi a un albero, e tra questi, per eccellenza, ad un pino. Essa infatti, distesa in alto, quasi portata da lunghissimo tronco, si diffondeva in rami diversi4. — E non si poteva meglio descrivere, incidere, per dir così, la forma di questa nube, cioè di quel getto di vapori che si slancia dalla gola di un vulcano al momento dello scoppio».

«E perchè piglia quella forma?» domandò tosto la Camilla.

«Non hai mai veduto scaricarsi la caldaja di un battello a vapore, quando è giunto in porto, oppure una qualunque caldaja di una macchina a vapore?... Il vapore a forte tensione esce, ruggendo, dal tubo scaricatore, e si presenta come un getto tutto d’un pezzo, della forma stessa del tubo: ma, giunto a una certa altezza nell’aria, d’improvviso si distende orizzontalmente, in globi vorticosi, e presenta abbastanza bene esso pure, se l’aria è tranquilla, la figura della chioma globosa di un pino, che si distende a modo d’ombrello, sopra un tronco cilindrico, diritto ed asciutto. Ma il pino di un vulcano è ben altra cosa è un pino [p. 407 modifica]gigantesco, il cui tronco si leva alle stelle, la cui chioma si allarga talmente da sprofondare nella più fitta notte intere regioni. Non vi racconto fiabe. L’altezza del pino dovette superare, talvolta, d’assai quella delle più alte montagne, se è vero che le scorie infuocate sono lanciate talora fino all’altezza di 8000 metri (quasi due volte l’altezza del monte Bianco). Ogni volta che il Vesuvio eruppe dappoi, videro i posteri levarsi una nube, quale l’ha Plinio descritta, sicchè i geologi danno senz’altro il nome di pino vulcanico a quel getto di vapore che costituisce il primo, come il più essenziale fenomeno della eruzione di un vulcano. Vedete come è ben espressa la forma del pino in questo disegno della eruzione del 18225».

«Non sono le lave» interruppe Giovannino «il fenomeno principale dei vulcani?».

«Anzi, sono il meno essenziale, oso dire. Moltissime eruzioni non producono correnti di lava: molti vulcani non ne hanno forse mai eruttate. Invece non v’ha eruzione se non vi ha getto di vapore. Un vulcano che erompe, è una caldaja a vapore che scoppia. Tientelo ben a mente, altrimenti non intenderai nulla dei fenomeni vulcanici, come non ne intesero nulla tanti geologi, i quali andarono a sognare degli agenti vulcanici misteriosi, mentre il vero agente veniva lui a mostrarsi sotto forme così visibili e palpabili. Il vero, oserei quasi dire l’unico agente fisico, chimico e meccanico dei vulcani e del vulcanismo è l’acqua a temperatura elevatissima. Vi ricordate quando vi dissi che i vulcani non sono altro alla fine che sorgenti termo-minerali? Me ne ricordo ben io, e fu quando asserii del pari che i petrolî, le salse, i vulcani di fango, le fontane ardenti non son altro alla fine che parziali forme, o modi di presentarsi delle sorgenti termo-minerali. Un vulcano che cos’è? un getto di acqua (o di vapor acqueo che è poi lo stesso) caldissimo e ricco di minerali. È dunque sostanzialmente una sorgente termo-minerale. Ma torniamo un’altra volta a Plinio, e vediamo di non abbandonarlo finchè non ne abbiamo narrato la luttuosa fine.

7. » Plinio dunque, desto dalla sorella, si reca immediatamente sul promontorio, donde lo spettacolo della eruzione doveva dominarsi in tutta la sua terribile grandiosità. Un fenomeno così grandioso, per chi aveva consacrato la sua vita a studiare la natura, e a magnificarne le forze!... Imaginatevi adunque se [p. 408 modifica]Plinio non voleva spingersi fin là dove fisicamente il potesse! Aggiungi che, come uomo di cuore e comandante una squadra, sentiva il dovere di accorrere ove per avventura potessero richiedersi l’opera sua o il suo consiglio. Immediatamente fa mettere sui remi una galera, e, senza dar retta a preghiere e a consigli, ordina di vogare verso il pericolo. Ben presto la galera si trova sotto al tiro del vulcano: nembi di cenere e grandini di pietre la investono. Avanti! avanti! grida ai rematori atterriti. Già è poco discosto dalla spiaggia di Resina, città chi sa quante volte sepolta, e quante volte risorta precisamente al piede del terribile cono. Ma l’impossibile è impossibile: anche la temerità ha i suoi confini, se no, diviene pazzia. Quell’uomo intrepido però non retrocede, ma soltanto si ripiega alquanto, dirigendosi a Stabia, ora Castellamare, il primo luogo ove si potesse approdare senza esporsi a certa morte. Notate che Castellamare è a circa 14 chilometri dal cratere del vulcano. Qui fa sosta, e rotto dalla fatica, si ritira in una casa a dormire. Intanto il Vesuvio infuria; gli incendi si dilatano spaventosamente; le ceneri e le pomici grandinano fitte, e in tal copia si accumulano nello stesso cortile della casa ove Plinio dormiva, che si teme di vederla presto barricata e sepolta. Lo si risveglia. Ma che si fa? Rimanere?... È morte certa. Fuggire? Ma come si fugge sotto un diluvio di pietre? Plinio e i suoi compagni dan di piglio ai guanciali, se ne fanno cappello per parare la testa, e via, sotto la grandine di pietre che li perseguita. Le vittime della eruzione che si disotterrano a Pompei appajono appunto così imbacuccate. Fu quello un terribile momento! Pure si giunge al mare. Benchè di giorno, è notte fitta quanto può esserlo e il muggito delle onde accusa la furia del mare congiurata col vulcano a rendere impossibile lo scampo. I fuggenti si arrestano, e Plinio (bisogna dire che fosse morto dalla fatica) si butta ancora a dormire. Ma ben presto, scrive il nipote, le fiamme e l’odor di zolfo mettono in fuga gli altri, e destano lui. Ma ahimè! Corpulento, e di respiro naturalmente corto, e affannoso, il povero Plinio si sente soffocare. Due servi lo sostengono; ma egli cade, a quanto pare, asfissiato. Il terzo giorno dopo la sua morte il suo corpo fu trovato illeso là dov’era caduto. Anche oggi, dopo 18 secoli, la scienza può lamentare la perdita di un così grand’uomo, mentre con lui perirono tutte le particolarità relative a quella grande catastrofe».

8. «Come?» esclamò Giovannino; «se Plinio il giovane....». [p. 409 modifica]

«Quanto ne lasciò scritto Plinio il giovane voi lo sapete. Nulla c’è da aggiungere. Del resto nessun altro che descriva i particolari di quella eruzione.... nessuno almeno i cui scritti siano giunti fino a noi. Tacito e Marziale, dissero soltanto così per incidente, che vi ebbero città sepolte o distrutte».

«Chi dunque» continuò Giovannino, «ci ha detto che Ercolano e Pompei furono distrutte da quella eruzione!».

«Dione Cassio, che fiorì un secolo e mezzo dopo Plinio, nomina precisamente le due città d’Ercolano e di Pompei e le dice sepolte sotto le ceneri. Ma il suo racconto, attinto, a quanto pare, alle vaghe tradizioni di un popolo così imaginoso, un secolo e mezzo dopo l’avvenimento, è intessuto di tante favole, che la scienza ci si trova assai male. Più che la storia però parlano le rovine di quelle due città. Monumenti, lapidi, medaglie, tutto si arresta all’epoca della grande catastrofe. Nessun documento nè d’Ercolano nè di Pompei oltrepassa l’anno 79 dell’era volgare, in cui avvenne la grande eruzione. Bisogna dire adunque che le due città furono da quella eruzione sepolte. E come non dovevano esserlo? Ercolano giace precisamente sotto al gran cono. Pompei si scopre anche essa alle falde del Vesuvio, benchè più lontana dal cratere che non fosse Ercolano. Ma vedete bene: se le ceneri e i lapilli piovevano a Castellamare così fitti da far temere che ne rimanessero barricate e sepolte le case, a Pompei dovevano seppellirle.... come le seppellirono difatti».

«E Plinio il giovane, non parla dunque assolutamente dell’eccidio di quelle due città?» continuò meravigliato il mio giovine interlocutore.

«Nemmeno un motto. Narrata la morte dello zio pare che gli venga in mente di dover dare a Tacito qualche altro ragguaglio circa una così spaventevole catastrofe, e comincia: Intanto ci trovavamo a Miseno io e la madre. Ma d’un tratto si arresta, e quasi cacciando una tentazione di vaniloquio, esclama: Non vi ha nulla in tutto questo che interessi la storia; d’altronde tu non volevi sapere che le notizie della di lui morte; quindi finisco»6.

«Pillole! non importano dunque nulla alla storia due città distrutte?» uscì a dire la Giannina, dicendo gli altri lo stesso con ogni genere d’interiezioni. [p. 410 modifica]

«Due città a noi note, e chi sa forse altre ignote, e certamente case e villaggi e vittime umane senza numero. Quando si dice che Pompei fu sepolta, si afferma in pari tempo che nulla può essere rimasto nè dell’abitato, nè delle campagne sui fianchi del Vesuvio; che cioè fu letteralmente distrutto, a giudicarne da ciò che è al presente, uno dei più fertili e popolosi distretti che vantasse l’Italia. Quanti lutti! Quanta miseria! Ma, vedete, i Romani ragionavano e sentivano a loro modo. Per un conquistatore, sia popolo, sia re, l’eccidio di una città, l’esterminio di una nazione, sono ancora un nonnulla. Quanto a Plinio il giovane in particolare, se poteva guardare tranquillamente gli uomini che egli faceva scannare nella Bitinia, pur dichiarando di ritenere la religione cristiana come una innocente superstizione; poteva bene numerare senza scomporsi le vittime di un disastro, di cui nè egli nè nessuno aveva la colpa. Ma torniamo al Vesuvio.

9. » Dopo l’eruzione di Plinio (così si suole chiamarla) il Vesuvio passò per diverse fasi. Vi ho detto, se vi ricorda, che i vulcani tutti presentano lì per li la stessa fisonomia e gli stessi caratteri. Uno di questi è l’intermittenza. Oggi, se volete, i furori di una eruzione che minaccia di subissare un’intera regione; domani la calma, il silenzio più perfetto, che dura degli anni, dei secoli. D’ordinario però un vulcano non passa di lancio dal parossismo al riposo, ma vi passa gradatamente presentando quindi diverse fasi, caratterizzate da diversi fenomeni. Il Vesuvio è anche perciò quello che si direbbe vulcano tipo, perchè già più volte, da Plinio a noi, compì il giro delle sue fasi, alternando le cento volte i repentini furori e i lunghi riposi. Bisognerà pure che vi dia un’idea di queste fasi; ma lo farò un’altra volta».


Note

  1. L’isola Giulia nacque nel 1831, tra la costa sud-ovest della Sicilia e la punta più avanzata dell’Africa, a 30 miglia da Sciacca. Dove l’isola apparve lo Schmyth aveva accertato collo scandaglio una profondità di 100 braccia marine (183 metri circa). Il 28 giugno il bastimento capitano Pulteney Malcoln, passando in quel punto subì una scossa. Probabilmente il vulcano sottomarino era già in eruzione, e l’altezza delle acque gli impediva maggiori manifestazioni. A’ 10 di giugno ci passava il capitano Carrao, ed osservò in quello stesso punto un gran getto d’acqua, a cui tenner dietro colonne di fumo che si elevavano ad un’altezza di 550 metri. Di ritorno in quel posto a’ 18 di luglio, lo stesso Carrao scorse la testa di un vulcano in piena eruzione che sporgeva dal mare, formava cioè un’isola conica, con un cratere in eruzione, alto 7 metri all’incirca. L’isola crebbe, sempre in eruzione, sicchè, misurata ai 4 d’agosto aveva la forma di un cono tronco e svasato, alto 60 metri sopra una base di 3 miglia di circonferenza. Essendo cessata l’eruzione, il mare fu presto a demolirla. A’ 25 d’agosto l’isola era ridotta a due miglia soltanto, a’ 7 di settembre a meno di un miglio. Nell’ottobre si vedeva ancora come un mucchio di pietre: più tardi tutto era scomparso. Di quell’isola non rimase che il nome, o piuttosto i nomi, poichè n’ebbe almeno sette: Giulia, Nerita, Carrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.
  2. Un disegno, molto arbitrario certamente, del Vesuvio di Strabone, si trova nell’opera di Daubeny, A description of active and extinct Volcanos. Londra, 1848.
  3. Poullet Scrope, nella sua opera sui vulcani, offre il disegno del Capo Miseno, come una splendida prova del fatto che le montagne vulcaniche si formano, non per sollevamento, come, col celebre De Buch, credevasi universalmente, ma per la sovrapposizione delle materie mano mano eruttate dall’orifizio vulcanico.
  4. Nubes oriebatur, cujus similitudinem et formam non alla magis arbor, quam pinus expresserit. Nam longissimo veluti trunco elata in altum, quibusdam ramis diffundebatur.
  5. Vedi la figura a pag. 401.
  6. Interim Miseni ego et mater. Sed nihil ad historiam, nec tu aliud, quam de exitu ejus, scire voluisti: finem ergo faciam.