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perizia e abilità dei carraresi 393

rimontato un pochino anche la valle di Torano, ritornai in città per fare una rapida visita alle segherie ed alle officine di scoltura. Se vedeste quante seghe, quanti strumenti per lavorare il marmo, e come bene sanno adoperarli gli artefici1. Ma a proposito della loro finezza tanto nel conoscere marmi quanto nel lavorarli, bisogna lasciar dire chi ebbe agio di apprezzarla meglio di me che ci fui di passaggio. A sentir parlare lo zio Carlo si direbbe che i Carraresi odorino il marmo assai meglio del mineralogista e del lapidario, con quell’istinto con cui il selvaggio fiuta il vento assai meglio di un professore di meteorologia. Io son d’opinione, — mi diceva egli, — che in tutta Europa non esista chi più del Carrarese sia esperto nel trattare il marmo. Avvezzo fin dalla nascita a non vedere che marmo, a non apprezzare che il marmo, a non lavorare che il marmo, vi acquista una pratica meravigliosa. — Quand’ero professore a Carrara, — continuava lo zio, — venivano a scuola dei ragazzetti, che sapevano indicarmi di punto in bianco tutti i pregi e i difetti dei marmi, declinarmi il nome di ciascuno, e quello della cava da cui ciascun pezzo proveniva: sapevano in un pezzo di marmo scoprire un pelo, cioè una crepa, quand’io non l’avrei nemmeno sospettata: sapevano di più fabbricare anelli esilissimi per loro trastullo, non solo col marmo, ma con brecce durissime e al tempo stesso così friabili e vetrigne, che avrebbero tradito il colpo del più abile artista.... — Ahimè!... s’è fatto tardi. Buona notte, bambini! Un altra sera ci occuperemo d’altro, chè di marmi dovete esserne sazî».

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  1. Agli studiosi di lingua toscana non sarà discaro di veder riportato il seguente tratto del Vasari, che può dirsi un piccolo dizionario dell’arte di lavorare il marmo:
    Questi marmi si abbozzano con una sorte di ferri chiamati subbie, che hanno la punta a guisa di pali a facce, e più grossi e sottili; e di poi seguitano con scarpelli detti carcagnoli, i quali nel mezzo del taglio hanno una tacca, e così sono più sottili di mano in mano che abbiano più tacche; e gl’intaccano, quando sono arrotati, con altro scarpello. E questa sorte di ferri chiamano gradine, perchè con esse van gradinando e riducendo a fine le loro figure, dove poi con lime di ferro e dritte e torte vanno levando le gradine che sono restate nel marmo; e così poi con la pomice, arrotando a poco a poco, gli fanno la pelle che vogliono; e tutti gli strafori che fanno, per non intronare il marmo, gli fanno con trapani di minore e di maggior grandezza, e di peso di dodici libbre l’uno, e qualche volta venti; che di questi ne hanno di più sorte, per fare maggiori e minori buche, e gli servon questi per finire ogni sorta di lavoro e condurlo a perfezione». (Dalle Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori ed Architetti, vol. 1, pag. 106-107: Firenze, 1846).