Il bel paese (1876)/Serata XIV. - Le sorgenti di petrolio

Serata XIV. - Le sorgenti di petrolio

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Serata XIV. - Le sorgenti di petrolio
Serata XIII. - Da Milano a Tocco Serata XV. - I pozzi di petrolio

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SERATA XIV


Le sorgenti di petrolio.

Il brigantaggio e la scienza, 1. — La piccola Babilonia, 2. — Sgorghi di petrolio, 3. — Magazzini sotterranei, 4. — La caverna petroleifera, 5. — Le fatiche di Ercole, 6. — Il primo pozzo, 7.


1. Eccoci finalmente questa sera alla terza meraviglia, che doveva essere la seconda, anzi l’unica veramente di cui l’ultima volta intendeva parlarvi un po ’ diffusamente, se le idee e le parole non si intrecciassero come le ciliege nel paniere, sicchè, giusta il proverbio lombardo, tirane una, ne vengon dieci.

» Appena ci fummo levati la mattina susseguente del nostro arrivo a Tocco, fedeli alla nostra missione, movemmo tutti insieme per alla volta della sorgente. Dico della sorgente, perchè si parlava di una soltanto, detta sorgente del comune, benchè ce ne fosse un’altra, e forse parecchie. La sorgente del comune sgorga dal lembo estremo della piattaforma, dov’essa si spicca dalla montagna, che si dirama dalla Majella, ma ha il nome speciale di Monte d’Oro. Non so perchè si chiami così: merita piuttosto il nome di Monte dell’Orso, che altri ci suggeriva. Alla sorgente si va per diverse vie. Io preferisco condurvi per quella del piccolo Arollo. Nell’atto di metterci in cammino mi fece specie il vedere come quelli che dovevano servirci di guida erano muniti d’un bravo fucile ad armacollo. — Che? c’è forse paura di qualche cosa! — domandai. — No signore — rispondeva quello che m’era più dappresso, — gli è così.... — Ma non vi sono briganti nei dintorni? — insistevo io, cui non garbava punto di trovarmi muso a muso con quella gente, che sanno per bene impostare un pezzetto delle vostre orecchie all’indirizzo dei vostri congiunti, per averne un buon ricatto». [p. 238 modifica]

«Come! fanno questo i briganti?» interruppe la Marietta.

«Fanno, o almeno facevano, questo e peggio. Ah miei cari! è una cosa orribile il brigantaggio. Tra gli uomini della scienza, benchè dediti a pacifici studî, ci furono e ci sono uomini coraggiosissimi. Questi hanno sfidato e sfideranno la fame, la sete, le tempeste, i geli, le belve feroci. Noi li vediamo intrepidi in mezzo ai furori dell’Oceano, ricercare, per vaghezza d’apprendere gli scogli ove vanno più facilmente a rompere i vascelli; noi li vediamo spingersi nelle regioni dei poli, ove le montagne di ghiaccio intrecciano una danza infernale e minacciano di schiacciare il bastimento come un fuscellino, ove per anni ed anni sono in faccia alla morte, che sta loro innanzi co’ due più terribili fra i suoi strumenti di supplizio, la fame e il freddo: li vediamo perigliarsi sulle più inaccessibili vette delle Alpi, pendere da uno spigolo di ghiaccio che strapiomba sull’abisso: li vediamo attraversare i deserti africani seminati di scheletri, cacciarsi nelle vergini foreste dell’America popolate di tigri. Tutto sfidano quegli apostoli del vero; ma il pugnale del brigante, oso dire, non lo sfida nessuno. Perchè nel cuore di Europa, nella terra della civiltà, da cui gli uomini della scienza si irradiano fino alle isole più remote dell’Oceano, e fin quasi a porre il dito sui due punti, finora vietati dei poli, ove si impernia il globo; perchè, dico, nel cuore d’Europa, sotto i cieli più belli, vi sono regioni più ignote alla scienza, che nol siano la Nuova Zelanda, e l’isola di Melville?...»1.

«E quali sono codeste provincie?» domandavano i più intelligenti dell’uditorio.

«Cercatele nell’Italia meridionale e nella Spagna!... Ma via, lasciamo.... Vi dicevo dunque come io domandassi alla nostra scorta se vi fossero briganti nei dintorni. Dovete sapere che la nostra visita era considerata come un affare di utilità pubblica. Quella gente si sarebbe dunque guardata bene dal fare o dal dire cosa alcuna che potesse stornarla. Non negarono tuttavia che qualche rimasuglio di briganti non si lasciasse vedere fra i solitarî dirupi della Majella. Ma, — dicevano, gente dispersa che si tiene rintanata come le belve feroci, per non cadere nelle mani della giustizia. Del resto, — soggiungevano, — quì in Tocco i briganti [p. 239 modifica]non ci capitarono mai, e saranno i malcapitati se ci verranno. — Oh se io avessi potuto sapere ciò che accadde alcuni mesi dipoi, quando i briganti ci capitarono davvero, e macellarono, forse per private vendette, due dei signori che ci avevano fatto la migliore accoglienza, e condussero prigioniero l’ingegnere che dirigeva le operazioni per la ricerca dei petroli, e che per buona sorte riuscì a scappare; se avessi saputo tutto questo, non mi sarei così presto acquetato alle assicurazioni di quei bravi Toccolani. Ma allora ci credetti in buona fede, nè badai ai briganti più di quello che ci badi ora.

2. » Lasciato il paese alle spalle, e attraversato l’altipiano alla volta della Majella, si discende a un torrentello, nutrito dagli scolaticci e dalle poche sorgenti del Monte d’Oro. Questo torrentello è il piccolo Arollo, confluente dell’altro che ho già nominato, il quale si chiama grande Arollo. Fra le sorgenti che il piccolo Arollo riceve, si novera la sorgente petroleifera, verso la quale c’incamminiamo. Tenendoci nel letto del torrentello, lo andavamo rimontando lentamente, allo scopo di studiare la struttura geologica del suolo, che lo stesso torrentello metteva a nudo, avendo col lavorio delle acque profondamente intagliato il terreno. Così si doveva fare per raccogliere i dati, con cui fissare i punti, ove avessero a praticarsi i trafori con maggiore probabilità di successo. Rimontando adunque il piccolo Arollo, ed esplorando, fin dove si poteva, il paese all’ingiro, e’ mi pareva di trovarmi in una piccola Babilonia. Strati di travertino, alternati a strati di bitume, palesavano antichi sgorghi di petrolio, avvenuti forse mille anni innanzi. Indizî di recenti sgorghi c’erano dappertutto lungo il torrente: le erbe e gli sterpi sulle due sponde erano quà e là impeciati: e una specie di viscida pece occupava talora dei piccoli spazî, principalmente nei seni che il torrente avesse invasi durante le piene. Finalmente arriviamo precisamente dove i dirupi del Monte d’Oro si spiccano nudi, quasi verticalmente dal piano, e, lasciato il letto del piccolo Arollo, a pochi passi sulla sua sinistra ci si mostra un borratello, che è la celebre sorgente del comune».

«Dunque una sorgente di petrolio?» credette di indovinare Giannina.

«Adagio: finora non trattasi che di un ruscello di acqua, ma di acqua solforosa che puzza orribilmente, e sbuca da una cavernuccia, di poche spanne di luce, non altro che un fesso del Monte d’Oro. L’acqua, lasciando il suo speco, prima di buttarsi [p. 240 modifica]liberamente nel piccolo Arollo, è costretta a radunarsi in una vasca, dalla quale, attraversando un angusto canale, passa in una seconda, quindi si dirama per riempire ad un tempo una terza e una quarta vasca, da cui uscendo poi, tutta quanta riunita di nuovo in un solo borratello, arriva in pochi salti all’Arollo. Quanto a quelle vasche, disposte quasi a gradinata in sul pendio, non v’imaginate nulla di bene architettato. Le sono quattro pozzanghere, di cui la più vasta può vantare un giro di 12 metri, o giù di lì: e si ottennero, anzichè scavando il suolo, col cingere un certo spazio d’un muricciuolo a secco, i cui massi sono intrecciati di vimini e sterpi, in guisa da formare piuttosto una graticciata che un muro. E vasche, e muricciuoli, e pendìo, tutto vi è stranamente e naturalmente ingrommato di pece. A dar l’ultima pennellata a codesto babelico abbozzo, manca un tugurio, una stamberguccia a terreno, ove si custodiscono quattro avelli di pietra, da riporvi il petrolio».

3. «Ma codesto petrolio donde viene, se non viene dalla sorgente?» volle sapere Giovannino.

«Viene sì dalla sorgente, ma.... aspetta un pochino. Hai da sapere innanzi tutto che nelle regioni meridionali le lunghe siccità sono a volte a volte interrotte da piogge brevi sì, ma veramente diluviali. Queste piogge hanno luogo specialmente nei primi mesi d’inverno. Al diluviare dell’acqua quella sorgente si gonfia talora repentinamente in guisa straordinaria, e allora si può ammirare il curioso spettacolo della emissione del petrolio. Talvolta l’improvviso squagliarsi delle nevi sul gran gruppo della Majella produce lo stesso effetto. L’eruzione del petrolio mi fu descritta da quei paesani con quel linguaggio poetico, più del gesto che della parola, che io non saprei riprodurre. Quando la sorgente comincia a gonfiarsi, si vedono dapprima guizzare in seno all’acqua limpidissima come dei neri serpenti. Sono filacciche di bitume viscido, quasi sbrendoli di una massa viscosa, strappati dalla violenza della corrente, che li stira e ravvolge in mille tortuosi spirali. La furia dei serpenti ingrossa; e s’inseguono, si pigiano, e spinti nella prima vasca, là si urtano, s’intrecciano, si impigliano, si raggrumano a vicenda, formando delle masse nere, filamentose, che galleggiano sull’acqua. In breve la copia del petrolio è tanta, che l’acqua scompare per disotto, e la sorgente piglia l’aspetto di un fiume di liquida pece, cui la foga dell’onde tende a travolgere nell’Arollo: e ci riesce pur troppo sovente, non ostante quei meschini ripari e quegli [p. 241 modifica]angusti recipienti, destinati ad arrestare quel vischio galleggiante. È un momento di crisi pei poveri Toccolani, a cui è affidata la guardia della sorgente. Talora lo scataroscio della pioggia avviene di notte: bisogna correre, e in mezzo ai turbini d’acqua che diluvia dal cielo ed erompe dalla terra, attendere alla difficile manovra. E non è piccola impresa questa pei meridionali, nei quali parmi d’aver notato una gran ripugnanza dell’acqua, che non è proprio di noi settentrionali, avvezzi a pigliarla sulle spalle forse per la metà dell’anno, anche nei mesi in cui meglio si bramerebbe l’asciutto. Ho detto la manovra essere difficile: e tale è veramente, eseguita con mezzi antediluviani. L’acqua deve, per gli angusti canali, sfuggir di sotto al petrolio, il quale dovrebbe restare a galla nelle vasche. Ma i muriccioli minacciano di sfiancarsi: le vasche rigurgitano: il petrolio trabocca. Poi un petrolio così denso, come quello di Tocco, è appena se galleggi: e quando abbia formato una massa grumosa, si adagia sul fondo e viene spinto dall’acqua, per le aperture di sotto, giù nell’Arollo e via con esso. In fine la è una vera tribolazione. Del petrolio si schiuma quanto si può, e se ne riempiono i poco capaci avelli: il resto se ne vada per quella via che ha seguito liberamente per tanti secoli».

«Dove se ne va?» fece la Chiarina.

«Oh bella!... dalla sorgente nel piccolo Arollo; dal piccolo Arollo nel grande; da questo nel Pescara e dal Pescara giù giù fino al mare. Un fatto da tutti attestato è questo, che il petrolio era talvolta versato in tanta copia nel Pescara, che i pesci ne morivano. Qualche anno avvenne che la pesca delle anguille, di cui il Pescara è assai fecondo, andasse interamente fallita. Dovete sapere che le anguille fanno come gli uccelli di passo. Vivono nelle acque dolci, spingendosi su pei fiumi, fino a trovare sulle maggiori altezze i laghetti alpini, quasi ai lembi delle nevi perpetue. Ma poi, venuta la stagione di deporre le ova, discendono al mare. A suo tempo veggonsi nelle acque limpide dei fiumi quasi delle nubi, che rimontano la corrente. Sono le anguille neonate, sottili come un fil di seta, che ascendono a migliaja, a milioni, e vanno a ingrossarsi nelle acque dolci. La pesca delle anguille si fa naturalmente, come la caccia degli uccelli, quando sono di passo. Guai pertanto se quella pesca coincide con uno sgorgo di petrolio».

4. Quì naturalmente l’uditorio meravigliato volle sapere come mai avvenissero quegli sgorghi. [p. 242 modifica]

«La cosa è semplicissima», ripresi. «Vi ho detto che il petrolio, distillato nel grande laboratorio della terra, si raduna nelle cavità sotterranee. È indubitato che in seno alle montagne di Tocco vi sono vasti crepacci, spaziose caverne, sotterranei canali, dove s’infogna il petrolio, e dove in pari tempo filtrano le acque, che piovono dal cielo, o provengono dalle nevi che sgelano sulle alture. Quando quei sotterranei ricevono una quantità d’acqua che soverchi la loro capacità, essa rigurgita per le aperture che mettono al di fuori, e traboccando con violenza, trae seco il petrolio, che vi galleggia, a quel modo che l’acqua del lesso, traboccando dalla pentola, trae seco l’unto che vi monta a galla in forma di mille occhi. Volete una prova che è così? Vi racconterò una storiella curiosa. Se vi ricordate, oltre la sorgente del comune, ve ne hanno altre.... un’altra certamente, che era detta la sorgente degli Anconitani, perchè certi signori d’Ancona ne avevano acquistato il possesso. Quella sorgente era soggetta anch’essa a sgorghi di petrolio, quanto quella del comune e anche più, e scaturiva dalla sinistra, e quasi nel letto del grande Arollo.

5. » Tra le meraviglie di cui i buoni paesani di Tocco solevano intrattenere i loro ospiti, narravano pur questa: che, alcuni anni or sono, mentre il tempo faceva assai grosso, il grande Arollo era d’improvviso scomparso, e il suo letto veniva immediatamente occupato da una quantità veramente enorme di liquido bitume. Che le acque dell’Arollo si fossero realmente convertite in bitume?... Alcuni pastori ricordavano poi come, essendo bambini, si divertivano a lanciar sassi entro una smisurata cavità che appariva a certa distanza a monte della sorgente petroleifera. Ma quella tana era scomparsa, nè i narratori sapevano indicarne per l’appunto il sito. Ammessa la verità dei racconti ne veniva naturale la conclusione che l’Arollo si fosse gettato un giorno nella caverna, come avvenne talora di certi fiumi, e come avviene pur sempre di certi altri. Che le acque scompajano, come fecero allora, per due giorni, e poi ricompajano; che una caverna in riva al fiume rimanga aperta un tempo, e poi venga distrutta: tutto ciò non presenta nulla di meraviglioso; quando si rifletta all’indole torrenziale dell’Arollo, chiuso in un letto angusto, soggetto a piene improvvise, che può quindi ingombrare e sgombrare, secondo il caso, e apportare non lievi modificazioni al suolo sottomesso al suo governo. Piuttosto, in che modo collegare la scomparsa del fiume entro quella caverna collo straordinario efflusso del petrolio? I signori Anconitani non istettero a pensar troppo, a [p. 243 modifica]quanto pare: ma conchiusero che doveva esistere una comunicazione fra quella caverna e la sorgente petroleifera, e tale che rinviando l’Arollo entro quelle tane, si sarebbe ottenuto l’efflusso del petrolio. Fruga e rifruga, si scopre la caverna fatata a circa un mezzo chilometro a monte della sorgente e ad una distanza non maggiore di 20 metri dal letto attuale del torrente. Non altro rimaneva che ripetere coll’arte l’esperimento già fatto con tanto esito dalla natura.

» Infatti l’Arollo, allora assai povero d’acque, fu deviato, e costretto a trovare un’altra volta la via sotterranea. Caspita! dove se n’è ito là dentro costui, che più non ritorna? Passarono infatti da cinque a sei ore, che furono assai lunghe, senza che giungessero nuove del sotterraneo pellegrino. Quand’ecco si fa sentire presso la sorgente petroleifera, e a grande distanza all’ingiro, un odore puzzolentissimo. Le acque della sorgente si gonfiano, accrescendosi di un volume pari a quello delle acque versate nella caverna. L’Arollo ha dunque trovato la sorgente degli Anconitani, e torna con essa a rivedere il sole. Ma quello che è meglio, ha incontrato per via il petrolio, e se lo trascina seco prigioniero. Infatti le acque si intorbidano, ed eccoti il petrolio uscire a furia. Io devo al signor Carlo Ribighini tutti i particolari relativi a questo singolare fenomeno. Egli assistette personalmente, nei primi d’ottobre 1865, ad un secondo esperimento. Alle sei del mattino s’introdusse l’acqua dell’Arollo nella caverna: alle 11 1/2 ebbe luogo la puzzolentissima emanazione; a mezzogiorno l’acqua della sorgente, schifosamente intorbidata e pregna di argilla cerulea, si gonfiava, e con lei usciva il bitume, gradatamente aumentando. Alle due pomeridiane veniva sviata l’acqua dalla caverna, e verso le 4 1/2, cessato l’efflusso del petrolio, tutto tornava nello stato normale. La quantità del petrolio raccolto in quelle quattro ore circa, risultava da 1000 a 1500 chilogrammi: era liquido, galleggiante, e, come assicura il signor Ribighini, si acconcia perfettamente alla distillazione. Era naturale che l’esperimento si ripetesse: e lo si ripetè infatti più volte, sicchè in quattro giorni di continui esperimenti si ottenne la quantità certo assai riguardevole di 70 o 80 mila chilogrammi di petrolio».

6. «Ma non capisco bene», disse la Giannina, come codesto Arollo potesse trovare il petrolio, trarlo seco....».

«Io per me invece non ci trovo, come ho detto, nulla di strano. Si tratta infine di una buona risciacquata a quei sotterranei, invischiati e sparsi di pozzanghere bituminose. L’Arollo ha fatto [p. 244 modifica]infine ciò che fanno le sorgenti, cioè le acque che circolano sotterra: e quei signori Anconitani non hanno fatto che mettere in pratica quello stesso espediente che Ercole inventò per ripulire le stalle di Augia, risparmiando non so quante migliaja di forconi e di scope».

«Chi è codesta Augia?» interruppe Giovannino, mentre gli altri dicevano lo stesso coi loro occhi incantati.

«Bah! non mi ricordava che oggimai la mitologia è bandita dalle scuole.... Basta.... Avrete almeno inteso parlare in genere delle dodici fatiche di Ercole, cioè delle dodici maggiori imprese di questo Sansone della mitologia. Ora l’ottava fra le dodici è questa appunto a cui alludevo. Augia, non donna ma uomo, e di più figlio del Sole, e re dell’Elide2, possedeva una stalla.... una bagattella, vedete.... capace di tremila buoi: e questa stalla, imaginatevi, nessuno l’aveva spazzata da tre secoli in poi. Ce n’era del concio: ma ce n’era di troppo, poichè il fetore ammorbava il paese, e vi aveva da ultimo portata la peste. Augia che pensa? manda a chiamare Ercole, il quale come aveva diviso una montagna e di un continente fattine due, sfondandovi quello che oggi si chiama stretto di Gibilterra3, poteva bene spazzare una stalla, per quanto vasta si fosse. Ed Ercole, il semidio, di venuto un tantino mozzo di stalla, che fa precisamente quello che si è fatto a Tocco. Piglia un fiume anzi due, come asseriscono alcuni bene informati, e li avvia dentro alla stalla, la quale non è a dire se rimanesse in breve libera da quella sporcizia». 7. «Quelli l’hanno trovato il verso», scappò a dire una delle mamme. «Ora seguiteranno a imbottarvi l’acqua, e a spillarne il petrolio».

«Eh! bisognerebbe che l’acqua, passando per quel buco, [p. 245 modifica]diventasse petrolio; se no, sarebbe come versar acqua nella botte, per cavarne il vino. A furia di cavarne acqua e vino, finiranno per spillare dell’acqua bella e buona. Almeno io credo così, perchè non penso che il petrolio si riproduca poi tanto rapidamente, ma che invece quel viscidume, adunato in tanta copia entro sotterranei, sia un prodotto accumulato lentamente dai secoli. Se l’industria vuol tentare qualche cosa di serio colà, non si accontenti dello spontaneo prodotto delle sorgenti, e molto meno di quello che si potè ottenere con un artificio così fuori dell’ordinario. Ricorra invece ai pozzi, e vada a snidare il petrolio dai suoi mille ricettacoli, come si fa in America».

«E lo potranno trovare veramente scavando de ’ pozzi?» domandò la Camilla.

«Se lo potranno trovare!... domandami piuttosto se l’hanno trovato: poichè noi non partimmo da Tocco se prima non furono date tutte le disposizioni perchè si scavasse un pozzo d’assaggio. Passarono parecchi mesi però, dopo la nostra partenza, misurati dallo sprofondarsi lentissimo del pozzo. Un bel giorno, ecco il telegrafo annunciare ai quattro venti, che il petrolio era trovato. Infatti, quando il traforo ebbe guadagnata la profondità di soli 32 metri, una potente emanazione di gas ne aveva scacciato gli operai. Ma dietro al gas venne il sospirato liquido, il quale, galleggiando sull’acqua, potè cavarsi in gran copia. E l’efflusso continuò, tanto che nei primi tempi s’aveva un prodotto di 600 a 700 chilogrammi per ciascun giorno. Da molto tempo non so più che avvenga del petrolio in quei luoghi».

«Quello dunque era il primo pozzo di petrolio che si scavasse in Italia», credette di poter affermare una delle mamme, in tono d’elogio.

«No», le risposi, «i pozzi di petrolio si scavano in Italia forse da molti secoli; certo da un pezzo».

«Dove?» domandarono parecchi.

«In siti a noi molto più vicini, e dove li andremo a trovare nella prima serata che passeremo insieme. Per questa sera basta così, perchè prevedo che ci sarà molto da narrarvi a proposito di quei pozzi, e non voglio, per troppa fretta, guastar l’argomento».


Note

  1. Nuova Zelanda (New Zealand in ingl.), gruppo d’isole, di cui due così vaste che pareggiano in estensione, prese insieme, la penisola italica e la Sicilia. È al sud-est dell’Australia, quasi esattamente agli antipodi dell’Italia. — Melville, Isola considerevole al nord dell’Australia. Lo stesso nome fu dato dall’inglese Parry a una vasta isola da lui scoperta nell’Oceano Artico a 75 gradi di latitudine, sotto lo stesso meridiano che taglia per mezzo la penisola di California nell’America occidentale.
  2. L’Elide era la contrada tutt’attorno alla punta più occidentale del Peloponeso (penisola di Morea). Essa confinava: all’est coll’Arcadia: al sud colla Messenia; all’ovest col mar Jonio: che la separava dall’isola di Zacinto, oggi Zante: al nord coll’imboccatura del golfo di Patrasso e coll’Acaja. Nell’Elide, sulla destra del fiume Alfeo (Rufià), presso il villaggio di Miraka, si stendeva il sacro paese di Olimpia, ove ogni quattro anni concorrevano tutti i Greci a celebrare la festa del Giove Olimpio con ogni maniera di utili gare, che si chiamarono i giochi Olimpici: Olimpiade i quattro anni fra l’una e l’altra celebrazione.
  3. Le due montagne, che si finsero separate da Ercole, dette perciò anche colonne d’Ercole, sono il monte Calpe, sul quale sorge ora Gibilterra, e il monte Abila, ora Almina, che gli risponde sullo stretto dalla parte dell’Africa. Si crede comunemente che le colonne d’Ercole fossero per gli antichi i confini del mondo occidentale e lo furono infatti per una gran parte dei popoli intorno al Mediterraneo. Ma, assai prima che i Romani arrivassero coi confini del loro imperio alla marina dell’Atlantico, i Fenici avevano navigato fino al Mar Baltico verso nord, e fin presso al Capo Verde verso sud: se pure non fecero tutto il giro dell’Africa.