Il bel paese (1876)/Serata X. - La tempesta di mare
Questo testo è completo. |
◄ | Serata IX. - Loreto e la levata del sole | Serata XI. - La fosforescenza del mare | ► |
SERATA X
La tempesta di mare.
Una giornata di vento, 1. — Il caldo del 1861, 2. — A bordo del Conte Baciocchi, 3. — La tempesta di notte, 4. — Il mal di mare, 5. — Le onde, 6. — L’alba e la Gorgona, 7. — La tempesta di giorno, 8. — A terra, 9.
1. Oh che tempo magnifico!... Possibile dopo tanti giorni di universale macerazione? Eppure è questa la più ordinaria vicenda che presentino le Alpi, tra il febbrajo e il marzo, quando il vento di tramontana col suo soffio potente mette in fuga il pigro scirocco che ha inondato il piano e coperto di neve i monti. Ma a quel vento voi dovete soggettarvi come a un prepotente conquistatore. La sua voce, simile talora al fischio del serpente, tal altra all’ululato di una belva, oppure al gemito di un soffrente, è venuta a rompervi il sonno, nel vostro pacifico letto. Le invetriate che fremono come battessero i denti per la quartana; qualche persiana che, libera di girare sugli arpioni, percuote alternamente il muro e il davanzale; certe usciate come colpi di cannone che fanno tremar la casa e ti fanno balzare tant’alto sul letto; un vetro che si spezza, come un colpo di tam-tam1 seguito da un concerto di campanelli; infine una musica come quella che Dante udi sulla soglia dell’inferno, hanno annunciato anche ai più duri di sonno l’arrivo di quel poderoso.
L’alba spiega sul cerchio dell’orizzonte una larga fascia di un rosso aranciato che è un amore a vederla; il primo raggio di sole è un lampo; l’atmosfera par di cristallo. Le vette delle Alpi a occidente, le Prealpi a settentrione e a levante, gli Apennini a mezzodì, spiccati e taglienti come la lama di un coltello, serrano sull’orizzonte il diadema alla regina della lombarda pianura. Dai fianchi di quelle montagne, che si tingono da lungi del colore del cielo, si staccano le nevi, che ne rivestono le cime, soffici, intatte come pelliccie di ermellino cadenti sopra un azzurro padiglione. Ma il vento soffia, la casa trema, gli usci tentennano, ogni fessura fischia. La polvere sottile, invisibile come uno spirito, par che penetri attraverso alle muraglie e ai vetri, e piglia corpo così, che riveste di denso strato le tavole, i cantarani, gli stipi, dove, scritta in geroglifici, si legge poi la storia d’ogni dito che vi scorse, di ogni oggetto che vi strisciò; insudicia tutta la mobilia, s’insacca nelle pieghe delle tende, dei cuscini, del parato da letto, si caccia dappertutto, cresce come una muffa, a disperazione dei domestici.
Se uscite, eccovi il vento, che se la piglia coi vostri capelli, e vi soffia dentro come fossero un cespuglio, e vi zufola villanamente all’orecchio, o vi ragiona a lungo col tono di un nojoso. La gente, rada oltre l’usato, tira via serrata nei mantelli, a capo basso, cogli occhi chiusi, come se andassero all’assalto incontro alla mitraglia. Qui il lastrico è liscio, netto come una mano; là sepolto sotto piccole dune2 di sabbia e di bruciaglie sormontate da rotoli di lanugine. Le foglie della campagna s’impattono nelle carte della città, e si danno la posta nei seni delle vie, sulle piazzette, nei cortili, ove s’inseguono, si raccolgono, danzano, girano turbinando in balla di un mulinello, che, disegnato dalla polvere nell’aria, si alza, si dilegua, si rifà le cento volte in brev’ora, capriccioso e ribaldo come un folletto. Di tanto in tanto una buffa improvvisa, t’arriva come una ceffata di mano invisibile. È uno scompiglio; tutti si volgono, tutti si storcono in varie guise. Quel giovinotto allegro che fu in tempo a calcarsi bene il cilindro sulla testa, ride a crepapelle di quel brav’omo serio e grave il cui trombone3 volle un istante fare da sè, e ruzzola e scappa e sguscia di sotto la mano, proprio nell’atto che il padrone l’acchiappa. Mantelli, gonne, nastri arruffati, arricciati, contorti in mille pieghe ardite, in mille aerei svolazzi, fanno parer verisimile per un momento l’arte scultoria del secolo decimosettimo: quel barocco che nato al certo in un giorno di gran vento, mise al mondo tante statue, il cui panneggiato si mantiene burrascoso anche nella calma più morta, anche nei luoghi dove a mala pena si respira.
Possibile, — dicevo tra me, — che le mie serate abbiano per nemici tutti gli elementi? — Tuttavia il vento, come suole, calmossi verso sera, con promessa di tornare il dì seguente: ma lasciandoci intanto un cielo così stellato, che l’uscire di casa era una delizia.
«Eh! che vento!» gridarono i nipoti appena fui entrato nella sala. «L’hai sentito stanotte?».
«E’ mi pareva di trovarmi in un bastimento. Non ci mancava che il mal di mare. Povera gente a cui la sarà toccata davvero una tempesta di mare! E non potranno nemmen dire di averla finita».
«Oh a me piacerebbe», disse Tonino, «di vedere una bella tempesta di mare».
«Ebbene, Tonino; la tempesta, vorresti vederla dal lido, o dal bastimento?» domandai io.
«Dalla riva, s’intende.... per....».
«Ah! per essere fuori del tiro, eh?... e lasciare a chi la tocca, la cura di trarsi d’impaccio, lottando corpo a corpo colle onde, che minacciano di inghiottire la nave e i naviganti.... Io invece, se ti piace, ebbi un bel saggio di un divertimento così bello, così gustoso, proprio dal bastimento: e, s’intende, lontano dal lido, in mare aperto, tra cielo e acqua».
«Davvero?...», gridarono più voci. «Racconta, racconta».
2. «Era l’agosto del 1861: l’anno in cui si fece la prima, e finora l’unica, Esposizione italiana a Firenze. L’estate di quel l’anno fu eccessivamente calda. A memoria d’uomini il termometro non era mai montato sì alto nei nostri paesi. Io tornavo da un viaggio nelle Alpi della Savoja, dove, a’ piedi de’ ghiacciai avevo sofferto tali calori, che il caldo di Milano nei giorni più soffocanti mi sarebbe sembrato un rezzo delizioso. Imaginatevi che fin la vetta del monte Bianco era spoglia di neve, e ci si andava a diporto così agevolmente, che un tale ripetè quattro volte in quella stagione la formidabile salita».
«Ma come mai?» interruppe la Camilla. «La vetta del monte Bianco era spoglia di neve? Non v’erano dunque più quelle che si chiamano nevi eterne?».
«Ecco un’osservazione da fanciulla che riflette», le risposi. «Dovevo dire: neve fresca, neve caduta nell’anno; l’unica a cui veramente convenga il nome di neve. Le così dette nevi eterne risultano da un residuo delle nevicate antecedenti che non hanno potuto struggersi nell’anno stesso in cui sono cadute. I residui accumulati di centinaja, di migliaja di anni, costituiscono le nevi eterne, o piuttosto quel complesso di ghiacciai, di nevai, o nevi gelate, che intessono alle Alpi un mantello d’eterna bianchezza. Nel 1861 il calore fu tale, che non rimase residuo delle nevi cadute in quell’anno, e i ghiacciai si ritirarono sensibilmente, come dimagrati per mancanza di nutrimento. Ma rimanevano i ghiacci, e le nevi ghiacciate, accumulate dai secoli. Gli arditi conquistatori delle alpine vette posavano saldo e sicuro il piede sulle antiche nevi ghiacciate, quasi sopra un pavimento di granito, in luogo di affaticarlo con pericolo, affondandolo nella neve fresca e cedevole. Ma veniamo a noi.
» Io tornavo dunque dalle Alpi della Savoja, e, scorsa la Moriana, valicato il Col de la Roue4, l’alto passo delle Alpi, che segue approssimativamente la linea del gran traforo del Cenisio, disceso a Bardonnèche, quindi a Susa e Torino, avevo preso la via di Genova, affine di imbarcarmi per Livorno. Faceva, come vi dissi, un caldo terribile e durava da lungo tempo il bello.... quel bello, capite, che fa desiderare il brutto. Oh quanto si sospira la pioggia, dopo un sereno che vi uccide! Ma la pioggia sospirata non viene pel solito, dopo le ostinate siccità che tra i più formidabili apparati dell’uragano, quasi dispettosa, quasi tratta per forza, fra i lampi, i tuoni, le folgori.
3. » Quando giunsi a Genova durava il sereno; ed io potevo stendere lo sguardo sulla liquida pianura, che si perdeva lontano, lontano, confusa col cielo e scintillava tutta, percossa dai dardi infuocati di un sole, che sembrava ogni giorno accrescere la sua possa, e minacciare di incendio le campagne inaridite. Dimentico del calore sofferto, e divenuto egoista in quel giorno, pensavo con quanto diletto mi sarei la notte cullato sulle onde, lontano lontano dal lido, bevendo le notturne frescure, tra mare e cielo divenuti quasi l’uno specchio dell’altro, sicchè mi sembrava di veder già raddoppiato il numero delle stelle, e di errare ondeggiando in quel mondo di mondi.
» — Qual piroscafo5 parte stasera per Livorno? — domando al cameriere dell’albergo — Il Conte Baciocchi. — Non è certo un nome mitologico: ed io avrei desiderato qualche cosa di più poetico.... uno Scilla, un Elettro, un Argo, un Linceo, un Vessillo, un Fulmine.... che so io?... ma quella sera non partiva che il Conte Baciocchi!... La poesia patisce una scossa.... Si va all’ufficio del piroscafo; altra scossa per la poesia! bisogna metter mano alla borsa e cacciarvela fin verso il fondo. Eravamo quattro in compagnia: io, lo zio Pietro, lo zio Carlo, ed un amico: si pigliano quattro biglietti, e di poesia ne avanza ancora quanto basta per consumare la giornata in allegria, colla sicurezza di passare una notte ugualmente allegra.
» Ma al cader del sole alcuni nuvoloni soffici, bianchi, come balle di cotone scardassato, si veggono sorgere dalla parte d’occidente. Il loro lembo, frastagliato a curve flessuose, splende illuminato dal tramonto. Presto una nuova luce appare a guizzi sul lembo stesso, e segna talora rapidi solchi nel campo nero delle nubi, che vanno dilatandosi. Ecco ad uno ad uno tutti i pròdromi6 del temporale. Un vento fresco rompe, prima a larghi, poi a brevi intervalli, l’afa stagnante sulla città. Da mille parti si solleva un fitto polverio. Nel porto è tutto un ammainare di vele7, uno sdrucciolare di mozzi giù dalle corde, un salire, uno scendere dalle scale volanti, un tramestio senza posa. Il rantolo del tuono segna l’appressarsi della procella, e questa scoppia finalmente, versando torrenti d’acqua sulla città e sul porto, che vanno come sfumando nelle tenebre di una notte, tanto più paurosa, quanto più precoce.
» Imaginatevi, nipoti miei, dove se n’erano iti i bei sogni di una notte stellata, di un mare tranquillo e delizioso. Che augurî, pei novelli argonauti!8 Per poco che l’avessimo potuto, avremmo rinunciato a pigliare il mare quella sera».
«E no ’l potevate?» domandò Giovannino.
«Eh! è veramente singolare la potenza di un biglietto pagato! Io ho sempre trovato che opera come forza irresistibile. Disagi, pericoli.... tutto si sfida per un biglietto pagato. E il biglietto era pagato! irremissibilmente pagato! pagato caro per noi, che i danari abbiam sempre dovuto contarli! L’ora si approssima, e bisogna risolversi. I facchini sono pronti a trasportare il bagaglio; pronti i barcajoli a riceverlo; pronto il guscio, (così si chiamano a Genova le barchette che fanno il servizio del porto) a trasportare noi e il bagaglio al bastimento. Bisogna risolversi e proprio in sul buono; quando, non un temporale, ma una legione di temporali, tutti quelli ch’erano rimasti addietro in sulla via durante la lunga siccità, si eran data la posta sull’Alpi, per rovesciarsi, in fila serrata, sul bel paese.
» Fra i tuoni e i lampi, e sotto un’acqua che veniva giù a ciel rotto, si percorre sul fragile schifo il breve tratto che ci separa dal Conte Baciocchi. Siamo sul ponte, dove il nostro piccolo stuolo s’ingrossa di amici e di conoscenti, compagni di viaggio e di sventura. Ci trovai fra gli altri un brav’uomo che voi già conoscete, quel valente botanico don Martino. Anzi, cui già vedemmo valicare il Zebrù, e che ora recava all’Esposizione di Firenze il suo magnifico erbario. V’era anche un mio giovane amico, un pretino vispo e rigoglioso, a cui non pareva vero di poter allargare un po’ l’ale, dopo averle tenute per tanto tempo raccolte entro le anguste mura del seminario. Egli era il più allegro della brigata.... o piuttosto l’unico allegro in mezzo agli altri, che se ne stavano, qual più qual meno, mogi e pensierosi.
— Eh! gli è un temporale che passa subito: — diceva, con una buona fregatina di mani, l’allegro pretino. -Son quattro nuvoloni che passano, e si lasceranno dietro un cielo stellato. Che bella notte passeremo a bordo!... To’, se avessimo portato un bel mazzo di tarocchi.... Ma forse lo troveremo. Un tarocchino in grembo al mare!... Che bella poesia!... —.
» Bisogna sapere che il porto di Genova è assai ben difeso dai venti, che vengono da mare, per lo che, a dispetto del temporale, se ne stava perfettamente tranquillo. Il mio giovane amico, credeva certamente che la cosa andasse così anche fuori del porto. Ma dal silenzio della brigata si capiva che nessuno era del suo parere. Nessuno poi voleva arrisicarsi con intempestive spavalderie per salvarsi, in ogni caso, almeno il diritto di aver paura».
«E tu avevi paura?» domandò l’Annetta, facendo l’occhietto malizioso.
«Bisogna dirlo:... non ci avevo gusto:... tanto più che mi trovai al fianco un forestiero serio e posato, credo un tedesco, che, levando al cielo un viso più corrugato e più nubiloso del cielo stesso, diceva, spiccando le sillabe con espressione significante: — not-te.... cat-ti-va! —
4. » Ormai battono le otto; un certo agitarsi di marinai, qual che grido di convenzione Le cabine. da parte del capitano, tutto indica che si sta per salpare. L’ancora è levata, il gran bestione comincia a farsi sentire, e sembra, colle prime manovre, alternare il soffio del gatto col ringhio del cane. Si ode un fischio acuto, prolungato; una scampanellata.... e le ruote cominciano a girare, battendo l’acqua colle robuste ale, e con tonfo, prima lento e misurato, poi rapido, incessante. Il piroscafo si move dapprima adagio quasi studiando il sentiero attraverso quel labirinto di bastimenti, così fitti nel porto di Genova, le cui antenne, colle vele ammainate, figuravano una foresta di alberi sfrondati dalla grandine, biancheggianti come fantasmi al chiarore dei lampi. Eccolo ormai libero, all’imboccatura del porto.... rasenta gli argini più avanzati, fiancheggia le artificiali scogliere, costrutte a difesa degli argini contro il furore delle onde, e pi glia bravamente il largo....
» D’un tratto ci sentiamo portati in aria di peso noi e il bastimento; poi in un subito ci sembra di precipitare negli abissi, quasi una voragine si fosse spalancata d’improvviso per ingojarci. Era la prima ondata di mare già grosso.... Io credo che tutti i visi divenissero in quel punto pallidi e flosci come cenci. Dico credo; perchè la fitta oscurità ci rendeva tutti ugualmente di quel colore che non ha colore. Fatto sta, che senza passarci parola a vicenda, come branco di topi che infilano il buco al rumore di una pedata, tutti, l’un dietro l’altro, guadagnammo il boccaporto e infilammo la scaletta, che ci conduceva alle nostre cabine».
«Che cosa sono codeste cabine?» chiese la Lucia.
«Imaginatevi di essere in una stanza che serva di libreria, le cui pareti siano coperte da scaffali, divisi a palchetti, come gli scaffali ordinarî da riporvi i libri. Invece dei libri mettete in ciascun palchetto un letticino: cioè un materassino, un guancialino, un lenzolino, una coltrina.... tutto in diminutivo, poichè quel lettuccio stretto, corto, è fatto perfettamente a misura di una persona di proporzioni molto ragionevoli, che sappia dormire senza troppo distendersi, senza troppo sbracciarsi, e sopra tutto senza dar le volte, sotto pena di un capitombolo. Ciascuno di noi aveva il biglietto portante il numero della cabina che gli era destinata.
» Giunti, come vi dicevo, in quel salotto, potei verificare ciò che avea supposto; vedere cioè, come il Conte Ugolino,
«Per quattro visi, il mio aspetto istesso».
5. » Tutti avevano perduta la favella.... Quel pretino, così vispo, così persuaso di passare una notte beata, diede appena due tentennate, poi di lancio, sgusciando, senza far motto, come una biscia inseguita, tra le gambe de’ compagni, si cacciò nella prima cabina, che incontrò a terreno.... sua o non sua, non importa.... e diè tosto principio al gioco».
«De’ tarocchi?» domandò la Gigia.
«Sì davvero!... un bel tarocco, se provassi;... il gioco del mal di mare.... capisci?».
«E che cos’è codesto mal di mare?».
«Che cos’è?... Vi potrei rispondere come rispose Tonio di Belledo9, quando volle dare quella tale definizione del fulmine».
«Come?» chiesero in coro; «Tonio di Belledo ha dato una definizione del fulmine?».
«Non la sapete questa storiella?... Un giorno, in un crocchio di campagnoli, insorse una gran disputa; che cosa fosse il fulmine. — È un aria, un vento, — diceva uno. — È una palla di fuoco, — diceva un altro. — È un sasso infiammato, — gridava un terzo; compare Mattia lo raccolse una volta, e aveva la forma di un cavicchio acuto10. — Tonio, presente alla discussione, lui che aveva da lungo tempo fatto amicizia col fulmine, essendocisi trovato una volta a tu per tu, quando cadde veramente sulla sua povera stamberga, così che era rimasto accecato dallo splendore, assordato dallo scoppio, scosso fin nell’ultima fibrilla, Tonio, dico, credette d’avere, più che tutti gli altri insieme, diritto di parlare. — Il fulmine!!! — gridò egli cogli occhi stralunati, col viso acceso, puntando l’indice in alto, come chi annuncia una grande scoperta. — Il fulmine ve lo dirò io che cosa è il fulmine. Il fulmine è una tal cosa, che.... corpo di mille bombe!... una cosa simile.... per tutti i diavoli dell’inferno!... una cosa simile.... una birbonata, vedete? che.... quando uno l’ha veduta.... per.... uno non se ne dimentica più in eterno!... —
In coro: — Ah! ih! oh!... —
«Che bella definizione!» saltò a dire Giovannino, il quale sapeva un pochino come il fulmine non sia che l’effetto di uno squilibrio della elettricità, la scarica di una bottiglia di Leida, una scintilla elettrica che passa dalle nubi alla terra. «Che bella definizione!...».
«Eppure quanti vi hanno fenomeni sorprendenti, che vediamo ogni giorno, e di cui non sapremmo dare una definizione migliore Quanti fenomeni, cui gli scienziati, codesti uomini che sanno tutto, che guardano in isbieco anche il Signore del cielo e della terra, il quale, a sentirli, ha fatto il mondo perchè loro gli han prestate le seste; quanti fenomeni, ripeto, codesti scienziati, quando fossero sinceri, dovrebbero definire, lì per lì, come Tonio ha definito il fulmine! Per esempio, io credo che il mal di mare sia una di quelle malattie, che i più bravi medici definirebbero come il fulmine.... una cosa tale, che.... corpo di mille bombe.... quando uno l’ha avuta, non se ne dimentica più. Domandatene ai mille che hanno sofferto il mal di mare. Chi vi dirà che è il peggior male che si possa patire! Chi: — non parlarmene, chè me lo fai venire, quel brutto mostro! — Chi vorrà darvi ad intendere di aver avuto la testa nello stomaco, e lo stomaco nella testa! Chi vi assicurerà di aver desiderato, di aver invocato uno scoglio, per farla finita.
» Ma, in fine, direte voi, che cos’è codesto male? che cosa si sente?... Vi dirò: comincia la testa a ballare, come fosse imperniata sul collo; e tutto gira colla testa, e la testa gira con tutto, come quando voi ragazzi, vi divertite a far trottola di voi stessi. Poi tutto il corpo pare rimescolarsi; quindi una nausea, una nausea orrenda, che finisce con un vomito così indiavolato, così implacabile, che non c’è rimedio a scongiurarlo. Pensate a quei poverini che passano le ore, i giorni, in questo atto così contro natura, contro gl’istinti più normali, che umilia, atterra, annichila. Non è vero che un uomo che vomita, sia colpa, sia caso, è un uomo annichilito fisicamente e moralmente?... Del resto il mal di mare ha gradi e forme diverse. Ci ha di quelli che ne son presi, si direbbe, soltanto alla vista del mare, mentre altri ridono, mangiano e dormono, nel furore della tempesta. Vedreste talora impassibile colui, che per la prima volta ha posto il piede sul bastimento; mentre soffre orribilmente il marinajo, che ha sfidato l’oceano, a cui il mare è il proprio elemento, come ai pesci. Tornando al nostro tempestoso salotto, capite ora il gioco cominciato da quel tale dai tarocchi, il quale se lo ebbe di qualità fina talmente, che tre o quattro giorni dopo, incontratolo a Firenze, e non aveva ancora ricuperato intero l’uso della favella. I compagni la durarono un po’ più a lungo; ma poi l’uno dopo l’altro si ricoverarono anch’essi nella loro cabina.
» Io pure mi cacciai alla meglio nella mia, mettendomi a giacere supino su quel lettuccio così avaro di spazio».
«E cominciasti anche tu quel brutto gioco, n’è vero?» domandò Chiara.
«Non posso rispondere nè sì, nè no. Per buona fortuna, io non ho pagato mai al mare quel tal genere di tributi, benchè sembrasse volerlo esigere per forza e mi trovassi per la prima volta con esso alle prese. Già s’intende che fui tra i pochissimi privilegiati. Ma vi dico che il malanno l’avevo addosso, da ricordarmene per un pezzo. Era il mal di mare sotto una delle sue forme, le quali son tutte brutte. Là, disteso su quel lettino, come corpo morto, non potevo muovere un dito, senza che mi sentissi rompere il cervelletto, come fosse di vetro tagliente; e sudavo, sudavo, con tal profusione da sentirne interamente molli il corpo, le vesti, il giaciglio che la era una vera miseria. Io credetti davvero di struggermi tutto in acqua, come fossi un uomo di neve. Rimanevami però intanto tutto il possesso di me, vo’ dire la piena consapevolezza, per cui potevo badare, riflettere, gustare anche quanto vi poteva essere di gustoso in quella disgustosissima situazione.
6. » La tempesta, in luogo di placarsi, sembrava aggiungere furore a furore. Le onde, le quali, in luogo di vederle, le sentivo, erano spaventevoli. Di tratto in tratto il bastimento sembrava portato di peso sulla vetta di una montagna, ed io con esso. Là su quella cima, sembrava arrestarsi in bilico, oscillante, barcollante; un minuto.... due.... tutto era calma.... pace perfetta..... Ma ad un tratto la montagna sembra sfondarsi! il bastimento è in aria.... e precipita nel vuoto colla violenza di un grave cadente.... giù, giù.... lo spavento fa la discesa eterna! Tu lo segui precipitando con esso; ma e’ ti sfugge di sotto, ti abbandona, quasi corpo fluttuante per l’aria.... finalmente siamo al fondo.... Misericordia! va proprio il bastimento a sfracellarsi sul fondo del mare! Tutto cigola, tutto schricchiola, quasi in quell’istante si sfasci.... È un momento orribile! impeti di vomiti destano i poveri assopiti: qualche grido di donna che si dibatte nel prossimo camerino,... qualche sedia che si rovescia.... che cos’è stato? Niente; il bastimento è ancora tutto d’un pezzo; io ci son tutto ancora; ci son tutti i compagni, e si ricomincia a salire, poi a discendere, e via via con questa grandiosa altalena.... Intanto sentivo il vento stridere, gemere, ululare, come entro la selva. Il cordame si sarebbe detto un organo, di cui ogni canna suonasse a piacer suo; era un concerto veramente infernale. Talvolta quando la musica toccava i massimi acuti, un’onda di fianco, rovesciandosi sul bastimento, lo sforzava a rispondere con un colpo di gran cassa.
» Ma in mezzo a quel frastuono, voi rimarreste colpiti da quel silenzio profondo, che, si direbbe, ravvolge la tempesta. Solo di tratto in tratto, mi ferivano i rintocchi di una campanella, che trasmetteva, io penso, gli ordini del Capitano. Del resto, silenzio.... nessuno vi parla.... nessuno ha un conforto nè da dare, nè da chiedere.... il moto è quasi impossibile.... l’abbandono è completo:... voi e la tempesta. Eravamo ben lungi da quegli estremi, che ci spaventano, anche soltanto leggendoli sui libri. Non era uno di quegli uragani, che schiantano gli alberi, spazzano il ponte con un’ondata, sfiancano la nave, e se la pigliano in bocca, quasi direi, come una tigre la sua preda. Vi assicuro però, che quel senso di abbandono dell’uomo solo in lotta coi più terribili elementi, quell’impiccolimento davanti alla natura, quel sentirsi pulcino fra gli artigli dell’aquila, topolino nelle ugne del leone.... oh vi assicuro che quella sensazione la provai, profonda, incancellabile. E all’uomo, annientato a fronte di quegli elementi, così ciechi, eppure così terribili, che a ore a ore cadono inerti o sorgono con impeto irresistibile, come si rivela quella potenza misteriosa, che sovrasta alla natura, che impera ai mari e gli obbediscono11, che mite e severa, buona e giusta, rimuneratrice e vindice, talora sparge nel tranquillo sereno del cielo gli splendori del sole, e il sorriso delle stelle, talora scatena le tempeste.
«Use sull’empia terra, |
Oh come in quegli istanti di lotta si svolge, quasi dallo stesso nulla che vi atterra, il sentimento di quanto più sublima l’uomo! L’uomo, il quale è solo capace di sollevarsi al di sopra della natura, di contemplarla, benchè tutta in rivolta, con occhio di sovrano, rendendo a Dio soltanto il ragionevole ossequio della sua fede e del suo amore.
7. » Scorse alcune ore di patimenti e di angoscie, parve spandersi una certa quiete. L’occhio mi si velò. Non potrei dire nè quando pigliai sonno, nè quando mi svegliai; poichè in quello stato di sconvolgimento fisico, e di eccitamento morale, la veglia e il sonno si assomigliano fra loro assai. Tuttavia dovetti aver dormito un bel pochino, poichè ci fu un istante in cui mi accorsi che l’alba entrava inaspettata pel finestrino della mia cabina, e ci entrava con tutti i colori di un alba bella e sorridente, affatto ignara della tempesta che aveva resa più corrucciosa la notte. La luce del di nascente andava scemando gli orrori della tempesta, che non sembrava si pronta a cedere il luogo alla calma. Voltomi a giacere sul fianco, stetti osservando attraverso il finestrino, che mi vedevo di fronte. La mia cabina era sul lato sinistro del bastimento, il quale allora guardava tra settentrione e levante; sicchè attraverso il pertugio, che mi stava rimpetto, l’occhio cadeva tra mezzodì e ponente. Al raggio crescente del mattino, vedevo li presso un enorme scoglio comparire e sparire alternamente, con un moto di su e giù, quasi montagna danzante sul liquido piano, Guardavo, guardavo, e quello scoglio, di bigio si faceva porporino, quindi d’un color croceo dorato, accusando un bellissimo sole nascente. Côlto il momento che un marinajo, franco e robusto, mi passava vicino, gli domandai: Che terra è quella? — La Gorgona, —— risponde. Tosto mi sovvenni di quei versi di Dante
Movansi la Capraja e la Gorgona, |
» Codesti versi trovansi nel canto ove si descrive la morte del Conte Ugolino», interruppe Giannina. «Me ne ricordo benissimo; ma non ho mai inteso che volessero significare».
«Hai però inteso come Dante abbia voluto, con quella poeti tica imprecazione, segnare con marchio di eterna infamia l’inumanità dei Pisani, i quali, condannando il Conte Ugolino, come traditore, a morir di fame, gli associarono nell’orrendo supplicio gl’innocenti suoi figli. L’indignata fantasia del poeta, maledicendo a tanta barbarie, vorrebbe che le due isolette, la Capraja e la Gorgona, sorgenti dal Mar Tirreno, in faccia alle foci dell’Arno, venissero a porsi, come diga, allo sbocco del fiume, sicchè, sotto l’Arno rigurgitante, Pisa rimanesse affogata. Il nostro bastimento si trovava adunque assai presso la Gorgona, la quale, per l’ondeggiar del vascello, pareva che si movesse, quasi accingendosi à mettere in effetto la terribile imprecazione. Se voi anderete da Genova a Livorno, sarà difficile che passiate così vicino alla Gorgona, la quale dista almeno trenta miglia dalle foci dell’Arno, ossia dal Porto di Livorno. Ma la tempesta aveva costretto il Capitano a tenersi al largo.
8. » Il vento spirava ancora gagliardo, e ancora ferveva la danza delle onde. Ma la luce del giorno, e l’ira della tempesta, alquanto rimessa, m’incoraggiarono ad uno sforzo, il massimo di cui mi sentissi capace in quel momento. Mi levai a sedere sul letticciolo, e mi affacciai al finestrino della cabina.... Quale spettacolo!... Avevo letto tante volte degli squarci, ove si descrivono tempeste di mare. Tutte quelle descrizioni sono, dirò così, stereotipe12: inevitabile vi è poi il paragone delle onde colle montagne. Anch’io, se dovessi pubblicare la descrizione della tempesta di cui vi parlo, troverei inevitabile questo paragone. Io non so ancora comprendere come una tempesta, in fondo assai ragionevole, e già sul calmarsi, anzi già sensibilmente rabbonita, abbia potuto pareggiare, dirò anche superare quell’ideale, che io mi ero formato leggendo descritte le più spaventose procelle.... parevami di essere.... non esagero.... in cima alle Alpi, di vedere (come lo vidi, per esempio, dal Piz Langard nell’Engadina13) quel complesso di creste, il quale, alla sua volta, vorrebbe essere paragonato col mare ondoso. L’aspetto il colore è lo stesso; una tinta di zaffiro, e le somme creste bianche, candide.... e il tutto dipinto, fuso nel fondo azzurro, quieto, immenso del cielo. Ma là, sulle Alpi, sono onde immobili, fisse, petrificate; qui sul mare sono mobili; montagne che s’inseguono, scompajono, si rifanno, si rimutano senza posa. Talora il bastimento poggiava sulla cresta spumeggiante di una di quelle liquide montagne, e lo sguardo libero spaziava sull’immenso mare, scorgeva le bianche vele, quasi tese sulle onde, di lontani vascelli; e andava a posarsi sulla terra disegnata da una gran lingua di nubi sul remoto orizzonte, ultime reliquie della notturna procella. Poi a modo di chi sdrucciola da un ripido pendio, mi trovavo in fondo a una valle, fiancheggiata da liquide rupi, dominata da vette spumeggianti, ove si frangevano nei colori dell’iride i raggi del sole. Era uno spettacolo indescrivibile.... I grandi piaceri, le grandi commozioni, non sogliono esser con cesse che in premio al coraggio, e come corona degli sforzi più generosi. Ma quanto mi parve smisurato il godimento in paragone del lieve mal essere che mi era costato!... Basta.... la terra si avvicina.... già scorgesi distintamente il faro di Livorno.... siamo presso al porto; l’onda flagella, e scavalca le dighe; ma il piroscafo lo imbocca sicuro, e siamo entro il recinto appena agitato per la comunicazione del moto propagato dall’onde, che infuriano al di fuori. Tutti si erano levati, ed eran saliti sul ponte, anche le donne. Son quelle pel solito che soffrono maggiormente il mal di mare. A vedere quelle toelette disordinate, quelle chiome scarmigliate, quegli occhi semispenti, quei visi fiochi, sparuti, quelle facce contraffatte da un lungo patire, la era cosa che faceva pietà.
» Uno sconosciuto, che mi trovai al fianco per caso, guardando quelle figure così rifinite, Dopo la tempesta. sentii che diceva: — E’ pare che escano or ora dal veglione.... — Che strano paragone! Non capisco, dissi tra me, che ci abbia a fare una tempesta con un divertimento di carnevale. Ma non avevo voglia allora di domandare spiegazioni. Si vede proprio che il mal di mare annichila, mette addosso un’apatia singolare, se uccide fin l’ambizione delle donne....».
Dalle risa sguajatelle dei bambini, e dal ridere un po’ forzato delle mamme, mi accorsi d’averne inventata una troppo grossa e detta un’altra ancora più grossa.... ma eran dette.... quindi continuai:
9. «Non ci rimaneva che di sbarcare. In breve, alla scaletta per cui si discende, si era adunato un mondo di barchette, tutte a contendersi la misera preda. Con tutta la voglia di mettere il piede sul sodo, e di trovare una camera che non dondolasse, bisognò prima superare una seconda tempesta di barcajoli; poi una terza di facchini, di doganieri, poi una quarta di servitori di piazza e locandieri. Ma finalmente eccoci all’albergo.... To’ che non me ne ricordo.... via, un albergo eccellente, a vista di mare. Ma, che volete? La non era finita. Le case sembrava che mi facessero il solino14; il pavimento si sarebbe detto di guttaperca, sfondandosi e come ondeggiando ad ogni passo; la camera ballava vorticosa; e quando mi buttai sul letto, anch’esso andava su e giù, sicchè mi pareva di trovarmi ancora nella mia cabina. Ma a poco a poco cessò anche questa stregoneria, e, dopo una buona dormitina, di quelle che si fanno in un buon letto, sulla terraferma, trovai che tutto era saldo; potei mangiare, uscire a passeggio, ammirare la bella Livorno, visitare il Cisternone15, e sopratutto deliziarmi contemplando dall’Ardenza16, un mare che delle ire della notturna tempesta, ricorda solo quel tanto che basti a togliergli l’uggia della calma; un mare tutto di zaffiro, a screzî di diamanti; un mare che si agita, con palpito immenso, sotto un limpidissimo cielo, ove il sole dardeggia di nuovo in tutta la sua possanza, e inargenta le schiume, rotolanti sulle arene, quasi cordone interminabile di soffice bambagia, e converte in gemme di sale gl’infiniti spruzzi, onde sono roridi dalla tempesta i fioriti cespugli, e le verdi siepi, di quegli incantevoli viali. Il dì seguente partii per Firenze co’ miei compagni di viaggio».
Note
- ↑ Strumento chinese, consistente in una specie di bacinella di una lega metallica straordinariamente sonora, che si percuote a modo di tamburo.
- ↑ Lunghe strisce di monticelli di arena accumulati dai venti sulle terre marittime, sui deserti, in genere sui piani sabbiosi.
- ↑ Trombone dicono a Milano per celia il cappello a cilindro o cappello tondo.
- ↑ A occidente della via del Cenisio, o paralleli ad essa vi sono quattro valichi alpini, ossia quattro sentieri affatto alpestri, che mettono in comunicazione la gran valle savojarda della Moriana (Maurienne), percorsa dal fiume Arc, colla valle italiana della Dora-Riparia, che sbocca a Susa. I quattro valichi, o meglio i quattro colli che incidono le Alpi nel punto più elevato di quelle vie alpestri, sono, contandoli da est a ovest, il Col d’Ambin, il Col d’Ettache, il Col de Frejus, e il Col de la Roue. Quest’ultimo, il più occidentale dei quattro, si trova risalendo la Dora-Riparia da Susa a Oulx, quindi da Oulx a Bardonnèche, seguendo poi approssimativamente una retta condotta da Bardonnèche a Modane nella Moriana. A Bardonnèche si trova l’imbocco meridionale, e a Modane l’imbocco settentrionale della grande Galleria ora sostituita al valico del Cenisio. La linea sotterranea del traforo taglia le Alpi, precisamente tra il Col de la Roue e il Col de Frejus.
- ↑ Battello a vapore, dal greco Skafos (battello) e Pyros (di fuoco); battello mosso per forza di fuoco, ossia di vapore ad alta temperatura.
- ↑ Segni precursori, che precedono.
- ↑ Ritirare le vele perchè il vento non vi possa.
- ↑ Argonauti, navigatori favolosi, che sulla nave Argo andarono con Giasone dalla Grecia nella Colchide, sulla riva più orientale del mar Nero, alla conquista del Vello d’oro, ricca spoglia di un montone favoloso.
- ↑ Terra del circondario di Lecco.
- ↑ Si allude alle belemniti, genere di fossili, abbondantissimi in certi terreni. Le belemniti erano molluschi, molto simili ai polpi e alle sepie volgarmente seppie, armati posteriormente di un rostro, ossia di una punta testacea, in forma di zipolo. Ordinariamente di que’ molluschi, ora interamente spenti, non si trovano conservati che i rostri, i quali dagli antichi erano ritenuti fulmini caduti e infissi nel suolo, come indica il nome di belemniti, da belemnon, parola che in greco significa dardo, saetta, e quindi anche fulmine.
- ↑ Evangelio di s. Matteo, VIII, 27.
- ↑ Voce greca, da stereos (solido) e typos (impronta) che indica, una foggia particolare di stampare. In essa i caratteri di ciascuna pagina son tutti uniti da piede in una sola massa di getto. Ogni pagina quindi è tutta d’un pezzo, e non si può scomporre, ma serve, tale quale, per molte edizioni di seguito, non vi si potendo più mutar nulla.
- ↑ Valle dell’Inn (anticamente Eno) nel cantone dei Grigioni, in Svizzera, fra l’alto bacino del Reno, e la Valtellina.
- ↑ Il barbaglio prodotto dal riverberare de’ raggi del sole sull’acqua, sugli specchi, su ogni cosa che lustri molto e si mova. Ha nel popolo e negli scritti di molti nomi: occhibagliolo, sguizzasole, illuminello, colombina, indovinello, lucciola, ecc. Peccato che la voce solino lo confonda con quella parte della camicia che cinge il collo. A Milano gli danno un nome, secondo il solito, molto poetico; lo chiamano la gibigiana.
- ↑ È un gran serbatojo d’acqua potabile, nel mezzo della città.
- ↑ Magnifico passeggio, anzi pubblico giardino, fuori della città, lungo il mare.