Il bel paese (1876)/Serata VII. - Da Milano al Salto della Toce
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SERATA VII
Da Milano al Salto della Toce.
La brina, 1. — Invasione di nipoti, 2. — Cascate delle Alpi, 3. — Il lago Maggiore, 4. — La Val d’Ossola, 5. — Vall’Antigorio e Val Formazza colle impronte degli antichi ghiacciai, 6. — Un po’ di Flora alpina, 7. — Il salto della Toce, 8. — Arretramento delle cascate, 9.
1. I fiori di primavera, le bionde spiche d’estate, i grappoli d’autunno, gli splendori del sole, il pallor della luna, il sibilo dei venti, la terribile maestà delle procelle, ecco i perpetui ritornelli del poeta, continuamente rapito dagli spettacoli della natura, or lieta e sorridente, or severa e minacciosa, grande, potente, bella, provvida sempre. Ma a chi passò mai per la mente di parlare della brina, se non per maledire in essa il simbolo della vecchiaja? Però nel cantico sublime dei tre Fanciulli, in quella splendida rassegna di tutte le bellezze del creato, anche le brine son chiamate a benedire il Signore dell’uomo e della natura insieme coll’immensità de’ cieli, coi fulgori del sole e delle stelle, coll’ampiezza dei mari, coi monti, con le nubi, le folgori, le pioggie, le grandini, le nevi1.
Ditemi: non vi fermaste voi mai ad ammirare la brina? Voi sorridete di compassione. Forse non ve ne ricordate che, per aver corse più frettolosamente le vie, spirando il fiato a globi di fumo, quasi comignoli ambulanti. Se vi avesse visti l’abitatore del Sùrinam2, al quale dee certo parere una strana novità, che possa pigliar corpo un soffio, vi avrebbe creduti uomini d’altra specie, mostri che gittassero fumo e fiamme. Voi forse, o freddolosi, invidiate agli abitatori del Sùrinam e del Sahara l’estate perenne; io, no di certo; chè se non ci fossero ben altri malanni, non vorrei rinunciare allo spettacolo della brina.
— Davvero? — Almeno l’avrei pensata così ai tanti di dicembre dell’anno di grazia 1871. Che meravigliosa brinata! Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. È una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi una velatura, che non nasconda, ma armonizzi le bellezze di un quadro. La natura ha mutato veste; smesso il verde, ch’è il colore di cui preferisce intessersi il manto, smesse le mille tinte che ne formano il finimento, ha indossato una veste candida, come una vergine assorta nel silenzio della preghiera.
Tutto tace nella campagna. I ruscelli scorrono senza mormorio sotto il ghiaccio, quasi sotto una volta di cristallo smerigliato; i torrenti sono gelati od asciutti; le mandre fumano sdrajate nelle tepide stalle; i cani giacciono accovacciati, in uno stato di dormiveglia; i gatti fan le fusa accosciati in un angolo del focolare; gli uccelli randagi, nunci a noi sempre della primavera che nasce e dell’autunno che muore, simboli de’ falsi amici, intuonano sotto altri cieli le loro canzoni. Solo si vedono di lontano i corvi disegnare una larga macchia nera sulla bianca di stesa de’ campi; e di tratto in tratto, a voli brevi e furtivi, i passeri si slanciano dai comignoli al piano, o lo scricciolo3 dal cespuglio alla macchia. Tutto tace.... ma no.... di chi è questo sibilo, breve, acuto, penetrante come uno spillo, che mi ferisce l’orecchio? Sono il fiorrancino e la cincia codona4, che rompono il silenzio della campagna col loro ingenuo zi-zi. Sono specie diverse; ma s’intendono colla stessa favella, e s’accompagnano nella stessa vita avventurosa. Sono i nostri colibri. Ma i colibrì americani si dilettano del sole, e succhiano i fiori, come le farfalle: bellimbusti effemminati, che un freddo alito atterra. I nostri sono piccoli spartani; cuori grandi in piccol corpo.
Poveri uccellini! donde venite? dove andate per questo deserto, cui non rallegra nè un fiore, nè una foglia? E voi cantate? cantate ancora come quando, di primavera, vi affannavate per dolcissima sollecitudine intorno al nido della prole futura? voi cantate come quando d’autunno, lieti di libera prole, vi spandevate a sciami, invisibili signori delle montane foreste? —
— E perchè no? Quel Dio che ci ha tessuto questo bel mantellino, così giusto alla vita, così soffice, così calduccio, ci avrà sparso anche il becchime sul sentiero del deserto, su cui ci siam messi per ubbidirlo. —
Tutto tace di nuovo, e il silenzio si accorda coll’uniformità dell’immenso bagliore che copre, come un magico velo, il monte, il piano, la valle, i villaggi, le città. Tutto investe, tutto penetra la brina, a quella guisa che il musco riveste i tronchi dal lato che guardano a settentrione, o la muffa i corpi fracidi, nascondendovi, sotto il manto della vita, il terribile lavoro della corruzione5. Le piante hanno rimessa, quasi per incanto, la chioma, ma quella chioma è canuta. I fiori e le foglie son di cristallo; ogni fronda è un vezzo di diamanti; ogni erbetta un serto di gemme.
Che sono mai quelle filze di cristallini che descrivono una curva così vaga tra i rami, quasi monili pendenti dal collo di ninfe invisibili, o son tese come corde dall’uno all’altro, o pendono oscillanti come orecchini? Ecco: i ragni avevan trovato il modo di rendere così fini i loro fili che il sole non li scoprisse; ma la brina ne rivela il misterioso ordito, al cui segreto si affida la vita insidiosa di quegl’industri animaletti.
Volgiamoci alla città. Come in giorno di sagra si suol rivestire di musco gli archi trionfali, secondandone tutte le linee architettoniche; così la brina ricorre gli spigoli dei tetti, delle facciate, dei monumenti. Cornici, barre, cancelli, tutto è disegnato in rilievo da essa. Anche i fili telegrafici s’ingrossano in funi di cristallo. — Perchè a quel muro, roso dal tempo, fradicio per l’umidore, si abbarbica di preferenza la brina e l’adorna di ciuffetti cristallini delicatissimi? Saranno i muschi, le erbacce nudrite dallo sfacelo, incrostate dalla brina, come l’erbe del prato.... Ma no; se li esamino, quei ciuffetti non hanno anima dentro; se li tocco si sfanno; li direste forme aeree e quasi fantastiche. Volete sapere che sono? sono i filamenti cristallini del nitro, sottili sottili come i fili d’una ragnatela e a cui la brina dà lume e risalto contornandoli d’una nuova cristallizzazione posticcia.
Vedi sino ai fessi dei chiusini che coprono le fogne, si foderano di brina, e il misterioso soppanno s’ingrossa, finchè rimangono turati da un massiccio di candidi cristalli. Perchè qui più che altrove si spiega l’attività della natura?... Ah, ecco! ora intendo come si formino i filoni di minerali in seno alla terra; intendo perchè ogni crepaccio di monte diventa uno scrigno di gemme e di metalli preziosi. Come i vapori acquei, che esalano dalle fogne umide e caldiccie, tappezzano di bianca brina i fessi dei chiusini ove s’imbattono nella fredda atmosfera, così i vapori gemmiferi e metalliferi, spinti dagl’interni calori verso la superficie del globo, incrostano di cristalli le cavità ove si raffreddano.
Mentre lo sguardo si alterna tra la campagna e la città, scoprendo sempre nuove meraviglie; ecco sorgere il sole. Che? è il sole, quel disco rosso, senza raggi, senza splendore? — Netto, tagliente come un disco di rame appena passato al laminatojo, ma nulla più: tu lo fissi colla pupilla immobile come lo guarderesti dipinto sopra una tela. Eppure se osservi le vetriate che ne riflettono l’igneo splendore, si direbbe che per le case divampin gl’incendi. Anche la bigia arena che ricopre la via, è divenuta una congerie di gemme. Passeggi per campi, ed ogni cespuglio, ogni erbetta ti dardeggia per sorpresa un nembo di raggi di vario colore; e ognuno degl’infiniti cristalli, onde scintilla il manto della terra, ti aspetta per lanciarti un dardo improvviso; cento iridi ti folleggiano d’intorno; tutto brilla e lampeggia.
È pur meravigliosa e multiforme la natura nella semplicità de’ suoi mezzi! Qual occhio è si acuto, che scorga gli atomi di vapore, a mille a mille vaganti nella lucida atmosfera? Ma da quel tenuissimo vapore, quanti spettacoli allo sguardo! quanta vita all’universo! Da quegli atomi invisibili piglian corpo d’un tratto le nubi, talora immobili quasi enorme cappuccio sulla cima del monte, talora erranti, a guisa di pecorelle pascenti, ne’ campi del cielo; talora distese, a modo di velo funereo, sulla faccia del globo; talora a gruppi, a schiere, come una legione di mostri, lanciati alla corsa, tra il guizzo dei lampi e lo scoppiare dei tuoni. Quegli atomi invisibili, condensati in goccie, generano le pioggie che cadono a scroscio e gonfiano il torrente e inondano il piano. Quei vapori cingono di aureola variopinta la luna, imperlano colle stille della rugiada il grembo dell’erbe e dei fiori di primavera, e son quegli stessi vapori che, rappresi dal gelo, in finissima polvere di stelle cristalline6, o quasi in falde di morbida bambagia, nutrono la perenne canizie delle Alpi, e distendono d’inverno un bianco lenzuolo sul piano. Son dessi quei vapori che, pigliando il nome di brina, incrostano il mondo di gemme.
Ma il sole si è fatto più alto; il suo disco sfavilla; lo sguardo più no’l sostiene.... Ahimè! gli alberi perdono a ciocche a ciocche la loro chioma posticcia; la natura ha spogliata la sua candida veste; i suoi brillanti sfumano, come le giovanili illusioni; rimane il nudo inverno, colle sue foreste brune e scheletrite, coll’erbe gialle e stecchite, co’ torrenti ghiacciati, col gelato suo soffio, co’ suoi brevi splendori, col suo morto silenzio. Solo, sparsi sui colli più aprichi, i radi sempreverdi custodiscono gelosi il colore della speranza. L’inverno è la realtà della vita, co’ suoi disinganni, co’ suoi dolori e le cure e le angoscie; la realtà della vita ove il godere, che è così scarso, anzichè nel conseguimento, sta nella speranza del bene.
2. Venuta la sera, una nebbia folta, immobile e serrata come un lago di acqua stagnante, levossi sull’orizzonte, riempiendo le vie, i giardini, i cortili, le porte delle case. Dai vetri appannati e goccianti del mio studiolo, la nebbia traspariva come una bigia muraglia edificata contro alla casa senza alcun distacco. Solo i più vicini dei fanali a gaz, trasparendo d’in sulla via, rompevano il bigio uniforme di quella muraglia, come piccole radure nel fitto di un cielo piovoso e nero. Era una di quelle freddissime sere d’inverno in cui volentieri ci condanniamo a stare in casa. Ma il pensiero mi portò, mio malgrado, al solito ritrovo de’ miei nipoti, a cui avevo fatto sperare la solita conversazione. Che fare? Sentivo, a dir vero, un po ’ di rimorso di tradire l’aspettazione di quei buoni giovanetti e delle mamme, le quali contavano sulla mia conversazione, come sopra uno specifico per tenerli occupati e quieti. Ma una leggera costipazione, un po’ di tosse, mi porgevano una scusa.... un pretesto. Poi, dicevo fra me, quod differtur non aufertur;7 ciò che non si fa oggi, si farà giovedì venturo. Chi sa fors’anco che, con questo freddo, non se ne stia ciascuno a casa sua? In questo caso l’uditorio sarebbe troppo incompleto.
Mi decisi dunque di starmene rincantucciato; e sedetti alla scrivania in quell’acconciatura e in quell’atto a un dipresso, in cui se ne stava don Abbondio almanaccando sopra Carnèade8, e ignaro della tempesta che gli pendeva sul capo. Quand’ecco uno schiattire lontano, poi sempre più vicino, un cinguettio, un cicaleccio, un pestio di passi affrettati in sulla scala, quindi spalancata la porta, gridi, urli.... per amor del cielo!... tutta l’orda dei nipotini con le rispettive ombre materne. I più piccini entrarono primi, trafelati, ansanti, urtandomi con poca riverenza; poi i più grandicelli un po’ più contegnosi; finalmente le mamme, a discreti intervalli l’una dall’altra, perchè la scala è lunga, e le moli da portar su, più o meno considerevoli.
«Diacine!... con questo freddo.... quà, badate.... obbligato.... vedete se c’è seggiole per tutti.... là, subito.... in cucina a prendere quelle di stiancia9.... quì, sulla poltrona, ci state in due.... sul canapè in sei.... tu, Gigia, quì.... su questo panchettino.... Beppino, to’ quest’altro, portalo alla mamma, e dille che ti lasci posto da sedere anche tu.... Presto, Teresa, mettete al fuoco la padella delle bruciate....». Lascio intanto gli evviva, i complimenti, il parapiglia.... In breve l’uditorio era lì tutto tal quale, mutato solo di luogo e, valuta intesa, bisogna raccontare.
3. Mentre stavo pensando di che lo dovessi intrattenere, Giovannino, sempre preoccupato delle bellezze della Svizzera, uscì a dire: «Tu ci hai raccontato meraviglie delle Alpi Italiane; e devon esser belle davvero. Ma le Alpi Svizzere.... Con tanti luoghi che ci hai descritto, non t’è avvenuto mai di nominare una cascata. La Svizzera si ne vanta di famose, il Giessbach, lo Staubbach, il Reichenbach e tante altre....».
«Se non v’ho mai nominato una cascata, ciò vuol dire che nei luoghi finora descritti non se ne incontra nessuna che sia meritevole di speciale menzione. Non c’è tuttavia ragione di conchiudere per questo che le Alpi Italiane difettino di sì pittoreschi accidenti. Di cascate nelle nostre Alpi e nelle nostre Prealpi.... fin che ne volete. La cascata di Pianazzo sulla via dello Spluga, quelle del Serio in Val Seriana, del Brembo in Val Brem bana, della Troggia in Valsassina, e ben altre ancora sono tali che non ci lasciano in nulla invidiare quelle della Svizzera. Sai tu Giovannino dove si trovi la più grande cascata delle Alpi? precisamente in Italia».
«Possibile», sclamò Giovannino. «Di quale cascata intendi parlare?»
«Oh bella! Della italianissima cascata della Toce. Essa mi richiama uno dei più deliziosi viaggetti alpini ch’io m’abbia mai fatto, e se volete ch’io ve ne intrattenga....».
«Sì, sì»; dissero in coro gli astanti, ed anche Giovannino si pose in silenzio ad ascoltare.
4. «La mattina del 25 agosto dello scorso anno (1870) ero Rocca d’Angera. alla stazione di Milano ed entravo in un convoglio della ferrovia. Che bella mattina! Un’aurora di fuoco imporporava le vette che fanno corona alla pianura lombarda. Portato dal vapore, col capo allo sportello, rinfrescato dalla brezza che mi arruffava i capelli, tenevo lo sguardo fisso a settentrione sulle nostre Prealpi, e vedevo passarmele davanti in rassegna, quasi un esercito di giganti. Primo il mio Resegone colle creste dentate; poi le due Grigne slanciate verso il cielo a foggia di piramidi; poi l’acuto Bisbino, e dietro a lui il massiccio Generoso; poscia il gran dente del Poncione di Ganna, e in ultimo il Campo de’ Fiori, che digrada con una serie di colli fino alla sponda del lago Maggiore. Allora, volgendo lo sguardo a occidente, vedevo spiegarmivisi davanti, quasi una tela sullo sfondo di un palco fantastico, le Alpi, colle creste eternamente candide, dominate dal monte Rosa, che teneva rivolta all’Italia la sua fronte spaziosa, colle sue nevi prima porporine, poi bianche di abbagliante splendore. Attraverso, come di volo, le ridenti colline di Gallarate; sono al Ticino, e passatolo sul ponte che cupo sono, eccomi, dopo brevi istanti, ad Arona. Arona!... Si può egli vedere niente di più bello?
Laghi, perenni fonti, aure beate10.
» Come è vago in ogni canto questo giardino d’Italia! Con che ebbrezza salimmo sul piroscafo che ci doveva portare sulle onde di quell’incantevole bacino! e quando udimmo il tonfo misurato delle ruote e vedemmo allontanarsi la sponda, quasi per ispiegar meglio ai nostri sguardi i suoi incanti, fu un momento delizioso.
» Tu guardi a destra e l’ameno borgo di Angera si specchia nel lago e gli sorge a tergo una ignuda rupe, sviscerata dai cavatori di marmo carnicino11, che lavorano quasi sospesi nell’aria. La Rocca corona il dirupo colle sue mura severe e pittoresche colle sue torri ancora quasi intatte; e dietro la Rocca si slancia l’aereo monte S. Quirico, che leva il rosso cucuzzolo di porfido da una verde collana di colli, di cui l’hanno cinto gli antichi ghiacciai col frutto delle loro rapine12. A sinistra Arona che si guarda allo stesso specchio della minore sorella, e dietro Arona una rupe. Su questa le rovine di un’altra rocca, dove venne alla luce il grande Borromeo e più in alto i colli, ove il famoso colosso disegna sul fondo purissimo del cielo la colossale figura di S. Carlo, in atto di benedire alla sua patria diletta13. In mezzo il lago, quell’immenso zaffiro, colle sue morbide gradazioni di ceruleo e di verde, che si dilata e sfuma lontano lontano, perdendosi in uno sfondo, ove si disegnano cime d’ogni forma che si soverchiano, si addossano con mille curve, e mille seni, e mille frastagli, con tutti i riflessi di luce, quasi nubi temporalesche che spuntino dal fondo dell’orizzonte a cielo sereno.
» Il piroscafo fende le onde, celere e acuto come un dardo Monte S. Quirico visto da tramontana. il lago si allarga in immenso bacino, e le isole Borromee sorgono dalle acque, come mazzi di fiori sporti al sole, che tutto inonda di sua luce. La è una vera fantasmagoria, un sogno, un delirio piacevole. Ho veduto più volte questo lago Maggiore; e sempre m’è apparso nuovo, sempre più bello. Uno vorrebbe passarci la vita.... Ma via, molti di voi l’hanno visto, l’hanno stato, e io arrischio di guastarne loro l’imagine, non isperando al certo di abbellirla. Mi affretto dunque alla meta: la Val Formazza e la grande cascata.
» Eccomi disceso a Suna, che è come il punto di partenza per chi voglia visitare la gran valle della Toce; poichè questo bel villaggio è, si può dire, allo sbocco di quel fiume alpino, che distese il suo delta tra il Margozzolo e il Montorfano, celebri per le cave di granito, le quali, come diedero già le colonne al S. Paolo di Roma, inviano ora il lastrico alle vie di Queretaro nel Messico. Dalle foci del fiume rimontare fino alle sue sorgenti, era questo il mio voto.
5. » Un modesto cavalluccio, se non divora, almeno batte la via che da Suna guida alle falde del Montorfano. Girato questo da tramontana eccoti lo specchio tranquillo del lago di Margozzo, quindi il paese che gli dà il nome, e siamo nella Val d’Ossola. Questa, che si dovrebbe dire Valle della Toce, è, come tutte le grandi valli alpine, trista piuttosto e monotona, tutta incisa com’è in quegli schisti cristallini, cui il tempo tinge di una ruggine nera, così uggiosa e uniforme. La Toce serpeggia, segnando una striscia angusta nel vasto letto che si è preparato da secoli. Le parti basse della valle sono coperte di prati, di vigneti, di colti; le alte di boschi, da cui traspajono, quasi dagli strappi di un manto verdecupo, le brulle rupi. Frequenti macchie biancastre indicano le cave di béole14, che quei paesi forniscono così belle ai terrazzi cittadini. Tra queste macchie volgari vanno di stinte le due più nobili, quelle delle cave di Gandoglia, da cui si trasse quella montagna di marmo scolpito che si chiama Duomo di Milano, e l’altra delle cave di Vogogna, de’ cui marmi si fabbricò a Milano l’Arco del Sempione.
» Sul pomeriggio giunsi a Domodossola, capitale della valle, imbandierata a festa in quel giorno per quella stessa solennità scientifica di cui v’intrattenni già così lungamente. Trattavasi, voglio dire, dell’adunanza dei membri del Club alpino15, tenutasi appunto il 28 di quell’agosto in quella città. Io c’era andato per partecipare alla geniale riunione; ma non informato sufficientemente degli usi di quel Congresso, a cui prendeva parte per la prima volta, ci arrivai, come si suol dire, a compieta, appena in tempo di stringere la mano agli amici che vi erano accorsi, e trovarvi dei graditi compagni nella spedizione, ch’era il mio scopo principale. Non potevo essere infatti più fortunato; all’alba del 29 eravamo sei, in una capace vettura a due cavalli, che doveva portarci fin dove è permesso di studiare geologia senza scomodarsi di troppo.
6. » Passammo il ponte, sotto cui, da una forra angusta e terribile, una delle più belle dell’Alpi, il torrente della Val di Vedro, venendo dal Sempione, si getta nella Toce; e cominciammo a salire, rimontando la valle, che si ripiega bruscamente a settentrione, pigliando il nome di Vall’Antigorio ove comincia, e quello di Val Formazza ove termina. La prima parte, cioè la Vall’Antigorio, è assai pittoresca; ma non ancora impressa delle severe bellezze dell’Alpi. Queste ci appajono soltanto più su, nella Val Formazza la quale davvero merita di figurare, senza tema di confronto, tra le più stupende gole dischiuse nella grande ca tena. Si lascia la vettura a S. Rocco, e si continua la salita a piedi, per un sentiero praticabile ai cavalli. Da S. Rocco al Salto della Toce, vi saranno cinque ore di faticoso cammino.... che dico cinque ore di delizie, in seno ad una fenditura profonda che ad ogni tratto muta d’aspetto, ma sempre maestosa e vorrei dire sublime. Se prima si camminava fra gli schisti e il gneiss che si sfaldano in lamine sottili, ora ti vedi in mezzo a graniti, che rotti in prismi giganteschi, danno alle montagne l’aspetto di edificî eretti da tal razza di giganti che i Ciclopi16, al paragone, dovevano parere pigmei. Forse in nessun altro luogo il geologo può ammirare nè così eccelse, nè così chiare, le impronte degli antichi ghiacciai. Quando questi signori dei più sublimi recessi pigliarono le mosse, e spinti da una forza misteriosa, a guisa di un esercito, si cacciarono giù per le gole alpine, varcarono i limiti della grande barriera, si dilagarono nel piano, e convertirono in deserti le amene regioni dei nostri laghi17; il ghiacciajo del Gries, ora così romito nel fondo della Val Formazza, ove dà perenne nascimento alla Toce, si mosse anch’esso. Pigiato entro l’immenso strettojo di quella gola, dovette naturalmente reagire con estremo vigore contro le rupi che gli serravano i fianchi. Le ineguaglianze scomparvero sotto la immane lima; ogni punta rimase ottusa. Ora tu vedi i lati di quella valle formar talora delle pareti verticali, tutte d’un getto, ridotte allo stesso piano, quasi lavorate allo scalpello. Talora in vece quelle rupi ondeggiano flessuose, disegnando, direbbesi, dei grandi dorsi di montone18. Le striature, le scanalature, che percorrono tutte quelle rupi così levigate, parallele alla valle, affermano il passaggio dell’antico ghiacciajo con quella medesima certezza, colla quale le orme di un piede umano, improntato nella neve o nel fango, ci dicono il passaggio di un uomo. Talora però il lavoro del ghiacciajo è distrutto; l’atmosfera, le acque, l’alternare del gelo e dello sgelo, ne hanno scomposto l’ordito. I fianchi dei monti si sono spezzati; le torri sono crollate. Frane immense, enormi cataste di grandi massi, accosciati l’uno contro l’altro, l’uno all’altro addossati, rotti, bilicati nelle condizioni più strane d’equilibrio, veri campi di battaglie di quegli antichi giganti che assalirono Giove nell’Olimpo19, accusano il ciclopico lavoro del tempo, che demolisce i continenti, come un giorno li edificò.
7. » In mezzo a quelle rovine trovò pur modo di radicarsi l’abete, e sorse a coronarle de’ suoi verdi enormi pennacchi. Mi sta ancora scolpito nella fantasia il magnifico passo che si apre a un’ora circa da S. Rocco; la cupa gola sembra schiudersi d’un tratto, tra ignuda frana a destra, e una congerie di rupi a sinistra, che pinge al vivo il disordine del caos. Una vergine foresta di pini (Abies excelsa), una vera selva di sformate antenne che sfidarono il furore di mille bufere, copre di ombre fantastiche il caotico abisso. Il torrente mugge orribilmente, quasi smarrito in quel labirinto di rupi. Le sue spume bianche non appajono che a tratti a tratti, in gorghi isolati.... Oh quanto ho desiderato allora di essere pittore!
» Ma, sormontato quel caos, la valle si apre di nuovo, e piglia la forma di un bacino allungato, di un bel piano, tutto verdeggiante di prati fioriti, cinto da ignude rupi. Quale contrasto tra quelle rupi così nere, irte, selvagge, e quegli incantevoli piani! Come sono ridenti questi giardini delle Alpi, in cui il sole di agosto converte i terreni che il gennajo seppellisce sotto montagne di neve! Fiori di mille aspetti, di mille colori, spiccano sul fresco verde di quegli erbosi tappeti, dove folleggiano scherzosi i venticelli, dove corrono a gara i ruscelletti di cristallo, che vanno a gettarsi gorgogliando in seno al torrente. Talora una specie si isola, formando un bel gruppo di famiglia, a cui succede un altro gruppo di altra specie, più numeroso, più bello del primo. Talora invece i diversi gruppi si alternano, si mischiano, s’intrecciano, si fondono in un sol quadro, uno di quei quadri che la sola natura sa dipingere. Spiccano, per la loro infinita abbondanza, le selvatiche cicorie dalle stelle d’oro, frastagliate a guisa di raggiante aureola, dondolanti sul lungo gracile stelo. Con loro gareggiano le campanelle, che seminano il piano di lapislazzuli e zaffiri, e le margarite che cingono di bianca aureola il bottone dorato. Sparso in piccoli gruppi, in macchiette, in cespugli rosati, tu vedi le eufrasie che sembrano stringere tra le labbra candide o violette una stelluccia d’oro; i geranei tinti del più schietto carmino e le lychnis dai cespi ametistini, e le veroniche dalle spiche cerulee, e la viola tricolore, dai fiori bianchi e gialli a screzî di bruno, e la viola biflora colla sua invariabile coppia di fiori gialli, e il timo odoroso, e cento altri, che vanno confusi e perduti, ove il bello soverchia il bello e lo nasconde20. Dove ombreggia una siepe, là come rubini perduti fra i muschi, cogli le fragole deliziose; dove gorgoglia un ruscello, spiega isolate le sue stelle d’oro la calla palustre21.
» Chi crederebbe che questa valle, tepida e profumata deva, col volgere di qualche mese, convertirsi in isquallida landa? che tutto deva scomparir sotto immensi cumuli di neve, e che gli echi di quelle rupi, ora ridesti dai lieti gridi dei montanari, dai nitriti dei cavalli, e dai muggiti delle giovenche, non ripeteranno, in mezzo a un silenzio di morte, che il tuono funesto delle valanghe?22 Chi non innalzerebbe qui un inno al sole, che muta in giardini fioriti i deserti più spaventosi?
8. » Eccoci oramai a Calza, credo l’ultimo villaggio abitato durante tutto l’anno. La valle si stringe di nuovo fra due nere rupi e si fa cupa, severa.... Che cosa biancheggia d’un tratto là in fondo?... È la cascata.... La cascata della Toce, la più bella, la più poderosa fra le cascate delle Alpi23. Ho ammirato anch’io quelle tanto celebri della Svizzera, il Giessbach, il Reichenbach, lo Staubbach, il Pissevache; ma esse si fanno piccine a fronte di questo salto maraviglioso.
» La scena ha qualche cosa di solenne. Un immenso anfiteatro di rupi nere si spiega davanti all’attonito sguardo. Le pareti ignude di granito nero ond’è formato, sparse di vaste chiazze di gialliccio e di bianco, sono sormontate a destra e a sinistra da due montagne ignude ugualmente e nere, ma rotte, irte, dentate. L’arena di quell’anfiteatro, coperta d’un gran tappeto verde, è sparsa di migliaja di massi, di rupi prismatiche, a spigoli vivi, strappate dai secoli alle montagne d’intorno, e buttate a giacere alla rinfusa. Di fronte l’anfiteatro è inciso in tal modo, che l’occhio corre liberamente verso lo sfondo della valle. Ove quello sfondo si apre, una serie digradata di rupi a dorso di montone, si avanza sulla destra della valle, a modo di scena, e si arresta a breve distanza della sinistra. Qui un’altra rupe, ugual mente arrotondata, le fa riscontro. Al suo piede sorge l’albergo, edificato sull’orlo dell’abisso. Un vano, un’intaccatura, quasi un canale aperto da umano scalpello, in seno a quella barriera di rupi, apre l’unica via alla Toce, che giunta d’un tratto sull’abisso, vi si precipita senza freno, orribilmente muggendo, con un salto di 130 metri, formando un fiocco della larghezza di 26 metri, e chi sa quanto largo nelle piene maggiori. La rupe, da cui si precipita il torrente, non è propriamente a picco, ma forma una parete un po’ inclinata, e ripartita in molti scaglioni, quasi ciclopica scalea, sui fianchi della quale cresce qualche scarso filare di abeti.
» Il torrente, già diviso in più cascate dove il salto incomincia, si suddivide, scendendo, in mille svariatissime cascatelle. Quale batte la rupe in forma di bianco fiocco e rimbalza, divisa in un nembo di spruzzi; quale si lascia sdrucciolare giù giù, lieve lieve, sulla roccia levigata, come un filo di bambagia, o come nastro ondeggiante di seta bianca; quale si sparpaglia, disegnando una rete a maglie d’argento, o cento tessuti diversi che di continuo si scompongono e si rifanno. Grado grado scendendo, spinte ora a destra ora a sinistra, s’incontrano, si azzuffano, si accapigliano. Ma la cascata è una; e a vederla svolgersi, e rimutarsi sul fondo nero, o bigio di quella fantastica scalea, la non si potrebbe paragonare che a una gran chioma bianca, disciolta e agitata dal vento. Una nebbia leggera, a guisa di aureola perenne, si leva sull’abisso; e quando il sole dardeggia, l’iride vi si posa tranquilla, immobile, vero simbolo di pace in tanta guerra.
» Pieni, ma non sazî, di quello spettacolo, essendo ormai vicina la notte, non ci rimaneva che di raggiungere l’albergo. Dal piede della cascata vi si giunge salendo un angusto faticoso sentiero a ziz-zag che si attiene alle rupi sulla sinistra della valle. Faticoso, qui vuol dire erto; poichè non può certo affaticare un sentiero che fiancheggia la cascata da cima a fondo, che te la presenta in tutti i suoi graziosi particolari, che ti impone mille soste per rinnovarti le mille volte il diletto.
» In fine ci siamo. Un albergo, servito da gente onesta, in tal sito, con buona compagnia, dopo una giornata di quella natura, è anch’esso (bisogna confessarlo) una cosa deliziosa. Mangiai con insolito appetito; mi addormentai al fragore della cascata; mi destai al suono della stessa musica solenne. Era una mattina stupenda. Dal pittoresco bacino, ove serpeggia la Toce prima di raggiungere il salto, chiuso a valle da quei colli arrotondati, ridenti di una flora alpina ancora superba benchè già decimata dai primi soffi del precoce autunno24, e cinto sempre all’ingiro da ignude montagne, si prospettavano le prime vette nevose, da cui trae la Toce perenne alimento. Tutto invitava ad una salita sul ghiacciajo del Gries, ove si trovano le vere sorgenti della Toce; ma i giorni sono contati, e sono contati anche i piaceri. Si discese quindi; contemplata di nuovo a mane quella cascata, che ci parve ancora più bella, mentre il sole del mattino la tra sformava tutta quanta in un bollore d’argento, si rifece la valle collo stesso diletto».
9. «Quanto sarei lieta» disse Camilla se potessi un giorno visitare quella cascata! Dev’essere proprio uno spettacolo stupendo».
«Via; la cascata della Toce non è poi così lontana. Ma quando potrai intraprendere qualche bel viaggetto, bada a non volere soltanto procacciarti il piacere, che ci arreca la vista dei grandi spettacoli della natura; come non vorrei che dalla conversazione di questa sera riportassi soltanto il diletto di aver udito la descrizione di una cascata».
«Oh, no» soggiunse Camilla «mi pare di avervi apprese tante belle cose che non sapeva».
«Ma non già che cosa sia una cascata: voglio dire che cosa rappresenti nel sistema della natura, in cui tutto è previsto tutto ordinato ad uno scopo».
«Anche le cascate?» seguitò la Camilla. «Son esse altro che un semplice abbellimento del paesaggio alpino?».
«Varrebbe come a dire che i fiori furono creati per semplice ornamento. L’industria dell’uomo ha pensato ben diversamente, e non bastandole le cascate naturali, ne ha create di artificiali a mille a mille. Quante migliaja di officine compiono un lavoro multiforme, sorprendente per la forza che esige, non ricevendo altro movimento che da una cascatella, creata lì per lì col portare un ruscelletto all’altezza di qualche metro, lasciandolo poi cadere sulle pale di una ruota. Non vi fa meraviglia quando vedete, per forza di un po’ d’acqua cadente, un rude masso di ferro, passare e ripassare fra due cilindri pur di ferro, e uscirne convertito in sottilissimo filo? Pensate di quale forza meccanica dev’essere capace un torrente come la Toce, che salta da un’altezza di 130 metri. Fa spavento il pensarvi. Ma di tali cascate se ne contano a centinaja; e ve n’hanno di quelle a petto delle quali il salto della Toce non è che il filo d’acqua che gronda da un tetto. Avete mai sentito parlare del salto del Niagara?».
«Chateaubriand» rispose pei bambini una delle mamme «ne dà una stupenda descrizione nel suo Genio del cristianesimo».
«È vero. Imaginate che il Niagara, fiume del Canadà, è un qualche cosa su per giù come il Po, misurando fra il lago Erié e il celebre salto una larghezza di 3 miglia. Imaginatevi il Po che precipiti tutto d’un pezzo da un’altura di 50 metri. La terra ne trema e a 50 miglia di distanza odesi il fragore della cascata, e veggonsi gli spruzzi, condensati in folta nebbia, levarsi dall’abisso come il fumo di un vasto incendio. Or bene, il Niagara è fatto apposta per mostrarvi in grande ciò che può ciascuna cascata in proporzione delle sue forze. Una cascata, capace di dar moto a tante macchine, è poi essa medesima una gran macchina, che lavora, lavora, giorno e notte, senza mai permettersi un minuto secondo di riposo. Essa può col tempo mutare interamente la faccia di un paese».
«Come mai?» chiese la Rosa. «Una cascata è sempre lì al suo posto. Non è vero che la Toce spicca un salto, poi ripiglia il suo corso cheta cheta, come non fosse nulla?».
«Eh sì, mia cara! La natura non ha mai fretta, mentre noi ne abbiamo troppa di nascere e morire. Se dovessimo rinascere di qui a mille anni, vedremmo se la Toce spicca il suo salto ancora in quel posto. Ma se non possiamo rinascere per vedere che cosa sarà capace di fare una cascata in capo a mille anni, possiam ben misurarne il lavoro, già eseguito in tante migliaja di anni prima che nascessimo».
«Non capisco»; ripigliò la Rosa.
«Capirai, se rifletti ad un certo punto della mia descrizione. Vi ho detto, n’è vero? che il salto della Toce si presenta sullo sfondo d’un anfiteatro, quasi di una gran fossa, chiusa all’ingiro da pareti a picco. Ebbene, quella fossa fu scavata dalla Toce; è il lavoro ch’essa ha compito chi sa in quante migliaja di anni. Il fenomeno di cui vi parlo vi si presenterà evidentissimo da sè, visitando quella qualunque cascata che abbia pure una certa potenza. Perchè si formi una cascata ci vogliono delle condizioni orografiche speciali. Bisognerà che un bacino montuoso, un altipiano, dove si raccolgono le acque pluviali per formare un torrente, termini bruscamente con un gradino a picco, o almeno con un pendio molto scosceso. Giunto il torrente allo spigolo di quel gradino, dovrà naturalmente precipitarvisi, formando una cascata. Tali condizioni si verificano in fatto dovunque se ne presenti una; tuttavia non troverete mai che un salto appena potente raggiunga lo spigolo di quel gradino che è il termine dell’altipiano. No, vi assicuro che, andando a visitare una cascata qualunque, arriverete al piede di un dirupo, che ha più o meno distinta la forma di un gradino; ma alla cascata non siete ancor giunti. Vedrete piuttosto un’incisione verticale in mezzo al gradino, che si prolungherà talvolta in una gola stretta e cupa, lunga, ove occorra, parecchie centinaja di metri. Quella gola termina ad anfiteatro, e in fondo ad esso, ecco finalmente la cascata. Che vuol dir ciò? Vuol dire che dessa si formava in origine sullo spigolo del gradino; ma essa colla propria forza, secondata principalmente dall’azione erosiva delle sabbie, delle ghiaje, dei ciottoli, incise lo spigolo del gradino, quindi il gradino stesso come farebbe una lima. Quell’incisione diventò a poco a poco un canale; il canale una gola, in fondo alla quale troviamo oggi la cascata, che si va sempre più arretrando mano mano che lo scavo procede, con secolare lentezza sì, ma continuamente.
» Vi diceva testè che il salto del Niagara mostra evidentissimo ed a grande scala il fenomeno dell’arretramento delle cascate. Il lago Erié, da cui esce quel grosso fiume, occupa la porzione più depressa di un vasto altipiano, troncato a valle, cioè verso il basso, a foggia di un enorme gradino di circa 50 metri d’altezza. Di là dovrebbe naturalmente precipitarsi il Niagara. Ma no il salto avviene a forse due terzi della via tra il lago e lo spigolo dell’altipiano, ed ha luogo in fondo ad una gola scavata nell’altipiano stesso, lunga parecchi chilometri. Quella gola fu scavata dal fiume, per quella forza che aveva fin dapprincipio, saltando da un’altezza di 50 metri. Qui il processo è dimostrato dal fatto che di tratto in tratto le rupi, che sovrastano al salto, scoscendono, e il salto stesso si arretra più di un metro all’anno. Avanti di questo passo, ed in 300 secoli la gola, allungandosi sempre, avrà raggiunto il lago Erié che, vuotandosi in essa immediatamente, lascerà un vasto paese all’asciutto. Toccherà allora ai geologi a dire, osservando i depositi di quel vasto bacino trasformati in terreni asciutti: qui esisteva un lago. E gli archeologi, di qui a 300 secoli, potranno forse soggiungere: quel lago si chiamava Erié. Trecento secoli! voi direte. Capisco; son tanti: ma passano anch’essi; ne son passati anche trecentomila. Il mondo è vecchio, vedete; e chi sa quante volte si è già verificato il caso che al lago Erié predicono, non gli uomini, ma le leggi imprescrittibili della natura. Vuolsi, per esempio, che il grande bacino del Mississipì, al disopra del confluente del l’Ohio, fosse già un lago, vuotatosi poi per erosione di una diga naturale, di cui rimangono vestigia evidenti».
Il mio uditorio era come trasognato, ed io mi accorsi d’essermi imbarcato in un pelago senza approdo. Come spiegare, per esem pio, così sui due piedi che, mentre la creazione dell’uomo non rimonta che ad una settantina di secoli o giù di lì, il mondo, ch’egli trovò già bell’è fatto, ne numera chi sa quante centinaja di migliaja?... Ma quì in buon punto comparve la Teresa colle bruciate fumanti. Addio cascate! addio scienza del passato! Tutti han fame di presente, e ciascuno si diede a sbucciare le castagne allegramente, senza badar troppo alle mani che pigliavano la tinta del carbone; e così, mangiando, chiacchierando e ridendo ciascuno a sua posta, si passò il resto della serata, senza pensare al freddo, e realizzando il proverbio dei montanari lombardi che suona così:
E pan, e vin, e sciochi |
Note
- ↑ Nel cantico, detto Benedicite, di Anania, Azaria e Misaele, gettati nella fornace per ordine di Nabucodonosor, che si legge nel capo 3 delle Profezie di Daniele, è detto: Benedicite pruina et nives, Domino — Benedite o brina e nevi al Signore.
- ↑ Il Sùrinam è la parte settentrionale della Gujana olandese nell’America equatoriale. Ivi la temperatura minima accertata non è che di circa 21 ° sopra 0; mentre il fiato che prende aspetto di fumo per la rapida condensazione dei vapori prodotta dal freddo, si rende invisibile alla temperatura di circa 13° sopra 0 (del termometro centigrado).
- ↑ Detto anche re di macchie dai toscani, Troglodites europaeus dagli ornitologi. In lombardo reatin o re de sces.
- ↑ Il torrancino o arancino e la cincia codona, sono il Regulus ignicadillus e il Parus caudatus degli ornitologi, lo stellin e il pentin dei Lombardi. Nidificano in montagna e passano l’inverno al piano.
- ↑ È noto che la muffa è un vegetale, e più propriamente una pianta crittogama.
- ↑ I pulviscoli di neve, quando cadono radi e gelati, raccolti sopra un panno nero mostrano (solo talvolta al piano ma sovente nelle Alpi) le più svariate ed eleganti figure di stelle raggianti, di croci stellate, così belle, che è un desio a vederle. Ognuna di quelle stelle è un gruppo di cristalli di ghiaccio.
- ↑ Proverbio latino — differire non è tor via — a cui corrisponde il proverbio toscano — non manchỉ la volontà, chè luogo e tempo non mancherà. —
- ↑ Carnèade, nato il 215 avanti Cristo a Cirene (colonia greca nell’Africa settentrionale, oggi Grennah) visse 90 anni e professò filosofia in Atene. Spedito ambasciatore a Roma vi tenne pubbliche lezioni, nelle quali colla sua eloquenza invoglio la gioventù romana degli studi filosofici e delle lettere greche. — Adesso ne sapete una di più che don Abbondio.
- ↑ La sala è una pianta di palude, propriamente un’alga palustre, da cui si trae il salino e la stiancia (o stianza o schianza). Il salino è il garzuolo, ossia l’insieme delle foglie più interne e più morbide del cespo; la stiancia è l’invoglio delle foglie più esterne e più grossolane. Tanto il salino quanto la stiancia si torcono e se ne fa come una corda, colla quale il seggiolajo intesse un piano, forte ma non duro, nell’intelajatura delle seggiole che perciò diconsi impagliare. Col salino si fanno le impagliature più gentili; colla stiancia le più grossolane, che noi lombardi chiamiamo de lisca.
- ↑ Giusti, Il sospiro dell’anima.
- ↑ Il marmo di cui si parla è noto sotto il nome di pietra d’Angera: fu impiegato nell’edilizia della città di Milano. N’è interamente costrutta la facciata della vecchia cassa di Risparmio in via S. Paolo.
- ↑ Le colline di Gallarate, di Angera, ecc., sono riconosciute dai geologi come morene dell’antico ghiacciajo, che discendeva dalle Alpi per la valle del Ticino, e riempiva tutto il lago Maggiore. La collina semicircolare che cinge a nord il monte S. Quirico è citata dai geologi come tipo di morena d’ostacolo, formata cioè dal detrito glaciale che veniva arrestato dalla montagna, la quale figurava allora come un’isola sorgente dal ghiacciajo.
- ↑ S. Carlo Borromeo nacque nella rocca di Arona il 2 di ottobre, 1538. Sopra un’eminenza che domina il lago si osserva la statua colossale di rame battuto, capolavoro dello Zanella e del Falconi. Quella statua alta più di 20 metri, è vuota nel mezzo, e vi si accede mediante una scala a pioli, per cui si sale da prima sul piano superiore del piedestallo, alto più di 11 metri da terra. Un’altra scala a piuoli mette a una delle pieghe del rocchetto, per la quale si penetra nella statua, e vi si gira in tutti i sensi, servendo di scala le chiavi o traverse di ferro che la tengono in sesto.
- ↑ Béola è il nome volgare delle lastre di gneiss, roccia cristallina, della natura del granito, che si sfalda in lastre di una regolarità sorprendente. Una sola di quelle lastre basta talora a coprire un terrazzo della lunghezza di 4 a 5 metri.
- ↑ Vedi Serata II.
- ↑ Secondo le favole greche i Ciclopi furono giganti mostruosi, figli di Urano (il Cielo) e di Tellure (la Terra). Avevano un sol occhio rotondo in mezzo alla fronte onde il nome di ciclope che vale dall’occhio circolare. Erano a centinaja, la più parte fra cui Polifemo vivevano da pastori su pei monti della Sicilia; i principali, come Bronte, Sterope, e Piracmone, lavoravano con Vulcano, dio del foco e delle arti fabbrili, nella sotterranea fucina dell’Etna, dove fabbricavano i fulmini a Giove, e le armi agli dei e a’ semidei. Furono poi chiamate ciclopiche certe antichissime costruzioni murarie, di cui rimangono mirabili avanzi in Grecia e in Italia, formate per lo più di macigni irregolari, artificiosamente collocati in modo che combaciassero d’ogni parte fra loro.
- ↑ Si richiami quanto fu esposto, circa l’invasione degli antichi ghiacciai, nella Serata precedente § 7-9.
- ↑ Le rocce arrotondate dal passaggio de’ ghiacciai sono dette dai geologi francesi roches moutonnées.
- ↑ I giganti, figli del Tartaro, o di Urano e Tellure, secondo le favole greche, sovrapposero il monte Pelio all’Ossa per dare la scalata all’Olimpo e cacciarne Giove. Essi lo assalirono con una tal sassajola, che le pietre ricadendo in mare diventarono isole; in terra, montagne. Un di loro, Briareo, aveva cento braccia. Fulminati da Giove, parte precipitarono nel Tartaro, parte sono sepolti sotto i monti.
- ↑ Le piante erbacee, alle quali si allude, nominandole nello stesso ordine col quale sono citate in corsivo nel testo, sono, nel linguaggio dei botanici, le seguenti: — Leontodon hastilis, Campanula rhomboidalis e barbata, Leucanthemum vulgare, Euphrasia officinalis, Geranium robertianum e rotundifolium, Lychnis diurna, Veronica spicata, Viola tricolor e biflora, Thimus alpinus.
- ↑ Caltha palustris.
- ↑ La neve caduta in questa parte più alta della Val Formazza il giorno 10 gennajo 1863 superò i tre metri di altezza. I villaggi rimasero mezzo sepolti, ed uno di essi fu distrutto da una valanga, dalla quale molte persone furono dissepolte vive rimanendovi sette morti.
- ↑ La Guida del Berlepsch dice appunto questa cascata la plus belle et la plus puissante de toutes les Alpes.
- ↑ La valle della Toce fu giudicata una delle più elette regioni delle Alpi, per la ricchezza della sua flora, dal celebre barone V. Cesati, ora professore e direttore dell’orto botanico dell’Università di Napoli, e dall’avv. F. Negri, altro distinto botanico, che ebbi compagni nella gita. Tengo dalla gentilezza dell’ultimo una lista delle piante raccolte precisamente alla sommità del Salto della Toce, cioè a 1800 metri sul livello del mare, e sarebbe assai più copiosa, se la stagione fosse stata meno avanzata. Credo di fare cosa utile e gradita agli studiosi, se non ai bambini, col riportarla. Eccola:
Draba aizoides Linn. Thesium alpinum Linn. Alsine recurva Whalen. Thesium alpinum Willd. Hedysarum obscurum Linn. Juniperus nana Linn. Rosa alpina Linn. Salix retusa Linn. Sedum rhodiola D. C. Salix reticulata Linn. Saxifraga oppositifolia Linn. Salix erbacea Linn. Saxifraga retusa Gouan. Chameorchis alpina Hall. Laserpitium hirsutum Lam. Convallaria verticillata Linn. Gnaphalium leontopodium Scop. Streptopus amplexifolius D. C. Saussurea discolor D. C. Tofieldia borealis Whalen. Gentiana purpurea Linn. Veratrum album Linn. Gentiana ciliata Linn. Lycopodium selago Linn. Primula farinosa Linn. Lycopodium annotinum Linn. Primula villosa Jacq. Botrychium lunaria Linn. - ↑ E pane, e vino e ceppi, e poi lascia che nevichi.