Presentazione di Catullo alla dama e eleganti questioni che ne seguirono.

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Presentazione di Catullo alla dama e eleganti questioni che ne seguirono.
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IV

PRESENTAZIONE DI CATULLO ALLA

DAMA E ELEGANTI QUESTIONI CHE

NE SEGUIRONO


D
i gran moda allora erano cominciate a venire le terme, che poi nei tempi imperiali diventarono una frenesia, e si stenterebbe a credere se non rimanessero gli scheletri di quelli edifici come di giganteschi mammú. Imaginarli con rivestimenti di bianchi marmi, a vaghi ricami, pavimenti a mosaici, transenne di bronzo, cortinaggi preziosi, ninfei odorosi di fiori, stufe fumanti, fontane gorgoglianti, gelide acque nelle piscine natatorie, sarebbe come vedere Cleopatra nella gloria del suo corteo natante sul Nilo, e la mummia di Cleopatra.

L’imperatore Nerone, giovane forse di ingegno, ma disordinato perché offeso da gigantismo in tutte le sue operazioni, costruí terme gigantesche. Si sarebbero dovute chiamare stufe o bagni, come si dice delle sorgenti naturalmente calde e salutifere quali di Baia e di Sciacca; ma essendo di moda la lingua greca, cosí vennero in greco denominate: thermae thermarum. [p. 54 modifica]

Per quanto, anche cavalieri e dame poco o niente si lavarono nell’evo medio, per tanto si erano lavati i Romani e le Romane. Se poi questo facessero per amore di pulizia, oppure per voluttà di bagni alla turchesca, ognuno la pensi a suo modo.

C’erano poi i bagni popolari del costo di un baiocco, e cosí c’erano le fontane per il popolo, i sedili per il popolo, il grano per il popolo (se i corsaleschi non facevano razzie), il circo per il popolo, e nei tempi belli il vino per il popolo, i trionfi per il popolo. Il populi comodo fu una grande istituzione romana, che poi passò ai Papi.


Cicerone incontrò Catullo alle terme e gli disse:

— Venite, venite che vi presento alla dama.

Era una bella sodisfazione per lui, era una bella conoscenza per quel caro giovane, era poi cosa graziosa alla dama in quanto aggiungeva un fiore fresco e bizzarro alla corona dove ella spiccava sola fra molti giovani baldi e leggiadri.

Quella dama preferiva la giovinezza alla anzianità. Donne attorno non gradiva: ché meno vi son babe a far cicí cicicí, e piú spicca il valore di una dama. Cosí i príncipi dei [p. 55 modifica] Germani erano valutati secondo il numero e la qualità del comitato che attiravano attorno a sé, e che sapevano conservare.

— Magnifica e valorosa dòmina, — disse Cicerone conducendo Catullo per mano, — concedete che io vi presenti questo giovane ornatissimo, urbanissimo, nonché discreto e dicace: il suo nome è Catullo.

— Non mi è nuovo, non mi è nuovo, — disse la dama porgendo la mano.

La mano era candida, congiunta per un polso gemmato a un braccio modellatissimo : il braccio nuotava entro la manica aperta di un kiton di lana bianca e di foggia ionica, ampio e talare.

— Qualche brivido, — disse la dama rivolgendo la parola a Cicerone, — ma non spiacevole. La doccia gelida dopo il bagno caldo è una mia invenzione. La consiglio anche a voi, Marco Tullio; placa i nervi e fa bene al cervello.

Catullo udiva una voce di suono aspretto con un martellare vago di sistri argentini. Poi rivolgendo ella gli occhi su di lui, si sentí investito da una gran luce: le sue pupille nere.

— Cato?... Catone?... Catullo? Siete forse parente del censore Catone?

Al nome di Catone si levò un mormorio allegro di reprobazione fra quei giovani. [p. 56 modifica]

Péreat Cato! Catone che è morto e Catone che è vivo.

— Oh, vi pare? — disse ironicamente la dama —. I due presidii di Roma, come Castore e Polluce.

Quei giovani erano furibondi contro i Catoni, e ognuno diceva la sua.

Catone il vecchio quando Marcello portò a Roma le statue d’oro di Siracusa aveva detto che quelle statue erano pericolosi nemici. Faranno disprezzare i nostri numi di argilla. Aveva detto che per seicento anni Roma era stata bene in salute senza medici. Ora la Grecia ci manda i medici per distruggere tutti i Romani.

La dama disse:

— Può darsi che l’abbia detto per tirchieria, per non pagare medici e medicine, perché son tirchi tutti e due, zio e nepote. Odiosissimo difetto! Ma è la sola cosa dove vado d’accordo con Catone: meno li vedo i medici d’attorno, e più piacere mi fanno.

E un altro di quei galanti disse:

— E Catone il giovane, il senatore, non ha avuto il coraggio di proclamare che quando i Romani si fossero dati agli studii dei poeti greci, avrebbero perduto il loro stato?

— Che ne pensate, Marco Tullio? — domandò la dama. — Mi dispiace proprio sentir [p. 57 modifica] dire male del vostro collega senatore: io lo credo un po’ ristretto di mente come lo zio.

— Già, dama, — disse Cicerone, — tutte le volte che una virtú non piace piú, le si cambia nome. Soltanto è ammirevole come questo sistema sia comune tanto ai tiranni quanto ai demagoghi: ideo virtus calumnianda semper et vituperanda.

— Basta, vi prego, Marco Tullio, — disse la dama —. Un uomo di spirito come voi, fare il moralista anche quando non fate concioni in piazza!

Qui si accese una diatriba fra la dama e Cicerone. Non che Cicerone fosse anziano ché anzi era nella sua virilità, ma stonava un po’ fra quei giovani.

Dice la dama:

— Il vostro collega Catone vi ha consigliato male quando avete fatto strozzare quei cinque cittadini romani!

— Catilinarii, catilinarii! —, dice Cicerone.

— Lasciàmola là coi catilinarii —, dice la dama.

— Tutto il Senato —, dice Cicerone —, fu per la condanna a morte.

— Meno Cesare —, dice la dama —, che aveva piú occhio di voi e di Catone. E poi, e poi! Avete commesso un’illegalità. Vada per il voto del Senato; ma voi console, voi uomo [p. 58 modifica] di legge, dovevate ricordarvi che per condannare a morte un cittadino romano, il voto del Senato non basta: ci vuole l’appello al popolo, e l’appello al popolo è mancato!

Tutti quei giovani applaudirono.

— Un’altra volta —, dice la dama —, se vi fanno console, ricordatevi: meno zelanteria! La zelanteria nasconde spesso la paura.

— Pulcre, bene, Clodia! — dissero i giovani.

— I morti, in politica —, disse la dama — hanno l’abitudine di ritornare. Dunque voi siete parente di Catone? — domandò ancora rivolta al giovane.

Catullo disse:

— Catullo e non Cato, dama.

— Alla buon’ora, — disse la dama —: nessuna relazione dunque con quella gente censoria?

— Nessuna. Io sono da Verona.

— Da Verona? Allora voi siete parente di Brenno. Verona non si chiamava una volta Brennona?

La dama parlava per gaiezze, smemoratezze, indifferenze, e ciò basterà per capire come appartenesse alle classi piú elevate della società.

E parlò cosí:

— Voi, Marco Tullio, che siete un’arca di [p. 59 modifica] scienza, lo dovreste sapere se Verona fu fondata da Brenno. — E senza attendere risposta, — Ecco —, diceva —, Galli togati come questo Catullo, Galli comati, Galli ispani come Egnazio, poi Veneti, poi Liguri, poi quelli del Latium novum, come voi, Marco Tullio, poi Sanniti, poi Campani, poi Siculi... Vi decidete o non vi decidete? Voi senatori, voi boni viri, optimi cives, vi ostinate immobili su la rocca capitolina. Avete ammazzato i Gracchi, avete ammazzato i compagni di Catilina, ammazzerete mio fratello. Non dico che fate male. Se non li ammazzate, loro ammazzeranno voi. Solo vi avverto che la partita è perduta. Chi vincerà non so. Certo non voi, Marco Tullio, che non siete né carne né pesce, né Catone vincerà, che non vale nemmeno la sua ostinatezza. Avete la memoria corta, voi, boni viri! Sono passati pochi anni dalla guerra sociale, e pur con tutte le stragi del vostro Silla, avete dovuto cedere, e concedere cittadinanza romana agli Italici, se no, addio Roma! Innalzavano a Corfinio un’altra capitale. Vi devo dire tutto il mio pensiero? È stato un pessimo affare buttar giú Cartagine. Vi meravigliate delle rivoluzioni! Oh, bella! Ma non foste voi a voler buttar giú Cartagine? Non fu il vostro Catone con l’affare dei fichi freschi? Che brutto servizio ci hanno reso i fichi freschi! Dopo [p. 60 modifica]dormiremo fra due guanciali, dicevate. Dopo, non si dorme piú. Caro amico, parliamo sul serio: io vi dico che se il mondo deve diventare romano, bisogna che Roma si adatti al mondo. Altro che non volere i poeti greci, le mode di Egitto, i vasi di Corinto! Molta confusione, molto scompiglio è da quel tempo nella veneranda Roma. E allora? Evviva l’allegria! Catullo, vi prego, favoritemi il mio nartècio.

E la dama si versò da un vasetto d’oro, su le mani, una essenza di raro profumo. Mutò voce ancora e con strano lampeggiamento disse, sempre rivolta a Cicerone:

— Credete che io ne gioisca? Accetto quello che è fatale che sia. Roma sarà universale o con Catilina redivivo, o con mio fratello, o con qualunque altro. Ma arrivare ci si arriverà. Il mutamento si farà a moneta piuttosto alta: non quadranti, non sesterzii. Pagheremo con la vita o con la libertà.

Catullo ascoltava meravigliato questo strano parlare della donna. I giovani barbàtuli non parlavano piú. Solo Cicerone disse:

— Perché non siete nata uomo?

Catullo udí uno stridulo scoppio di risa.

— Via, Marco Tullio, evitate questi spaventosi complimenti! Io essere come voi? Io ci tengo a essere quella che sono! Questi chiacchieroni di giovani sono capaci di riferirli a [p. 61 modifica]Terenzia vostra i vostri complimenti, e sarei spiacente vi capitassero guai per causa mia. Ma parliamo di cose meno malinconiche. — E rivolta a Catullo, domandò: — Da quanto tempo siete in Roma?

— Da poco tempo.

— Siete solo a Roma?

— Sino a ieri, dama. Da oggi in poi non sarò piú solo.

— Oh, felice e dabben giovanetto! Siete per condur moglie? — domandò con inimitabile accento.

— Vivrò con la vostra imagine, dama.

— Ah, molto gentile...! poeta, forse, anche voi? Elegie, poemi, mimi?

Catullo rispose:

— Nel tempo che a diciassette anni mi fu consegnata la toga virile, quando la fiorente età passava per la sua primavera gioconda, io poetai d’amore.

— Ma sentite come parla pulito questo cisalpino! — esclamò la dama: — dunque voi siete poeta d’amore? Questo mi piace molto.

Si udí allora uno scoppio di risa.

— È quello scemo di Egnazio che ride, — interruppe la dama —, un vero barbaro voi siete, Egnazio.

Catullo si volse e vide una chiostra di denti bianchissimi in un volto barbàrico: e a un [p. 62 modifica]giovane volto di nera peluria, e alto e membruto. Stava di fianco alla dama come un giannizzero. Seguitò a ridere e non rispose parola.

— Qual’è il vostro poeta preferito? — domandò la dama a Catullo.

— Preferita sareste voi, se io osassi quel che non oso, — rispose Catullo.

— Bel galante questo vostro provinciale — fece la dama a Cicerone; e a Catullo disse: — Io adoro Saffo alla follia! Vediamo, vediamo se voi che venite da paesi meno contaminati da sottigliezze erudite, mi sapreste spiegare il mistero di questo verso di Saffo quando dice: «Quando io lo guardo, egli mi sembra un Dio».

La dama proferí questo verso in greco, che sarebbe come dire oggi che quella dama latina teneva conversazione anche in purissima lingua francese.

— Si può dire —, commentò la dama —, cosa piú semplice e pur piú bella di questa? La creatura umana che è mortale, si sente, per la potenza d’amore, trasmutata in immortale. Sembra un Dio l’uomo amato! Ebbene, nessuno di questi miei giovani amici che scrivono tanti bei versi, ha saputo fare un verso cosí. E pure è un verso fatto di niente! Io stessa dico e penso cosí, perché Saffo me l’ha detto e me l’ha fatto sentire. [p. 63 modifica]

E sbarrò in faccia a Catullo uno sguardo micidiale che voleva dire: «quand’io ti guardo, tu mi sembri un Dio».

E Cicerone disse: — Voi, dòmina, non potete sentire et ideo exprimere cosí perché voi avete troppi Dei e Saffo ne ebbe uno solo.

— Impertinente! — disse la dama. — Voi, tenete a mente, non mi sembrerete mai un Dio, anche se vi fate chiamare padre della patria.

Queste parole della dama mossero un poco a riso quei giovani, e con poco rispetto per il grande oratore.

E Catullo disse:

— Risponderò come potrò alla vostra domanda.

— Sentiamo.

— Perché Saffo era una creatura pura.

La dama corrugò le ciglia e disse:

— Questa è una curiosa risposta. Però mi piace. È molto interessante questo vostro amico, Marco Tullio.

Stette un po’ pensierosa, poi domandò a Catullo:

— E allora spiegatemi questi altri versi.

La dama prese da uno sgabelletto una cetra e accavalcando il sandalo brigliato d’oro sul ginocchio, si curvò, fece col plettro vibrare le corde. La voce pur difettando di dolcezza, non [p. 64 modifica]era sine gratia. Sul motivo di una nenia piana ella cantava:

Già tramontò Selène,
Cadono in giú le Plèiadi,
La notte è alla metà,
L’ora fugge e s’invola,
Io dormo sola sola.

Catullo attese che l’ultima nota dileguasse e ripeté:

— Perché Saffo era una fanciulla pura.

Egnazio allora parlò e disse a Catullo:

— Vi devo avvertire che la signora non dorme mai sola sola.

La dama, repentina, levò la mano e fece atto di staffilare la guancia di Egnazio. Questi si piegò quasi per raccogliere la percossa come un dono grazioso. La dama sorrise lei pure.

— Non badate, Catullo, a questo buffone senza verecondia né dignità. Piuttosto dite: che cosa sapete voi che Saffo era pura?

— Sono cose, — rispose Catullo, — che è grande scortesia ricercare.

— Oh, questo è un parlare onesto, — disse la dama, — e avrete ben da imparare voi, signori, da questo bennato giovanetto di Verona.

— Non è poeta, — disse, con voce assorta Catullo, — chi non è puro.

— Questo poi mi pare troppo, — disse la dama. — Siete voi puro? Non ne avete l’aria. [p. 65 modifica]

— Il poeta, — confermò lentamente Catullo, — deve essere casto e puro.

— Anche casto! — disse la dama. — Vi ammiro, ma non vi capisco.

— Dama, — rispose Catullo, — intendetemi con discrezione: diversamente voi mi fate oltraggio. Io posso ammettere che quei versi di Saffo si prestino a una interpretazione anche non pura. Ma ripeto: il poeta deve essere puro e casto.

— E allora, — disse la dama, — parliamoci chiaro: è lei stessa, Saffo, che si dichiara non piú vergine, quando dice: «Verginità verginità, ora che mi lasci, che diventerai? Da te di nuovo piú non verrò, piú non ritornerò». E allora?

— E che c’entra questo? — disse Catullo quasi iracondo. — Le vestali possono essere vergini e non pure. Saffo potè essere pura senza essere vergine.

— Mi piace, mi piace, — disse la dama. — Le vestali infatti si profumano poco.

— È stato Catone durante la sua censura, — interruppe il poeta Suffeno —, a proibire alle vestali di profumarsi.

— Lo sciagurato! — esclamò la dama; — ma spiegatemi allora meglio in che consiste la castità di Saffo, dato che anche voi ammettete che lei non era piú vergine. [p. 66 modifica]

— Nell’anima! — rispose Catullo. — È impura se dice: «io dormo sola sola»? Tutto il creato, luna, pleiadi, notte fanno corteo alla passione della creatura umana. Non sentite dama, il profumo della purità in questi versi? Se avete sale e lepore, se siete cari alle Muse, sarete puri e casti: ma se le Muse vi voltan le spalle, sarete empii e sacrileghi, cantaste anche poemi in lode agli Dei.

Qui Catullo si accese di ira improvvisa contro i poeti e proferí parole anche in quei tempi sconvenienti: irrumabo vos...

Uno sguardo della dama lo richiamò.

Cicerone era turbato alle inurbane parole.

— Dèsine, sodes —, disse —, o iracunde Catulle.

Catullo ritornò in sé: guardò con quelli occhi incavati la donna: si fissò nel grembo di lei, e disse: — Voi potete essere vergine e madre, perché in voi si innesta il fiore delle generazioni.

— In verità voi non siete — disse la dama —, come il mio buon amico Suffeno. Vedetelo lí come è elegante, educato e amabilmente idiota. Fa venire risme su risme di carta regia da Alessandria, e piú ne consuma e piú gode e piú si contempla. Ha fatto una raccolta di tutti gli epitheta ornativi, da decorare volumi di poesia. [p. 67 modifica]

— E chi pretende di esser poeta? e chi osa chiamare sé poeta? — disse Catullo. — Credo che non riuscirò nemmeno a mettere insieme un librettino.

— Ah, il peggiore fra tutti i poeti, — disse sorridendo Cicerone a Catullo: — io credo che voi siate veramente caro alle Muse.

— Allora —, disse un giovanissimo che si chiamava Cornelio Gallo —, voi, Catullo, vorreste dire che la poesia è la natura stessa: sole, luna, pleiadi: la quale è materia, ma per magia di poeta si trasforma in spirito; e cosí il poeta è partecipe della divinità come disse Marco Tullio quel giorno che parlò per Àrchia.

— Cosí credo —, disse Catullo —. Molte sono le cose in nostro potere. La poesia è unica, perché è fuori dalla nostra volontà.


Intanto era arrivata la basterna della dama. Una doppia pariglia di servi etiopi la portavano. La dama vi si adagiò, fu issata su.

Pareva Angelica la bianca, quando apparve al concistoro di re Carlo Magno fra quattro giganti grandissimi e fieri.

Di lassú faceva, a quei suoi galanti, graziosi e monelleschi saluti con la mano, come i bimbi quando fanno tata.

La basterna, molleggiata ai passi scadenzati di quei servi, si era mossa. [p. 68 modifica]

— O, Marco Tullio, — disse Cornelio Gallo — la dama vi fa concorrenza.

— Come sarebbe a dire? — domandò il grande oratore.

— Voi avete studiato e descritto tutto quel che ci vuole di voce e di gesto per riuscire compiuto oratore. La dama, non c’è mossa o parola di cui lei non curi prima l’effetto.

Ma Catullo non udí le parole di Cornelio Gallo. Egli era rapito in quella divinità femminile: si era perduto dietro quei quattro umani che si allontanavano con in alto quella bianchezza.