Dell’impareggiabile bellezza di Lesbia

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Dell’impareggiabile bellezza di Lesbia
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DELL’IMPAREGGIABILE BELLEZZA

DI LESBIA


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e avete udito questa dama ragionare di politica e poesia, non è che essa fosse una «bas-bleu», o una «femme savante», o una «mulier diserta», come dicevano i latini: ridicola generazione di donne, le quali essendo per natura prive di grazia e perciò mancando di uomini, trovavano rifugio nella politica o fra le muse.

Questa dama fu abbondevole e di grazie e di uomini.

Questa dama era di gran paraggio perché moglie del console di Roma che si chiamava Metello Celere.


Da secoli e secoli lei riposava sotto lo schermo del soave nome di Lesbia, quando la vennero a svegliare. Ciò avvenne nel tempo che i nostri studiosi andavano in cerca delle vestigia della veneranda Eliade e Roma. Viaggiavan l’Oriente, frugavano nei monasteri, cercavano persino nelle tombe per scoprire i grandi morti, e adoravano quelle reliquie pagane [p. 70 modifica] come fossero state le reliquie dei santi e dei martiri. E cosi scoprirono che la donna celebrata da Catullo con quel dolce nome di Lesbia, era Clodia, ed era sorella di quel famoso Clodio che ha tanta parte nella storia di Roma di quei tempi. E Catullo l’aveva chiamata Lesbia non perché lei fosse originaria della città di Mitilene, nella vezzosa isola di Lesbo ove nacque Saffo, o, perché cortigiana, avesse preso quel poetico nome di battaglia: ma perché Catullo se l’era imaginata cosi. Ella era romana della gran gente dei Claudii, e un suo antenato era stato quell’Appio Claudio il Cieco, censore e ideatore della prima delle grandi vie, della regina delle vie: quell’Appia via che porta ancora il nome di lui. Le pupille di quel grande cittadino di Roma erano spente e lei, quella sua nepote, possedette le più splendenti pupille che mai furono in Roma vedute.

Nel parlare di questa dama noi procederemo con prudenza e non con indifferenza perché abbiamo paura dei morti. Se essi ascoltano, si possono vendicare.

Si potrà dubitare se Lesbia fu Clodia, ma non mai dubitare che ella ebbe meravigliose pupille.

Oh, Lesbia che stai sotto terra, ti sentiamo ancora profumata per le parole del tuo poeta. [p. 71 modifica] Nel profumo era la tua anima. Il resto che vale?

E perché, se proveniva dalla gran gente Claudia, ella alterò tanto nome e diventò Clodia? Per quale ragione mai, lei che vantava tra gli antenati ventotto consolati, cinque dittature, sei trionfi, buttò via si gran nome? Il manto della nobiltà? Non si sa più portare, o non si può più portare? Trascinato nel ludibrio? Avvolgersi come in un sudario? Buttarlo via? Mutargli tinta e stemma?


Chi proclamò al mondo le grandi pupille di Clodia, fu Cicerone.

Dal fulgore delle pupille e dall’inimitabile profumo erano le Dee distinte dalle donne mortali. Con le tremende pupille le Dee vanno su e giù, giù e su dall’Olimpo alla terra. Scendono nell’inferno, risalgono all’Olimpo, si accostano qualche volta ai mortali che ne avvertono la presenza per quei grandi fari e per l’aura di incorruttibilità. Tremò il cuore anche ai più impavidi eroi quando una Dea si appressò.

Quei grandi occhi di lei non erano a fior di pelle, né troppo profondi, né troppo uniti né troppo distanti, ma equidistanti, almeno per quello che ne sanno i misuratori della bellezza, per la quale compassi non valgono. Cornice agli occhi facevan le ciglia, nere e fiere. Sopra si disegnava una fronte lunata [p. 72 modifica] come Diana, non però troppo vasta che in donna fa pena anche se è indice di intelligenza; e sotto un nasetto che fu tale che Catullo, dopo aver conosciuto il naso di lei, non troverà più donna che lo accontenti. La criniera era di color di viola come fu quella di Saffo. Spirava odore di violetta mammola, ed anche questo lo sappiamo da Catullo, che, dopo che ebbe sentito il profumo di quella donna, ne fu inebriato cosi che nessuna donna poi gli sembrerà profumata. Non sparsa come alla demente Ofelia era la chioma, bensì ravvolta intorno alla testa in quella maniera perfetta e insieme negletta che si ammira nelle medaglie d’oro della immortale Aretusa.

Le carni dovevano essere candide, perché lui la chiama «candida diva»; e benché moglie di un console, sorella di un tremendo tribuno, non era matronale, ma quasi verginale, se lui quasi sempre la chiama «puella».

Eretta e melodiosa! Velata, non nuda!

Ritratti o statue di lei non sono state disepolte: ma tanto vive rimangono le parole del suo poeta che noi la vediamo. Cosi tu stai solea innixa fulgente, o Claudia o Lesbia che sia, e nessuna curva imagine di vecchiezza verrà a sovraporsi a te; e noi siamo lieti, dopo tanto evo, di salutarti, o fulgente bellezza! o graziosa bellezza! [p. 73 modifica]Dice Catullo che lei posava sopra una scarpetta.

Non è la pianella preziosa di Cenerentola; e tutto fa credere che fosse un sandalo antico, di forte suola, gemmato e a borchie d’oro. Borchie d’oro, cammei, briglie porporine rendono il sandalo fulgente. Ma non è questo, non è questo! Il sandalo è fulgente perché la grande stirpe aveva fatto fulgente e armoniosa lei, dalla testa al piè.

Il sandalo, infatti, movendosi lei, mandava melodia.

Dunque era bella!

Il suo poeta non dice che era bella: dice che era «venusta».

È questa una parola che quasi non si usa più. Venusta vuol dire: «cara a Venere».

«Venusta» è la gloria d’amore: come «venèrea» è la pena di amore.

Ben siamo qui di fronte a uno di quei misteri delle antiche religioni: il mistero di Venere, sorta dalle acque: non essa incinta, ma Dea delle generazioni, madre dell’universa fecondità attraverso la voluttà: delizia degli uomini e degli Dei come scrisse un altro poeta latino. Cosi misteriosamente verginale deve essere apparsa colei a Catullo se lui, in quel giorno, cosi stranamente parlò.

Venere è veramente mistero! È la ridente [p. 74 modifica] Dea che inspira furore, per cui l’uomo rapi la tenera vergine dalla casa paterna e la portò nella sua casa. Vola attorno il cieco Amore. Non è esso cieco! Diffonde cecità per comando della misteriosa Dea. E canti, e inni, e faci, e ghirlande, Hymen o Hymeneae! Hymen ades, o Hymeneae!

Appare la sposa in un velo color di fiamma, non per pudore, ma perché è mistero.

Tanto evo è trascorso da quegli antichi riti del consacrato amore; eppure è ammirevole come in tanto tramutarsi di riti, rimanga ancora la costumanza della ineffabile vaporosità del gran velo nuziale, entro cui la sposa si nasconde, come dentro il mistero della Dea.