Il Sogno di una notte d'estate/Atto terzo
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO TERZO
SCENA I.
La stessa.
La regina delle Fate giace addormentata. Entrano Quinzio, Snug, Bottom, Flute, Snout e Starveling.
Bot. Ci siam tutti?
Quin. Sì, sì; ed ecco un luogo a proposito per far la nostra prova. Questo verde prato sarà il nostro teatro; questa siepe il nostro luogo per ripararci; e reciteremo il nostro dramma come se fossimo innanzi al duca.
Bot. Pietro Quinzio.....
Quin. Che dici, bovino Bottom?
Bot. Vi sono alcune cose in questa commedia di Piramo e Tisbe che non possono piacere. Prima, Piramo deve sguainar la spada per uccidersi, cosa che non può andar a’ versi delle dame. Che rispondete a ciò?
Snout. Per la vergine! ei risveglerà un gran terrore.
Star. Penso che rimettiamo il suicidio all’ultimo, allorchè tutto sarà finito.
Bot. No, pel Cielo! ho un espediente per conciliare ogni cosa. Scrivete un prologo che sembri dire che non vogliam far male a nessuno colle nostre spade, e che Piramo non è ucciso da vero: per maggior sicurezza aggiungete che io, che riempio le parti di Piramo, non son Piramo, ma Bottom il tessitore. Così si dissiperà ogni timore.
Quin. Ebbene, faremo questo prologo, che verrà scritto in versi di sei o otto sillabe.
Bot. D’otto, d’otto è meglio.
Snout. Non avran paura le dame del leone?
Star. Io ne ho sospetto.
Bot. Dovete pensare, signori, che il condur sulla scena, Dio vi protegga! un leone fra placide donzelle, è una delle più terribili cose: perocchè non vi è uccello più formidabile del leone, e a ciò si vuol badare.
Snout. Ebbene, un altro prologo per dire che non è un leone.
Bot. Convien che proferiate il nome dell’attore, e che mostriate la metà del suo volto traverso al collo del leone stesso; e convien ch’egli parli, e dica presso a poco così: «Signore, o belle signore, desidererei, richiederei o vi supplicherei che non temeste, che non tremaste, perocchè io rispondo della mia vita colla vostra. Se credete ch’io venga qui come leone, credereste ch’io volessi porre a rischio la mia esistenza. No, un leone non sono; sono un uomo come gli altri». E allora per provarlo dica il suo nome, e annunzi apertamente ch’è Snug il legnaiuolo.
Quin. Sta bene, si farà così. Ma vi sono due altre cose difficili; la prima, d’introdurre il chiaro di luna in una camera, perchè ben sapete che Piramo e Tisbe s’incontrarono al chiaro di luna.
Snug. Splenderà la luna la sera della nostra rappresentazione?
Bot. Un lunario, un lunario! Guardate all’almanacco; trovate il chiaro di luna, trovate il chiaro di luna.
Quin. Sì, quella notte splenderà.
Bot. Allora potete lasciare aperta una finestra della camera in cui recitiamo, e la luna vi passerà per mezzo.
Quin. Sì, oppure uno può venire con un fascio di spini e una lanterna, e dire che viene per figurate o sfigurare il personaggio di chiaro-di-luna. Ma vi è un’altra cosa: dobbiamo avere un muro nella camera, perchè Piramo e Tisbe, dice la storia, cianciavano fra i crepacci di una muraglia.
Snug. È impossibile portare un muro sulla scena. Come si può fare, Bottom?
Bot. Qualcuno può far da muro, e salverà l’illusione quando gli si dia sopra una intonacatura di calcina o di gesso: egli terrà le dita delle mani aperte, e fra esse potranno cicalare quanto vogliono Piramo e Tisbe.
Quin. Posto riparo a ciò, tutto il resto va a dovere. Giù, assidetevi tutti, figli delle vostre madri, e riandate le vostre parti, Piramo, cominciate, e quando avrete detto il vostro discorso, andate dietro a questa siepe, e. così facciano tutti gli altri. (Puck entra senz’essere veduto)
Puck. Qual gente da corda è dunque cotesta che scorrazza così vicino al luogo in cui dorme la bella Titania? E’ recitano? Sarò uno degli spettatori: un attore anche forse, se me ne viene destro.
Quin. Parla, Piramo: Tisbe, fatti innanzi.
Pir. Tisbe, fiore dagli odiosi aliti dolci.....
Quin. Dagli odori amabili e dolci.
Pir. Dagli odori amabili e dolci: beami del tuo soffio, carissima amata. — Ma odi una voce! Sta qui un istante e fra pochi minuti ritornerò. (esce)
Puck. Il più strano Piramo ch’io mai vedessi. (a parte ed esce)
Tis. Debbo parlar io ora?
Quin. Sì, tocca a voi: perchè avrete capito ch’ei non è andato che a vedere da dove proceda quel rumore che ha inteso, e che fra poco sarà di ritorno.
Tis. Raggiantissimo Piramo, la di cui tinta è più bianca di quella dei gigli, il cui colore vince quello della rosa turgidetta sullo spino; vivace giovinotto, giudeo amato, schietto e intero come un cavallo che mai non si stanchi di tirare: verrò ad incontrarti sulla tomba di Ninny.
Quin. Sulla tomba di Nino, amico; ma voi non dovete per anche dir ciò: quest’è una risposta che dovete dare a Piramo. Voi recitate tutta d’un fiato la vostra parte senza aspettare nè dimande, nè alcun’altra cosa. — Piramo, entrate: tocca a parlare a voi dopo le parole che mai non si stanchi di tirare. (rientrano Puck e Bottom con una testa d’asino)
Tis. Ah..... Schietto come il più intiero cavallo che mai non si stanchi di tirare.
Pir. S’io fossi bello, Tisbe, sarei solo tuo.
Quin. Oh mostruosa vista! Oh prodigio strano! Siamo scherniti! Presto, compagni, presto, corriamo al soccorso. (escono)
Puck. Vi seguirò; vi farò attraversare le paludi, i boschi e le siepi di spine. Or sarò cavallo, ora cane, maiale ora, ed orso senza testa, e fiamma errante, nitrente, latrante, ruggente, avvampante, come è costume del corsiero, del cane, del maiale, dell’orso e del fuoco.
Bot. Perchè corron tutti via? Codesta è una loro frasca per farmi paura. (rientra Snout)
Snout. Oh Bottom, tu se’ ben mutato! Che veggo io in te?
Bot. Che vedete voi? Vedete una testa di ciuco, che è la vostra: non è così? (rientra Quinzio)
Quin. Il ciel ti benedica, Bottom, il Ciel ti benedica! tu sei ben cangiato. (esce con Snout)
Bot. Veggo la loro malizia: essi vonno fare un giumento di me, per atterrirmi se possono. Ma io non mi muoverò da questo luogo; facciano quel che vogliono. Passeggerò su e giù cantando, onde, odano che non son pauroso. (canta) «Il merlo dalla nera piuma dal becco giallo come l’arancio, il tordo dal gaio canto, il reatino dagli screziati colori........»
Tit. (svegliandosi) Qual angelo mi sveglia dal mio letto infiorato?
Bot. (cantando) «Il piccione, il passero, la lodola e il cuculo dal monotono suono, di cui molti accompagnano le note senza osargli risponder, no..... perocchè infatti chi vorrebbe compromettere il suo spirito con un sì fatto uccello? Chi vorrebbe smentire un volatile quando pure gridasse sempre cucù?1».
Tit. Ti prego, gentil mortale, continua il tuo canto, il mio orecchio è così amoroso delle tue note, il mio occhio è così invaghito della tua forma, che il tuo merito mi costringe mio malgrado a dichiarare in questo primo incontro, ch’io ti amo.
Bot. Mi sembra, signora, che avreste ben poca ragione per farlo: ma è però vero che la ragione e l’amore van di rado in compagnia. Peccato che qualche onesto vicino non tenti di renderli amici! Io saprei celiare come ogni altro al bisogno.
Tit. Tu sei savio al pari che bello.
Bot. No, no: ma se avrò bastante ingegno per escire da questo bosco avrò raggiunto il mio intento.
Tit. Non desiderare di uscire da questo bosco; qui restar devi, il voglia tu o no. Io sono uno spirito al disopra del vulgo; l’estate obbedisce al mio impero; ed io ti amo. Vieni dunque con me: avrai Fate per servirti, e per andare a cercarti mille gioielli preziosi in fondo al mare: esse canteranno mentre tu dormirai sopra un dolce letto di giunchi; e purificare saprò sì bene i rozzi elementi del tuo corpo mortale, che avrai il volo e la leggerezza di uno spirito aereo. — Fior-di-piselli! Tela-di-ragno! Tarlo! Seme-di-mostarda. (entrano quattro Fate)
1ª Fat. Son pronta.
2ª Fat. Anch’io.
3ª Fat. Io pure.
4ª Fat. Dove s’ha a andare?
Tit. Siate gentili e cortesi con quest’amabile mortale. Danzate ne’ suoi passeggi, alimentatelo di fragranti albicocche e di grappoli vermigli, di verdi fichi e di dolci more: togliete alle mormoranti api il loro miele, e nudate le loro cosce della cera per farne fanali notturni, che accenderete nelle lucciole, onde con ciò si rischiari il coricarsi e l’alzarsi del mio amante: togliete poi le ali colorate da leggerissime farfalle, per allontanare i raggi della luna dai suoi occhi addormiti. Inchinatevi davanti a lui, Silfi, e corteggiatelo.
1ª Fat. Salve, mortale.
2ª Fat. Salve!
3ª Fat. Salve!
4ª Fat. Salve!
Bot. Tributo una sincera riconoscenza alle signorie vostre: ma di grazia, quali sono i vostri nomi?
1ª Fat. Tela-di-ragno.
Bot. Desidero far con voi maggior conoscenza, buona signora. Se mi taglio un dito non avrò più paura di nulla col vostro sussidio. — E il vostro nome qual è, onesta donzella?
2ª Fat. Fior-di-piselli.
Bot. Vi prego di rammemorarmi a monna Corteccia vostra madre, e a messer Gambo vostro genitore. Dolce Fior-di-piselli, desidererò di far maggior conoscenza anche con voi. — Il vostro nome ora, signora?
3ª Fat. Seme-di-mostarda.
Bot. Buona Semenza-di-mostarda, conosco la vostra egregia pazienza: quel codardo gigante, quel roast-beef divoratore ha inghiottiti molti discendenti della vostra schiatta. Vi do fede che i vostri parenti mi hanno fatto versar lagrime prima di ora; ma sarò giulivo di stringere con voi pure maggior conoscenza, mio dolce Seme-di-mostarda.
Tit. Animo, seguitelo e indicategli il mio pergolato. La luna sembrami ci guardi con occhio umido; e allorchè essa piange, piange i teneri fiori o deplora qualche violata verginità. Incatenate la lingua del mio amante e conducetelo in silenzio. (escono)
SCENA II.
Un’altra parte del bosco.
Entra Oberon.
Ob. Desidero sapere se Titania sia desta, e quale è stato il primo oggetto che si è presentato a’ suoi occhi, cui forz’è che ella ami con furore. Ecco il mio messaggiere. — (entra Puck) Ebbene, pazzo Spirito, qual sollazzo notturno troverem noi in questo bosco incantato?
Puck. La mia signora ha preso ad amare un mostro. Vicino al suo luogo di riposo, nell’ora in cui ella era immersa nel sonno più profondo e più insensibile, una frotta di scioperati, di rozzi artieri, che lavorano tutto il dì per aver pane nei telonii più vili di Atene, si sono ragunati per fare la prova di un dramma che deve esser recitato il giorno delle nozze di Teseo. Il più ignorante e stolto di quei dementi, che rappresentava Piramo, a metà del dramma ha abbandonata la scena ed è corso dietro ad una siepe: là l’ho sorpreso, e gli ho posta una testa di giumento in capo. Quando è venuta la sua volta di rispondere a Tisbe, il grottesco attore è tornato sulla scena, e tosto i suoi compagni, come una schiera di anitre selvatiche che avviste si sono del cacciatore, o come un branco di cornacchie che si alzano e stridono al rumore di una scarica d’archibusi, separandosi in disordine per le pianure dell’aere, tosto i suoi compagni sono ruggiti, e ognuno d’essi è caduto all’impressione del mio piede sopra la terra. Egli ha cominciato a gridare all’omicidio, e ad invocare soccorso da Atene. Nella confusion loro, oppressi dai loro terrori, ho armato contro ognuno gli oggetti inanimati. Le spine squarciano a lembi i loro abiti, e li fan rimaner nudi: nel delirio della paura lungo tempo gli ho condotti, lasciando il bel Piramo nella sua trasformazione. Ora il caso ha fatto che in quell’istante medesimo Titania si è svegliata, e innamorata si è tosto di un ciuco.
Ob. L’evento sorpassa la mia speranza. — Ma hai tu unti di quel filtro gli occhi dell’Ateniese, com’io t’aveva imposto?
Puck. L’ho sorpreso dormendo, e la cosa deve riescir a bene. La giovine giace ai suoi fianchi, talchè conviene necessariamente che svegliandosi ei la vegga.
Ob. Taci, ecco appunto l’Ateniese.
Puck. È ben la fanciulla, ma il giovine non è quello. (entrano Demetrio ed Ermia)
Dem. Oh! perchè scacciate così un uomo che vi ama? Usate tali rigori contro il vostro più crudel nemico.
Er. Finora io non fo che rimproverarti, e trattarti dovrei ben peggio, perchè dato mi hai, ne temo, gran motivo di maledirti. Se assassinato hai Lisandro immerso nel sonno, finisci di tuffarti nel sangue, me pure uccidendo; il sole non è così fedele al giorno, com’egli lo era a me. — Avrebbe egli mai abbandonata la sua Ermia addormentata? Crederei piuttosto che si potesse traforare da un polo all’altro la terra, e che la luna potesse discendere dal suo centro per ire agli antipodi e presentarsi al suo fratello meravigliato e mal contento. Conviene assolutamente che tu l’abbia ucciso: tu hai lo sguardo dell’assassino, e il tuo occhio è falso come quello dell’omicida.
Dem. Dite che ho lo sguardo d’un moribondo, trafitto nel cuore dal dardo della vostra barbarie, sebbene l’occhio di voi, che mi uccidete, sia così lucido, così puro come è Venere laggiù nella sua gloriosa sfera.
Er. Che importa ciò al mio Lisandro? Dove è egli? Ah! buon Demetrio, rendimelo.
Dem. Vorrei piuttosto dare il suo cadavere a’ miei cani.
Er. Lungi da me, lupo feroce; lungi da me. Tu l’hai dunque ucciso? Sii per sempre cancellato dal libro degli uomini! Oh! dimmi, dimmi una volta sola la verità, per pietà di me! Hai tu osato cogli occhi aperti guardarlo dormiente e sgozzarlo fra il sonno? Oh nobile opera! Un serpe, il più vil rettile ne poteva fare altrettanto. Sì; fu un serpe che commise tale opera: perocchè non mai vipera punse con dardo più avvelenato del tuo, rettile mostruoso.
Dem. Voi mi offendete ingiustamente. Io non ho versato il sangue di Lisandro, e per ciò che posso saperne ei non è morto.
Er. Ah! ditemi, ditemi dunque, ve ne scongiuro, ch’ei vive e che bene sta.
Dem. Se vel dicessi che cosa otterrei?
Er. Il privilegio di mai più rivedermi. — Io fuggo dalla tua abbonita presenza; tu pensa ad evitarmi, sia egli morto o vivo. (esce)
Dem. È inutile il seguirla in tale accesso di sdegno. Mi riposerò dunque qui alcuni istanti. Oh quanto più grave diviene il peso del dolore, allorchè il perfido sonno non vuol pagargli il suo debito! ma forse in questo istante ei lo sconterà almeno per alcune ore, se qui mi fermo in attenzione della sua compiacenza. (si corica)
Ob. Che hai tu fatto? Hai errato, e ponesti il filtro sugli occhi di un amante fedele. L’effetto del tuo errore è di mutare un amor sincero in un amor perfido, e non un perfido affetto in un sincero.
Puck. È il destino che governa gli eventi, e che fa che, per un amante che osserva la sua fede, mille altri la violano, comulando spergiuro sopra spergiuro.
Ob. Va, percorri il bosco più celere del vento, e vedi di scoprire Elena di Atene: ell’è malata d’amore, e pallida, sfinita per gli ardenti sospiri, che tolta hanno al suo sangue ogni freschezza. Cerca di condurla qui con qualche incantesimo, che io ammanerò gli occhi del giovine ch’essa ama, prima che gli comparisca dinanzi.
Puck. Vado, vado; osserva come io corro più celere di una freccia scoccata da arco tartaro. (esce)
Ob. «Fiore del color di porpora, forato dall’arco di Cupido, spremi il tuo succo nell’occhio suo! Allorchè ei cercherà la sua amante, splenda essa ai suoi sguardi col medesimo fulgore con cui Venere brilla nel cielo. Se al tuo svegliarti ella ti è vicina, intercedi da lei la tua guarigione». (rientra Puck)
Puck. Capitano della nostra banda fatata, Elena è presso, e il giovine vittima del mio fallo, la supplica del guiderdone dell’amore. Vedrem noi la scena dei loro errori? Quanto pazzi, o mio re, sono i mortali.
Ob. Ritratti: il romor ch’essi fanno sveglierà Demetrio.
Puck. Ebbene, saranno in due allora a vagheggiare una femmina. La scena diverrà lieta, e nulla più mi piace di codesti accidenti strani e impreveduti. (entrano Lisandro ed Elena)
Lis. Perchè credere ch’io vi schernisca? Non mai lo scherno si manifesta colle lagrime, e voi vedete che quando vi giuro amore, io piango: i giuramenti nati fra i pianti hanno ogni aspetto di sincerità. Come potete voi vedere segni di disprezzo in atti evidenti di tenerezza e di fede?
El. Voi vi piacete ognor più nel vostro perfido disegno. Allorchè la verità uccide la verità il combattimento è infernale e celeste. Codeste proteste son dirette ad Ermia: volete voi dunque abbandonarla? Pesate giuramento contro giuramento, e nullo sarà il peso. Le vostre dichiarazioni per lei e per me poste nella bilancia si contemperano e lievi sono, come vani racconti.
Lis. Io non aveva senno quando giurava a lei di amarla.
El. Nè più ne avete ora che volete distorvene.
Lis. Demetrio l’ama ed egli non ama voi.
Dem. (svegliandosi) Oh! Elena, dea, ninfa, perfetta, sovrumana! A che potrei, o amante mia, paragonare il tuo occhio? Il cristallo non è che fango. Oh! qual vezzo sulle labbra tue! Vermiglie come ciliegie mature, esse chiamano i baci! Allorchè tu sollevi la tua bella mano, la neve bianca e pura congelata sulle cime del Tauro, e sfiorata dai venti orientali, nera rassembra come la piuma del corvo. Oh! permetti ch’io baci quella meraviglia di candore che può accordar sola una vera felicità!
El. Oh! malizia d’inferno! Veggo bene che congiurati tutti siete contro di me per farvi giuoco delle mie sventure: se onesti foste e bennati, non vi piacereste tanto in tribolarmi. Non vi basta l’abborrirmi, come so che fate, senza collegarvi insieme per ingiuriarmi? Se uomini foste come ne avete la forma, non adoprereste così con una povera fanciulla. Giurarmi amore, amplificare la mia bellezza allorchè son certa che mi odiate! Siete entrambi rivali, amanti d’Ermia, ed entrambi gareggiate a chi più insulterà la misera Elena. Oh egregia opera! oh impresa degna d’onesti cavalieri, fare sparger lagrime a una donzella infelice, con scherni e dispregi! No, uomini meglio educati e di cuor più nobile offesa mai non avrebbero così una fanciulla; non mai avrebbero ridotta agli estremi la pazienza di un’anima desolata, come fate voi, solo per trar diletto delle mie pene.
Lis. Il vostro modo di procedere, Demetrio, non è onesto: comportatevi meglio. Voi amate Ermia, è cosa che non ignorate, e ch’io so, e volentieri io vi cedo ogni mia parte all’amore di lei: ricambiatemene, rinunziando ad Elena, che io adoro, e adorerò fino alla morte.
El. Non mai schernitori più spietati s’ostinarono in profondere vane parole.
Dem. Lisandro, tieni la tua Ermia; io non la voglio: se pur l’ho amata, un tale amore è spento. Il mio cuore non stette con lei che per poco, come ospite forestiero, ed ora è ritornato ad Elena come al suo luogo natìo, dove rimarrà per sempre.
Lis. Non crederlo, Elena.
Dem. Non calunniare quella fede che non conosci, per tema che molto non dovesse costarti. — Guarda l’amante tua che si avvanza: abbila cara. (entra Ermia)
Er. Fosca notte, se togli l’uso degli occhi, rendi l’orecchio più sensibile ai suoni: indebolendo un senso compensi l’uomo, perfezionandone un altro. — Non sono i miei occhi, Lisandro, che ti hanno scoperto: è il mio orecchio, e lo ringrazio, poichè mi ha condotto verso di te, al suono della tua voce. Ma perchè mi lasciasti tu così scortesemente?
Lis. Perchè restar dovrebbe quegli, a cui l’amore comanda di andare?
Er. E qual amore poteva costringer Lisandro ad allontanarsi da me?
Lis. L’amore di Lisandro, che non gli permetteva di rimanere, era quello ch’ei porta alla bella Elena: Elena che rende la notte più brillante che nol facciano di tutti quei globi infiammati che pendono dalla volta del firmamento. Perchè mi ricerchi tu? Il mio lasciarti non ti provava abbastanza che l’odio ch’io ti portava mi divideva da te?
Er. Voi non parlate come pensate; ciò è impossibile.
El. Oh ella pure fa parte dei congiurati! M’avveggo che accordati si sono per compiere questa scena beffarda. Insultatrice Ermia! fanciulla ingrata! hai tu pure cospirato con questi crudeli per farmi subire un ignominioso insulto? È questa la ricompensa per quella familiarità, per quella confidenza mutua dei nostri cuori, per quei voti scambievoli di amarci come sorelle, per tante dolci ore che abbiam passate insieme, e in cui rimproveravamo al tempo di troppo affrettare il suo corso allorchè dovevamo dividerci: hai tutto ciò dimenticato? E quella tenera amicizia incominciata alla scuola, e quell’innocenza dei nostri ludi fanciulleschi? Ermia, noi abbiamo, con un’arte eguale al potere degli Dei, creato entrambe coi nostri aghi uno stesso fiore sopra un solo tappeto, sedute sopra un medesimo guanciale, e cantando una medesima canzone, come se le nostre mani, le nostre persone, le nostre voci e le nostre anime non avessero appartenuto che a un solo e medesimo corpo: è così che siamo cresciute insieme come due ciliegie gemelle, separate in vista, ma nella loro separazione unite e appese al medesimo gambo. In noi si vedevano due corpi, ma non vi era che un cuore; e tu vuoi rompere con violenza il nodo della nostra antica tenerezza per unirti a costoro nell’odioso divisamente di oltraggiare e di schernire la tua povera amica? Oh tale non è il procedere di un’anima pia: e tutto il nostro sesso ha diritto come me di rimproverarti quest’opera, sebbene io sia la sola che ne risenta il danno.
Er. Sono confusa da queste parole: io non vi insulto: parmi piuttosto che siate voi che vi facciate beffa di me.
El. Non avete voi spinto Lisandro ad insultarmi seguendo i miei passi, e vantando per ischerno i miei occhi e la mia beltà? Non avete voi esortato l’altro vostro amante Demetrio, che fino ad ora mi avrebbe scacciata con piede brutale, a chiamarmi dea, ninfa, divina e rara meraviglia, beltà celeste e inapprezzabile? Perchè dirizza egli a me tali parole, a me ch’egli odia? E perchè Lisandro abiura il vostro amore sì radicato nel suo petto, per offrirmene, se non per vostra istigazione, e col vostro assentimento? Se non ho tante grazie quanto voi, sì amata, sì felice, e ricca, non ne sono io anche troppo punita? Amare senza essere amata non è per me il colmo della sventura? Sorte sì dolorosa dovrebbe eccitare la vostra pietà, non il vostro disprezzo!
Er. Non so intendere quel che volete dire.
El. Sì, sì; continuate, continuate a mostrare un aspetto grave e di meraviglia; vibratevi scambievoli occhiate tostochè io mi volgo altrove; fate l’uno all’altro segni d’intelligenza; perseverate in questa simulazione in cui tanto vi piacete: il mondo parlerà di scena così leggiadra. Se aveste qualche pietà, qualche generosità nell’anima, qualche conoscenza di un procedere delicato, non fareste così vile abuso dei sentimenti miei; ma è in parte il mio fallo: addio: la morte o la lontananza porranno in breve rimedio ad ogni cosa.
Lis. Fermati, gentil Elena: odi le mie scuse; mio amore, mia vita, mia anima, vaghissima Elena!
El. A meraviglia!
Er. Mio amico, non insultarla così.
Dem. Se ella nol può ottenere di buon grado, io vel posso costringere.
Lis. Tu non potresti forzarmivi, come Ermia non potrebbe ottenerlo pregando. Le tue minaccie non hanno maggior forza delle sue impotenti preghiere. — Elena, io ti adoro; sulla mia vita ti adoro; lo giuro su questa vita che perderò per te per convincer di menzogna chiunque osasse dire ch’io non ti amo.
Dem. Affermo ch’io ti amo di più ch’ei fare nol possa.
Lis. Se parli così, vieni in disparte, e provamelo.
Dem. Immantinente, andiamo...
Er. Lisandro, a che tende tutto ciò?
Lis. Via di qui, Etiopa.
Dem. No, no; non temete, ei finge di volersi sciogliere dalle vostre mani: su via, fate come se voleste seguirmi, e però non venite. Voi siete un uomo molto placido, codesto è inconcusso.
Lis. Lasciami, fanciulla impudica, vil creatura, lasciami libero, o ti caccierò da me come un serpente.
Er. Siete voi divenuto sì fiero? Qual mutamento istantaneo è questo, mio amore?
Lis. Tuo amore? Via di qui, nera Tartara: via di qui, oggetto di ribrezzo, pozione amara che mi commuove le viscere.
Er. Dite da senno?
El. Oh sì certo; come voi.
Lis. Demetrio, manterrò la mia parola con te.
Dem. Vorrei esserne sicuro, perocchè mi avveggo che un debole legame vi rattiene, nè affidar mi posso alle vostre promesse.
Lis. Che! debb’io ferirla, atterrarla, ucciderla? Sebbene io l’odii, non posso trattarla in tal guisa.
Er. E qual male maggiore di odiarmi, mi potete voi fare? Odiarmi, e perchè? Oh misera ch’io sono! Quale strano mutamento è questo, mio amore? Non sono io Ermia? Non siete voi Lisandro? Io son bella ora come fui nel passato: non è trascorsa che una notte dacchè mi amavate: non è che da una notte che lasciata mi avete. Perchè mi avete dunque lasciata?... Oh gli Dei nol vogliano! Mi abbandonaste veramente?
Lis. Sì, per la mia vita: e desidero di non rivederti mai più: rinunzia dunque ad ogni speranza: poni fine ai dubbi. Sii certa, e nulla è più vero, ch’io ti abborro e che amo Elena.
Er. Oh sfortunata ch’io sono! Tu, vile incantatrice, (a El.) insetto che rode i fiori, rubatrice d’amori, rapito tu mi hai il cuore del mio amante.
El. Bello in verità! Non avete dunque alcun sentimento di modestia, alcun pudore, alcuna verecondia? Volete strappare dalla mia lingua paziente risposte di collera e di furore? Vergogna, vergogna! Voi fate la parte di una vil commediante.
Er. Di una vil commediante? bene si addice tale titolo: ora mi avveggo perchè ell’ha comparate le nostre persone, perchè ha esaltata la grandezza della sua, e col vantaggio della persona, ha ottenuta la preferenza del mio amante. Siete voi dunque salita tant’alto nella sua stima solo perchè io son piccola, più piccola di voi? Ti sembro io dunque tanto piccola, fanciulla schernitrice e impudente? Ma tanto nol sono che le mie unghie non possano giugnere a’ tuoi occhi.
El. Vi prego, onesti cavalieri, accontentatevi di farmi vostro sollazzo, ma almeno impedite che essa mi offenda. Non mai fui donzella garritrice, non mai mi piacqui nelle contese: sono una giovane timida; impeditele di battermi. Non crediate, sebbene ella sia più piccola di me, ch’io possa starle contro.
Er. Più piccola! Udite; ella lo ripete ancora.
El. Buona Ermia, non esser così acre con me; io ti ho sempre amata, ho serbato sempre fedelmente i tuoi segreti; non mai ti ho fatta la più lieve offesa, niun’altra te ne ho fatta, fuorchè aver detto a Demetrio, costrettavi dal mio amore per lui, che fuggita tu eri in questo bosco: ei vi ti ha seguitata: l’amore mi indusse a venirgli dietro: ma ei m’ha obbligata ad allontanarmi minacciandomi di mali trattamenti, ed anche di morte: onde se vuoi lasciarmi libera riporterò la mia folle passione in Atene, e più non vi seguirò. Lasciatemi andare, voi vedete quanto sono semplice, e quanto stolta era la mia tenerezza.
Er. Ebbene, chi vi ritiene?
El. Un cuore insensato ch’io lascio dietro a me.
Er. Forse con Lisandro?
El. No, con Demetrio.
Lis. Non temere, Elena, ella non ti farà alcun oltraggio.
Dem. No certo; essa non gliene farebbe, quand’anche voi prendeste le sue parti.
El. Oh, allorchè essa è in collera, feroce diventa e malvagia: vispa era troppo anche quando andava a scuola: sebbene piccola, fiera assai ell’è.
Er. Piccola di nuovo mi chiami? Parlerai ognora della mia picciolezza? Perchè permettete voi ch’ella m’insulti così? Lasciate ch’io me le ravvicini.
Lis. Via di qui, nana, embrione, erba malefica, invisibile spica.
Dem. Voi siete troppo officioso in favore di quella che sdegna i vostri servigi. Lasciatela andare: non parlate di Elena; non prendete le sue difese; perchè se pretendeste darle il più piccolo segno d’amore, lo scontereste caro.
Lis. Ebbene, ella ora non mi rattiene più: seguitemi se l’osate, e andiamo a definire chi di noi due ha più diritti sul cuore di lei.
Dem. Seguirvi? No, verrò con voi al paro. (esce con Lis.)
Er. Siete voi, donzella, la cagione di questa rissa. No, non andate.
El. Non mi fido di voi, nè resterò più a lungo in vostra compagnia. Le vostre mani son più forti delle mie per battere, ma le mie gambe son più lunghe per evitare i colpi. (fugge)
Er. Son stupita, nè so che dirmi. (l’insegue)
Ob. Quest’è opera della tua negligenza: sempre erri, o compi a posta tali malizie.
Puck. Credimi, re delle ombre, io fallai. Non mi dicesti che avrei riconosciuto l’uomo alle sue vesti ateniesi? Innocente sono di tal errore, perchè è un ateniese veramente di cui ho ammaliati gli sguardi: e son lieto che la sorte me l’abbia posto dinanzi, credendo che tale scena vi abbia assai ricreato.
Ob. Tu vedi che quegli amanti cercano un luogo per battersi: affrettati dunque, Robin, parti, raddoppia l’oscurità della notte, cuopri tosto la vòlta dei cieli di una spessa nebbia, di un vapore umido e nero come l’Acheronte; e fra le tenebre fa smarrire quei rivali sdegnati, attalchè non possano più incontrarsi. A ciò accudendo favella ora a guisa di Lisandro e provoca Demetrio con ironiche e amare disfide; ora schernisci Lisandro simulando la voce di Demetrio, e allontanali l’uno dall’altro tanto che alfine per la troppa stanchezza, il sonno, imagine della morte, scenda sulle loro palpebre, li cuopra colle sue ali, e pesi sovr’essi col suo peso di piombo. Ciò fatto, spremi il succo di quest’erba, e fallo cadere negli occhi di Lisandro. Questo succo ha la virtù salutare di togliere dalla vista i prestigi e le illusioni che l’affascinano, e di rendere all’occhio la sua vision naturale. Allorchè si sveglieranno tutta cotesta scena di derisione sembrerà loro un vano sogno, e ritorneranno ad Atene stretti d’un’amicizia che fine non avrà che colla loro vita. Mentre tu compirai ciò io raggiungerò la mia regina per chiederle il suo fanciullo indiano: poscia romperò il fascino anche per lei, le farò conoscere l’errore della sua passione pel mostro da cui è rimasta avvinta; e la pace sarà dappertutto ristabilita.
Puck. Mio re degli Spiriti, convien affrettarsi ad eseguire questo ufficio; perocchè i draghi della notte fendono a pieno volo le nubi e le ombre, e il foriero dell’aurora comincia di già a risplendere sull’orizzonte. Al suo avvicinarsi, lo sapete, gli spettri che erravano qua e là, fuggono a torme verso i cimiteri e vi si nascondono. Tutti gli spiriti dannati che han sepoltura nei paduli e negli immondi stagni, son diggià rientrati nelle loro bare corrose dai vermi; essi temono che il giorno non li sorprenda e non mostri le loro forme luride, onde da loro medesimi si esiliano volontariamente dalla luce, condannati ad essere gli eterni compagni delle tenebre.
Ob. Ma noi siamo spiriti di un altro ordine. Io della luce del mattino ho preso spesso diletto; e posso come un custode di foreste calpestare il suolo dei boschi fino all’istante in cui la porta dell’oriente, tutta rossa di fuochi, spalancandosi e versando sopra Nettuno i suoi cari e benedetti raggi, muta in biondo oro le sue onde cerulee. Nondimeno affrettati; non perdere un istante; noi possiamo riempiere quest’opera anche prima del dì. (esce)
Puck. «Su e giù, su e giù; su e giù li condurrò: per città e per campi io son temuto; folletto, guidali su e giù». — Eccone uno. (entra Lisandro)
Lis. Dove sei, superbo Demetrio? Rispondimi ora.
Puck. Qui, scellerato, sguaina e difenditi. Dove sei?
Lis. Ti sarò fra un istante sul petto.
Puck. Seguimi dunque sopra miglior terreno.
(Lis. esce credendo di seguire la voce; entra Demetrio).
Dem. Lisandro! Parla, codardo, dove ti sei tu riparato? Parla. Fra qualche cespuglio? Dove nascondi la tua testa?
Puck. Pusillo, che millanti alle stelle il tuo ardore e non ardisci appressarti; vieni più vicino, fanciullo ribelle: ti sferzerò con una verga: sarebbe un disonore lo snudare la spada contro di te.
Dem. Ah sei tu costà?
Puck. Segui la mia voce; non è questo luogo da far prova del nostro coraggio. (escono; rientra Lisandro)
Lis. Ei mi va sempre innanzi sfidandomi, e quando io giungo dove mi chiama ei si è di già dipartito. Il ribaldo è più agile di piede che non son io; io lo seguivo, ma con maggior celerità ei si allontanava, e mi sono alla fine perduto in questo sentiero oscuro dove vuo’ riposarmi. Affrettati, giorno benefico! (si adagia per terra) Appena tu mi mostrerai la tua grigia luce saprò trovar Demetrio, e appagherò la mia vendetta. (si addormenta)
- (rientrano Puck e Demetrio)
Puck. Oh, oh! oh, oh! Codardo, perchè non vieni?
Dem. Aspettami, se l’osi; perchè io ben m’avveggo che tu corri dinanzi a me evitandomi per un vil timore. Dove sei?
Puck. Avvicinati.
Dem. Tu mi schernisci: ma lo sconterai caro, se potrò vedere il tuo volto, al chiarore del crepuscolo. Per ora vattene; la stanchezza mi costringe a coricarmi sopra questo freddo letto; appena aggiorni, mi rivedrai. (si corica e dorme; entra Elena)
El. Oh dolorosa notte, oh notte lunga e trista, abbrevia le tue ore e cedi allo splendore d’oriente, ond’io possa ritornarmene ad Atene e fuggire costoro che mi abborrono. — E tu, sonno, che degni talvolta chiuder le palpebre del dolore, toglimi per alcuni istanti a me stessa. (dorme)
Puck. «Eccone tre; un altro ne manca, e le due coppie saran complete. Ma ella qui viene dolorosa e mesta: ribaldo è ben Cupido, cruciando così le povere donzelle». (entra Ermia)
Er. Non mai fui tanto stanca, nè mai sì addolorata; umida son tutta di rugiada e squarciata dai dumi. Non posso andar più oltre: le mie forze si oppongono a’ miei desiderii, e qui convien ch’io mi riposi fino allo spuntare del dì. Cielo, proteggi Lisandro, se essi intendono veracemente di combattere. (si corica)
Puck. «Dormite sulla terra di un sonno profondo, ond’io nei vostri occhi versi il balsamo di questo amore. (spremendo il succo sugli occhi di Lisandro) Allorchè ti sveglierai, prenderai vero diletto nella vista della tua prima amante, e l’adagio comune ben conosciuto, che ognuno deve aver la sua parte, al vostro svegliarsi si avvererà: le coppie saran perfette; la gioia inonderà il petto di tutti. Così siate felici e vi sorridano i vostri sogni». (s’innalza a volo, lasciandoli tutti addormentati)
Note
- ↑ I nuovi costumi hanno resa sgraziatamente troppo familiare questa parola perchè abbisogni d’alcuna illustrazione!