Il Re dell'Aria/Parte seconda/6. Il tesoro di Trinidad

../5. Un combattimento terribile

../7. Il vascello fantasma IncludiIntestazione 30 luglio 2019 100% Da definire

Parte seconda - 5. Un combattimento terribile Parte seconda - 7. Il vascello fantasma
[p. 283 modifica]

CAPITOLO VI.

Il Tesoro di Trinidad.

La cena, composta quasi esclusivamente di pesce splendidamente conservato nella ghiacciaia dello Sparviero, entro la quale non regnavano mai meno di 90° sotto lo zero, era stata divorata, il the era stato bevuto ed i sigari accesi.

Ranzoff ed i suoi amici, seduti a prora, respiravano a pieni polmoni l’aria purissima dell’oceano, guardando le stelle che salivano sull’orizzonte, mentre lo Sparviero affrettava la corsa, librandosi maestosamente fra cielo e acqua.

Un gran silenzio regnava attorno ai figli dell’aria, appena rotto dal leggerissimo frullìo delle eliche, un silenzio che solo può ritrovarsi e gustare sulle più alte montagne del globo.

— Abbiamo mangiato e abbiamo anche accesi i sigari, — disse ad un tratto Wassili, volgendosi verso Ranzoff, — e la storia del tesoro non l’abbiamo ancora udita.

— È vero, — rispose il capitano dello Sparviero, sorridendo. — Che cosa vuoi, amico? Quando io mi trovo circondato da questi meravigliosi silenzi, scordo ogni cosa. Ah!... La poesia dell’aria!...

— Lasciate le poesie e venite ai milioni, — disse Rokoff. — Sono ansioso di tuffarvi dentro le mani.

Ranzoff aspirò una dietro l’altra tre o quattro boccate di fumo, poi disse: [p. 284 modifica]

— Ne vedrete dell’oro!

— Narra, — disse Wassili.

— Io, come per una strana combinazione, avevo udito più volte parlare di tesori nascosti dai pirati dell’Atlantico nelle isole che si trovano specialmente disperse fra le coste occidentali dell’Africa e quelle orientali dell’America meridionale.

Già molte leggende erano corse, leggende che quasi tutti i vecchi marinai conoscono e che raccontano volontieri ai giovani camerati, durante le grandi calme.

Probabilmente anche Teriosky, se è vero che ha fatta la sua fortuna su quelle isole, le aveva raccolte da lupi di mare, discendenti d’antichi corsari.

Fu in una gita al Brasile, che io feci molti anni or sono a bordo d’una goletta portoghese, che venni a conoscenza di enormi tesori nascosti a Trinidad, un isolotto del piccolo gruppo di Martin Vaz.

Il mastro di quella goletta mi aveva narrato che nel 1820 una banda di pirati atlantici, dopo d’aver saccheggiato e colato a fondo una nave spagnola che portava un grosso carico d’oro imbarcato in non so quale porto del Perù, era stata costretta, in causa d’una furiosa tempesta, a cercare un momentaneo asilo a Trinidad e che, temendo di perdere quelle ricchezze, le aveva nascoste in una caverna, chiudendone poi l’entrata con un enorme masso.

— Io conosco questa storia, — disse l’ex-comandante della Pobieda, il quale ascoltava attentamente. — Lo avete trovato voi?

— Sì, signor Boris, dopo lunghissime ricerche.

— Siete sicuro che vi sia ancora?

— Certamente. Ma perchè mi fate questa domanda? — chiese il capitano dello Sparviero un po’ sorpreso.

— Quando l’avete trovato?

— Sedici mesi or sono.

— Allora vi si trova ancora. La spedizione del Falcone è completamente fallita.

— Del Falcone!... — esclamarono ad una voce Ranzoff e Wassili. — Spiegatevi; spiegati. —

Invece di rispondere, Boris chiese al capitano dello Sparviero:

— A quanto credete che ammonti quel tesoro?

— A circa un milione di dollari (25 milioni di lire).

— Knight non si era ingannato, — disse Boris.

— Chi è costui? — chiesero Ranzoff, Fedoro e Rokoff. [p. 285 modifica]

— Avete mai letto la crociera del Falcone, pubblicata in Inghilterra nel 1889?

— No, — risposero tutti ad una voce.

— Allora vi dirò che un veterano dello sport nautico, un certo capitano E. F. Knight1 aveva pure saputo, probabilmente anche lui da qualche vecchio marinaio, che un gran tesoro era stato nascosto, intorno al 1820, nell’isola Trinidad da alcuni corsari.

Un bel giorno dunque salpò da Southampton col suo yacht ed una schiera di avventurieri, colla speranza di scoprire quella caverna che doveva contenere quell’enorme cumulo d’oro.

Il Falcone raggiunse felicemente l’isolotto, che si dice sia un picco vulcanico circondato da pericolose scogliere, ma, mentre stava per cercare un rifugio per mettersi al coperto dalle larghe ondate dell’Atlantico, il piccolo legno investì e fu costretto a dirigersi verso Bahia, per turare le falle.

Finalmente, dopo però molte avventure, il Falcone riuscì ad approdare a Trinidad ed a sbarcare buona parte dei suoi avventurieri.

Gli scavi e le ricerche ebbero principio, ma ahi!... Come sono incerti gli affari umani!...

Impiegarono quattro mesi a rimuovere una frana colossale, tuttavia i compagni di Knight non divennero perciò milionari.

Una caverna fu scoperta sotto la frana e non vi si rinvennero che degli avanzi di corteccia di china-china e d’altre merci, appunto quanto bastava per dimostrare che quella grotta doveva aver servito realmente di deposito clandestino, ma che i pirati ne avevano asportato l’oro predato, prima che avvenisse la frana.

Nonostante quell’insuccesso, Knight ed i suoi compagni ebbero, al loro ritorno in patria, una calorosa accoglienza da parte degli yachtsmen inglesi.

— Quel pover’uomo non aveva avuto buon naso, — disse Ranzoff, il quale aveva ascoltato con viva attenzione l’ex-comandante della Pobieda. — Io sono stato ben più fortunato di lui e non ho dovuto lavorare quattro mesi a rimuovere la frana, a scoprire una caverna e ritrovare ancora intatto il tesoro.

È certo che per raggiungere quell’altezza non sarebbero bastate le gambe degli uomini, poichè in quel luogo doveva essere avvenuto uno scoscendimento colla rovina di tutti i cornicioni e delle piattaforme superiori. [p. 286 modifica]

— E come avete fatto voi a trovarla? — chiese Rokoff.

— In quell’epoca non avevo ai miei servigi che Liwitz.

Stavamo esplorando già da parecchi giorni le cime superiori dello scoglio, frugando tutti i crepacci, quando ci trovammo dinanzi ad una frana.

Un enorme masso si era arrestato fra i detriti rocciosi, in modo che sarebbe bastato il più piccolo urto a fargli perdere l’equilibrio.

Possedeva in quell’epoca alcune cartucce di dinamite, e, sospettando che quella frana fosse precisamente quella che doveva coprire la famosa caverna, feci saltare il masso in mare.

Non mi ero ingannato nelle mie previsioni. Al posto poco prima occupato da quella roccia si apriva una piccola galleria.

Seguìto da Liwitz, il quale si era munito d’una fiaccola, la esplorai e giunsi ben presto in una spaziosa caverna, ingombra di vecchi fucili, di vele di ricambio, di barili ancora pieni di polvere e di balle di mercanzia, e fu in mezzo a questi che scopersi, entro quattro botti, il famoso tesoro nascosto dai corsari americani.

— Che emozione dovete aver provato in quel momento, signor Ranzoff! — disse il cosacco.

— Non troppa, — rispose il capitano dello Sparviero, alzando le spalle. — Veramente io non ci ho mai tenuto alle ricchezze e Liwitz può affermare se rimasi perfettamente tranquillo dinanzi a quelle botti che ad ogni colpo di scure lasciavano sfuggire veri torrenti d’oro.

— Non ero però così calmo io, — disse il macchinista, il quale si trovava pure presente alla narrazione. — Saltavo intorno alle botti e ballavo come un pazzo.

— Io avrei fatto altrettanto, giovanotto, — disse Rokoff. — Non si può sempre rimanere calmi dinanzi ad una montagna d’oro, guadagnata con una misera cartuccia di dinamite.

— Prosegui, Ranzoff, — disse Wassili.

— Non ho altro da aggiungere, — rispose il comandante dello Sparviero. — Dopo essermi ben convinto che nessun essere umano, che non avesse posseduto una macchina volante o per lo meno un pallone, non sarebbe mai riuscito a spingersi lassù in causa della frana, ho ripreso tranquillamente il mio viaggio.

— Voi dunque siete certissimo che nessuno abbia potuto toccare quel tesoro? — chiese Boris.

— Noi lo troveremo intatto. Se non lo trovassi più sarebbe per noi un colpo terribile, ma a questo non penso nemmeno. [p. 287 modifica]

— Perchè un colpo terribile? — chiese Wassili.

Ranzoff riaccese il sigaro, che gli si era spento durante la narrazione, poi, guardando bene in viso prima l’ingegnere, poi l’ex-comandante della Pobieda chiese:

— Avete prestato bene attenzione a quanto ci ha detto il baronetto.

— Certo, — risposero ad una voce i due fratelli.

— Allora avrete rilevato come il vecchio barone abbia condotto con sè una banda di avventurieri raccolti fra la peggiore schiuma dei porti del Baltico.

Quanti sono? Noi non lo sappiamo, ma io sono sicuro che saranno ben più numerosi di noi.

— Continuate, — disse Boris, con ansietà.

— Supponiamo che quel pazzo si sia rifugiato in qualche altra isoletta perduta sull’Atlantico e che, per paura d’un colpo di mano da parte nostra o meglio vostra, si sia ben fortificato.

Che cosa potremmo fare in tale caso noi? Non siamo che in dodici, coraggiosi senza dubbio, però troppo pochi per espugnare uno scoglio.

— Confesso che a ciò non avevo mai pensato, — disse Wassili. — Tu sei un uomo previdente, Ranzoff.

— Ora io ho pensato che si potrebbe benissimo sacrificare un paio di milioni per noleggiare una buona nave, perchè cooperi con noi ed arruolare anche noi un buon numero di avventurieri.

In America, sia del Nord che del Sud, non mancano persone che, pur di guadagnare un migliaio di dollari, buttano la loro pelle, senza guardarsi indietro, fra le braccia di messer Belzebù.

Vi pare?

— E chi le arruolerà? — chiese Rokoff.

— Qualcuno di noi. Non datevi, per ora, pensiero alcuno per questo. Ed ora, giacchè la notte è calma, andiamo a dormire. —

L’indomani sera lo Sparviero, che divorava lo spazio con velocità fantastica, si trovava in vista del gruppo delle Bermude.

Ranzoff, che non voleva perdere tempo, quantunque avesse un mese dinanzi, prima di poter sapere qualche cosa dal baronetto, tempo più che sufficiente per lasciarlo tornare in Russia e spedire un dispaccio a Boston, decise di passare sopra le isole, invece di girarle a ponente od a levante.

Male gliene incolse però, poichè gli isolani, scorgendo quell’uccellac[p. 288 modifica]cio che fendeva l’aria coll’impeto d’un proiettile, lo accolsero con nutrite scariche di fucili, costringendolo ad innalzarsi più che in fretta.

— Giacchè quegli stupidi ci obbligano a raggiungere le grandi altezze, proviamo a fare una ascensione, — disse Ranzoff. — Vi spiacerebbe amici? Io ne ho già fatto di magnifiche in America e anche in Asia.

— Saliamo, — rispose Wassili.

— Purchè non andiamo a cadere sulla luna, — disse Rokoff.

— Bah!... Non mi spiacerebbe andare a fumare un sigaro lassù — disse Fedoro.

— E andare a offrire il tuo thè a quegli abitanti, se ve ne sono, è vero, amico?

— Non ne avranno bisogno, Rokoff, — rispose il negoziante.

— Tenetevi ben fermi alle balaustrate, — comandò Ranzoff. — Liwitz, dà la massima spinta alla macchina e lascia funzionare solamente le ali e le eliche prodiere.

Arresta quelle di poppa.

— Sì, signore, — rispose il macchinista.

— Pronto?

— Lancio. —

Lo Sparviero si era inclinato bruscamente colla prora in alto, squilibrandosi verso poppa, poi si slanciò obliquamente.

Le ali battevano febbrilmente e le eliche prodiere frullavano con rapidità tale che non si potevano più scorgere.

Ranzoff si era collocato dinanzi ad un barometro sospeso ad una traversa e contava a voce alta:

— Duemila... tremila... quattromila... cinquemila... —

Lo Sparviero saliva sempre, con un fremito sonoro, colla prora sempre in alto. Pareva un treno diretto, lanciato verso la luna o verso il sole.

La temperatura diventava rapidamente fredda e gli uomini cominciavano a provare dei sintomi di malessere. Le loro arterie ed il cuore battevano febbrilmente e le loro orecchie ronzavano in modo strano.

Di quando in quando sentivano dei capo-giri.

Soli Ranzoff e Liwitz, i quali, probabilmente erano ormai abituati alle grandi altitudini, pareva che non provassero alcun sintomo.

Il primo guardava sempre, ora il barometro ed ora il termometro.

— Novemila!... — disse ad un tratto, — e 14° sotto zero.

— Volete proprio condurci nella luna? — chiese Rokoff, il quale [p. 289 modifica]In un baleno fu rovesciato sulla duna e imbavagliato. (Parte II, Cap. X). [p. 291 modifica] si teneva disperatamente aggrappato alla balaustrata d’acciaio. — Si deve respirare assai male lassù.

Mi sembra che il mio petto a poco a poco si schiacci e che i miei polmoni non abbiano più voglia di funzionare.

— Ed io provo la sensazione di un uomo che abbia bevuto una pinta di votka, — disse Fedoro, il quale impallidiva a vista d’occhio.

Ranzoff non rispose: guardava sempre i due istrumenti.

— Diecimila!... — lo udirono a esclamare i suoi compagni, confusamente — e 22° sotto zero. Che salto di temperatura!...

Liwitz arresta le ali e le eliche. Basteranno i piani orizzontali per farci scendere dolcemente. —

Era tempo!... Wassili, Boris, Rokoff, Fedoro e anche i sei marinai non si reggevano più in piedi. L’asfissia li minacciava.

Lo Sparviero riprese il suo appiombo, le ali rimasero aperte ma immobili, le eliche cessarono di funzionare.

La macchina volante, sorretta dai piani, i quali servivano meravigliosamente da paracadute, ridiscendeva verso la terra con un largo dondolìo che non aveva nulla di sgradevole.

Man mano che lo Sparviero si abbassava, tutti i componenti l’equipaggio e gli amici di Ranzoff, si sentivano come rivivere.

Le oppressioni, i ronzii, le febbrili battute del cuore e delle arterie scomparivano rapidamente.

— Per le steppe del Don!... — esclamò Rokoff, il quale ormai respirava a pieni polmoni l’aria più tiepida e vivificante dell’oceano, — non ne potevo proprio più.

— Simili prove sono talvolta pericolose per chi non è abituato alle grandi altezze, — rispose Ranzoff, mentre Liwitz sturava una bottiglia di cognac, offrendone a tutti.

— Eppure, — disse Wassili, — vi sono degli uomini che vivono impunemente a delle altezze straordinarie, senza provare disturbi di qualsiasi genere.

— L’organismo umano non è come quello delle piante, — rispose Ranzoff. — Si adatta meravigliosamente ai grandi freddi come ai grandi caldi; alle grandi bassure come alle grandi altitudini.

Mentre le piante si arrestano a certi livelli, noi vediamo gli esquimesi vivere pacificamente a 60° sotto lo zero e perfino dei siberiani a 70° e degli africani sopportare delle temperature altissime che raggiungono talora i 48° come nel Senegal ed altri resistere là dove l’aria è estremamente rarefatta. [p. 292 modifica]

— È vero, — disse Wassili. — In Europa non vi sono che pochissimi villaggi, tre o quattro nell’Engandina, situati al di sopra dei 1860 metri, ma in America vi sono città considerevoli, collocate ben più in alto ed i cui abitanti vivono senza provare alcun malessere.

Messico, per esempio, è situato a 2290 metri; Quito a 2900; Cuczo a 3470; La Paz a 3720 e Potosi a 4165.

Già la maggior parte delle popolazioni del Perù e della Bolivia vivono al di sopra dei 3000 metri, e fra quelle montagne si trovano delle antiche strade, costruite dagli Inkas, che si spingono perfino all’altezza di 3610 metri.

— Dove però l’uomo resiste di più è nel Tibet, — disse Boris.

— Sì — rispose l’ingegnere. — Il passo di Mostaz, per esempio, si trova a 5800 e buona parte dell’anno è percorso da un gran numero di pellegrini che si recano a Lhassa e sul Tengri-Noor.

Ad Hamlo vi è pure un monastero di Lama che si trova a 5059 metri e quegli eremiti ci si trovano benissimo.

— Io però mi trovo molto meglio presso la crosta terrestre, — disse Rokoff.

— Perchè non siete abituato alle grandi altezze come io e Liwitz, — rispose Ranzoff. — Eppure nel nostro viaggio compiuto attraverso l’Asia assieme a voi ed il vostro amico Fedoro abbiamo attraversati i più alti passi del Tibet e non mi sono accorto che d’una cosa sola.

— Di quale? — chiese Rokoff.

— Che per riscaldarvi bevevate come una spugna, — rispose il capitano dello Sparviero, ridendo.

— Voi dovete sapere che un cosacco ha sempre sete.

— Me ne sono accorto anch’io or ora, — disse Fedoro. — Si è dimenticata la bottiglia di cognac fra le sue mani e questo briccone se l’è bevuta tutta, senza nemmeno accorgersene.

Uno scoppio di risa accolse l’osservazione del negoziante di the.

— Giacchè è vuota la regalo ai pesci, — disse il cosacco. — Fiuteranno almeno il profumo. —

L’aveva scaraventata al di sopra della balaustrata e si era curvato per vedere dove andasse a finire, quando un grido gli sfuggì:

— Un mostro!... Una balena!... —

Tutti si erano precipitati verso la balaustrata.

Lo Sparviero, il quale non aveva cessato di abbassarsi lentamente, sorretto dai piani orizzontali, si trovava in quel momento a soli cento [p. 293 modifica] cinquanta metri dalla superficie dell’oceano, anzi Liwitz, il quale se n’era accorto, stava appunto per rimettere in movimento le ali e le eliche. Un cetaceo gigantesco, che misurava per lo meno sedici metri di lunghezza, tutto nero, vellutato sul dorso e argenteo lungo i fianchi, con una grande pinna dorsale in forma d’un triangolo, si trovava proprio sotto lo Sparviero ed aveva ricevuto sulla testa la bottiglia scagliata dal cosacco.

Quel proiettile caduto dall’alto pareva che l’avesse un po’ irritato, poichè si era messa subito a lanciare dai suoi due sfiatatoi, immensi getti di acqua polverizzata.

— Una poescopia!... — aveva esclamato Boris.

— Una balena insomma. — disse Wassili.

— E delle più vivaci.

— Se potessimo prenderla!... — disse Rokoff.

— Che cosa vorreste farne? — chiese Ranzoff.

— Per mangiarne almeno un pezzo. —

Il capitano dello Sparviero rimase un momento silenzioso, osservando attentamente il gigantesco cetaceo, poi chiese a Boris:

— Maschio o femmina?

— Femmina, — rispose l’ex-comandante della Pobieda. — Ecco là il suo balenottero che la segue, quasi interamente tuffato.

— Avete mai assaggiato il latte di quei cetacei?

— Sì, signor Ranzoff.

— Si dice che non sia cattivo, è vero?

— Passabile.

— Il freddo intenso della nostra dispensa lo renderà migliore e ci servirà ottimamente per mescolarlo col the.

— Che cosa volete fare, signor Ranzoff?

— Impadronirmi di quel cetaceo, — rispose il capitano dello Sparviero. — Il balenottero è abbastanza grosso per poter ormai provvedere da sè al proprio nutrimento. Ursoff!...

— Signore!... — rispose il timoniere.

— È carico il cannoncino?

— Lo sarà subito.

— Prepara il grosso rampone da caccia.

— Subito, signore.

— Che cosa vuoi fare d’un rampone? — chiese Wassili.

— Mi sono fornito del necessario per poter fare, se capitava l’occasione, delle grandi pesche. [p. 294 modifica]

— Tanto vale ammazzare quel cetaceo con una cannonata o con una delle tue formidabili bombe.

— No, perchè desidero fare un esperimento.

— Quale?

— Te lo dirò poi. Diamine, viaggio un po’ anche per studio, — disse Ranzoff. — Siamo pronti, Ursoff?

— Quando vorrete, signore. —

Il timoniere invece di caricare, nel piccolo pezzo d’artiglieria un obice, vi aveva cacciata dentro una lunga asta di ferro, la quale terminava in una larga lama di forma quasi triangolare, coi margini esterni affilatissimi e quelli interni, ai due lati del manico, molto larghi e spessi.

Era il rampone moderno, già in uso da parecchi anni fra i balenieri, specialmente norvegiani.

Ranzoff fece introdurre la bocca del pezzo nella larga cubia di prora, ciò che gli permetteva di ottenere un angolo assai basso, e mirò attentamente il cetaceo, il quale continuava a nuotare tranquillamente a fior d’acqua, inghiottendo quintali e quintali di granchiolini di mare, la famosa zuppa delle balene, che non si trova solamente nei mari artici ed antartici come generalmente si crede.

Pascolava colla medesima tranquillità d’una mucca, senza troppo preoccuparsi del balenottero il quale si divertiva a girarle intorno, ora scomparendo ed ora riapparendo per strofinare il suo largo muso sul corpo vellutato della madre.

— Povera bestia, — disse Fedoro. — Meriterebbe che si risparmiasse.

— Un altro, domani o fra una settimana, la ucciderebbe egualmente, — rispose Ranzoff, — e quell’altro forse non è a corto di viveri come noi. La necessità non ha legge pel navigante, così del mare come dell’aria. —

Si era curvato sul pezzo, correggendo per la seconda volta la mira, mentre Ursoff disponeva lungo la balaustrata di babordo la grossa fune incatramata che era attaccata all’estremità della lancia con due o tre metri di catena, perchè la polvere non la incendiasse.

Pochi istanti dopo, una detonazione, piuttosto debole, rimbombò a bordo dello Sparviero. Ranzoff aveva fatto fuoco.

Il lungo dardo partì fischiando, svolgendo la lunga fune con rapidità fulminea e s’immerse nello strato grasso del cetaceo, un po’ a destra della pinna dorsale, scomparendo più che mezzo.

— Colpita!... — gridarono ad una voce Rokoff ed i suoi compagni. [p. 295 modifica]

— Corda, corda, Ursoff!... — urlò Ranzoff.

La balena affondava insieme al balenottero, agitando furiosamente la possente coda. Delle vere ondate si sollevavano intorno ad essa e la spuma si tingeva di rosso.

Il sangue usciva a torrenti dall’enorme squarcio prodotto dal rampone.

Il dorso nero, scomparve formando come un piccolo gorgo, mentre la fune, che aveva una lunghezza da trecentocinquanta a quattrocento metri, continuava a svolgersi.

— Ed ora? — chiese Wassili, guardando Rokoff.

— Aspettiamo che ritorni a galla e che ci rimorchi.

— Non ci trascinerà invece in fondo all’oceano? — chiese il cosacco.

— Faremo presto a tagliare la fune, signor Rokoff; io credo però che non ne avremo bisogno.

Se non vuole morire asfissiata, sarà costretta a tornare presto a galla. L’aria che basta ai pesci non è sufficiente a quei colossi.

— Le sparerete ancora contro?

— Ne ha abbastanza, — disse Boris. — Questi ramponi producono sempre delle ferite mortali.

Foyn, il famoso baleniere norvegiano, ha avuto una splendida idea di surrogare alle vecchie lance le spingarde ed i cannoncini.

Almeno le scialuppe non corrono più alcun pericolo. —

La fune non affondava più, anzi si era allentata, segno evidente che il cetaceo stava per ritornare alla superficie dell’oceano.

— Attenti, — disse l’ex-comandante della Pobieda, il quale durante le sue lunghe crociere sugli oceani aveva assistito più d’una volta alla presa di quei mostruosi abitanti delle acque salate.

Sulla superficie del mare, che in quel momento appariva tranquillissima, regnando una calma quasi completa, si scorgeva un forte remolìo.

D’improvviso il cetaceo comparve con uno slancio immenso, uscendo più che mezzo, poi sprofondò con un rombo assordante, mandando una nota formidabile che aveva qualche cosa di metallico.

Fortunatamente la fune che lo univa allo Sparviero era molto allentata; diversamente la macchina volante avrebbe indubbiamente subita una scossa forse pericolosa.

Per alcuni istanti il cetaceo, che pareva fosse impazzito pel dolore che gli causava la gravissima ferita, girò su se stesso, avventando in [p. 296 modifica] tutte le direzioni dei terribili colpi di coda, poi prese la corsa verso il sud, trascinando seco lo Sparviero. Mentre ciò avveniva, Ranzoff eseguiva per suo conto una serie di calcoli.

— Che cosa fai dunque? — chiese Wassili, mentre Liwitz, dietro un segno del suo capitano, arrestava per alcuni secondi il movimento delle ali e delle eliche.

— Voglio rendermi conto della forza di trazione di questi giganteschi pesci, — rispose il capitano dello Sparviero.

— E hai ottenuto?

— Che questa balena, che deve pesare non meno di settanta tonnellate, possiede una forza di centocinquanta cavalli a vapore e qualche frazione.

È un esperimento come un altro.

— Che può però diventare pericoloso. Lo Sparviero subisce dei soprassalti terribili. —

Invece di rispondere, Ranzoff fece a Liwitz un altro segno e la macchina volante invece di lasciarsi rimorchiare, riprese a sua volta la corsa mantenendosi sopra al cetaceo.

— Per le steppe del Don!... — esclamò Rokoff. — Questo bestione fila come una torpediniera d’alto mare.

— Molto di più, capitano, — rispose Ranzoff.

— Durerà molto questa corsa indiavolata?

— Meno di quello che credete. Il povero cetaceo si esaurisce rapidamente.

Guardate quanto sangue cola dalla sua ferita. —

La balena infatti rallentava. Di quando in quando si tuffava tutta sperando di calmare i dolori atroci prodotti dal terribile rampone, poi rimontava a galla mandando urli sempre più formidabili.

Il balenottero invece era scomparso, costrettovi dalla madre, poichè quei bravi cetacei sentono infinitamente l’amore per la loro prole e si sacrificano volontieri pur di salvare i figli.

Quella corsa furiosa durò un’ora buona, poi il cetaceo fece la sua prima fermata vomitando dagli sfiatatoi dei getti d’acqua rossastra.

Era quello il segnale della sua prossima fine. Rantolava poderosamente: pareva d’udire talvolta il tuono ad una grande distanza.

Fece ancora tre o quattro immersioni battendo, furiosamente la coda e la larga pinna dorsale, poi per la seconda volta s’arrestò.

Il suo immenso corpo sussultava tutto, come se provasse dei brividi incessanti. [p. 297 modifica]

Ad un tratto l’enorme massa si rovesciò sul dorso. La balena era morta.

— Andiamo a raccogliere il nostro latte, — disse Ranzoff. — Le mammelle sono ben gonfie e ne trarremo parecchi barili.

— Povera bestia! — dissero Rokoff e Fedoro.

— La lotta per l’esistenza è così, miei cari signori, — rispose il capitano dello Sparviero. — Da che il mondo ha creato degli esseri, il più forte ha sempre ucciso il più debole. —



Note

  1. Storico.