Il Re dell'Aria/Parte seconda/5. Un combattimento terribile

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CAPITOLO V.

Un combattimento terribile.

A quel secondo colpo di cannone, che non lasciava più alcun dubbio sulle intenzioni bellicose del terribile Re dell’Aria, gli artiglieri, quantunque fossero convinti di non opporre una lunga resistenza al formidabile attacco aereo, erano balzati entro le torri, mentre gli uomini di quarto sgombravano rapidamente la coperta.

L’uccellaccio, sicuro della sua impunità, scendeva sull’incrociatore con rapidità fulminea, colle sue immense ali tese e quasi immobili ed i suoi piani inclinati rigidi.

A mille metri si arrestò e si mise a roteare, sinistro uccello da preda, intorno al Tunguska, come se cercasse di colpirlo in qualche punto vitale.

— Fuoco a volontà!... Tutti i fucilieri in coperta!... — aveva telefonato il baronetto.

La magnifica nave da guerra, per la seconda volta, si era coperta di fuoco e di fumo.

Pezzi grossi e pezzi piccoli a tiro rapido e mitragliere sparavano all’impazzata. Proiettili-mine e obici perforanti solcavano l’aria, quali scoppiando rumorosamente, quali ronfando sordamente.

Trecento fucilieri si erano precipitati in coperta per far fuoco e respingere l’attacco, quando tre o quattro proiettili, delle bombe d’una potenza straordinaria, caddero dall’alto, fra i due alberi militari, scoppiando con inaudita violenza. [p. 269 modifica]

Il Re dell’Aria tempestava i ponti, schiantando murate ed attrezzi e facendo strage di uomini.

I fucilieri cadevano a dozzine e la gragnuola di bombe continuava implacabile.

Erano torpedini che piovevano sul povero incrociatore o altri consimili istrumenti di distruzione? Chi avrebbe potuto dirlo in quei momenti di orribile confusione?

Il fatto era che il Tunguska, malgrado le sue formidabili artiglierie e le sue pesanti corazze, si trovava in piena balìa del nemico.

Bastarono cinque minuti per liquidarlo completamente. Gli alberi militari, schiantati alla base da quella tempesta infernale di granate, erano caduti attraverso la tolda, sbandando la nave sul tribordo.

Le corazze saltavano e cadevano a pezzi in mare, le murate si piegavano; le torri si aprivano, costringendo gli artiglieri a salvarsi nelle batterie.

Tutta la coperta era in fiamme ed i grossi pezzi giacevano al suolo smontati.

Il baronetto, pallido come un cencio lavato, aveva assistito alla distruzione della sua nave senza pronunciare una parola. Difeso dall’enorme cupola del block-house era sfuggito fino allora alla morte.

Ad un tratto la gragnuola di granate cessò bruscamente, ma ormai le macchine non funzionavano più, essendo saltate le eliche e l’incrociatore, privo perfino del timone, andava attraverso alle onde accostandosi al banco fatale.

Teriosky era uscito dal block-house e aveva alzati gli occhi.

La macchina volante si librava a soli cinquecento metri sopra il Tunguska, continuando imperturbabilmente i suoi giri concentrici.

Da un’asta, spinta a prora del fuso, erano apparse alcune bandiere di segnalazione. Dicevano brutalmente:

— Se non vi arrendete entro cinque minuti, vi affonderemo prima di arenarvi.

— Bisogna rispondere, signor barone, — disse Orloff, il quale appariva vivamente commosso. — Voi avete fatto tuttociò che era umanamente possibile per abbattere il vostro avversario.

Voi non avete nessuna colpa se non siete il più forte. —

Il signor di Teriosky lo guardò senza rispondere. Pareva che in poche ore fosse invecchiato di cinque anni.

Gli ufficiali dello Stato Maggiore lo avevano circondato, interrogandolo cogli sguardi, ansiosi.

Continuare la lotta era impossibile. Il Tunguska non poteva [p. 270 modifica] difendersi in alcun modo da quell’attacco che veniva dall’alto e non era ormai altro che un ammasso di ferraglie sconquassate e che, per colmo di sventura, minacciava da un momento all’altro di squilibrarsi sotto il peso dei suoi alberi militari gravanti sul tribordo e dei suoi enormi pezzi delle torri di coperta.

— Signori, — disse, con voce un po’ tremante. — Credete che ogni resistenza sia inutile?

— Abbiamo cinquecento uomini a bordo da salvare, — rispose il tenente di vascello.

— Potete voi testimoniare, dinanzi all’Ammiragliato, che io ho fatto il possibile per liberare l’Atlantico da quella terribile macchina volante?

— Sì, signor barone, — risposero tutti ad una voce.

— Ebbene... si abbassi la bandiera e si annunzi la nostra resa.

Fece atto di portare la mano alla busta contenente la rivoltella. Orloff ed un tenente furono pronti a trattenerlo.

— Che cosa fate, signor barone? — disse il primo, strappandogli d’un colpo l’arma.

— Quando il comandante d’una nave si arrende, si uccide per non assistere alla discesa della bandiera della patria, — rispose il baronetto con voce cupa. — La mia carriera è finita.

— Non ancora signore, — rispose Orloff. — Gli uomini di mare, e voi lo sapete meglio di me, contano sempre sulla rivincita.

Prese la rivoltella e con un gesto rapido la lanciò in mare, aggiungendo:

— Questa non vale un pezzo da trenta centimetri. —

Il baronetto, per un momento accasciato, aveva rialzata la testa.

— Avete ragione, signor Orloff. In fondo al cuore del marinaio rimane sempre qualche cosa, specialmente quando quel marinaio è un uomo di guerra. E poi, — aggiunse, dopo qualche istante di silenzio, — sono curioso di sapere che cosa vogliono quegli uomini.

— E la nave, comandante? — chiese il secondo di bordo.

— Lasciate che derivi verso il banco; ormai è perduta e non potrebbe più mai ritornare in Russia.

Giù la bandiera!... —

La macchina volante continuava i suoi giri, come se godesse dell’agonia del possente incrociatore, che aveva così facilmente vinto. [p. 271 modifica]

Le bandiere che chiedevano inesorabilmente la resa, sventolavano sempre sull’asta di prora del fuso.

La bandiera russa calò lentamente lungo il gherlino dell’albero militare di poppa, insieme a quella dell’asta.

I capi pezzi e molti vecchi mastri e quartiermastri piangevano; gli ufficiali dello Stato Maggiore erano pallidissimi.

Quella doppia calata era la morte dell’incrociatore.

— Segnali di bandiera!... — gridò il baronetto, il quale pareva che avesse riconquistato d’un colpo tutto il suo sangue freddo. — Dite che ci lascino arenare sul banco onde impedire all’incrociatore di affondare.

La risposta del Re dell’Aria non si fece aspettare:

— Attendiamo. —

Il Tunguska andava alla deriva da che le sue macchine avevano cessato di funzionare. Ardevano ancora gl’immensi forni, facendo girare gli alberi motori, privi, per la seconda volta, delle eliche.

Nessuno si era occupato di spegnere gli ultimi residui di carbone ora che il combustibile racchiuso nelle ampie carboniere non poteva aver più alcun valore.

Il Tunguska ormai non era più che un gigantesco rottame, destinato, presto o tardi, a finire in fondo all’Atlantico, come i transatlantici della Compagnia Teriosky.

Il maledetto uccellaccio lo accompagnava, descrivendo di quando in quando delle spirali che lo spingevano perfino a tremila metri, come se temesse una improvvisa sorpresa, non già da parte delle artiglierie, bensì dei Mauser, i cui proiettili potevano salire ben alti e guastargli le ali, le eliche ed i piani orizzontali.

Poi ripiombava, come corpo quasi morto, arrestandosi fra i mille ed i millecinquecento metri, mantenendosi, con una precisione meravigliosa, sempre sopra i ponti del disgraziato incrociatore.

La gran massa d’acciaio, sospinta dalle onde che si rovesciavano dal settentrione, s’avanzava verso il banco di Mun’s Riff, sopra cui si rompevano, con estremo furore, i cavalloni, con un frastuono infernale.

La macchina volante l’aveva sorpreso appena a cinquecento metri dai primi bassifondi, quindi il tratto era brevissimo.

Il Tunguska, oscillando spaventosamente, sempre sbandato a tribordo, s’accostava.

Di quando in quando dei pezzi di corazza si staccavano e cadevano [p. 272 modifica] in mare con un sordo tonfo che produceva sull’equipaggio, ormai tutto raccolto sulla tolda, un effetto disastroso.

Pareva, a quei valorosi, che fossero lembi di terra russa che precipitassero nei baratri dell’Atlantico.

Ad un tratto un urto violentissimo avvenne a poppa. Il Tunguska aveva urtato sui bassifondi del banco e la ruota poppiera si era improvvisamente alzata, affondando poi pesantemente fra le sabbie tenaci del Riff.

Il baronetto non aveva fatto motto. Preferiva d’altronde la sua nave finisse i suoi giorni a galla, piuttosto che vederla scomparire sotto l’Atlantico.

E poi vi erano più di quattrocento uomini a bordo da salvare.

L’arenamento non aveva causato nessuna confusione fra l’equipaggio, abituato già a considerare a sangue freddo i pericoli.

Gli ufficiali, per meglio consolidare la posizione dell’incrociatore ed impedire alle onde di rovesciarlo, fecero affondare immediatamente le ancore, poi spingere in mare i due alberi militari, i quali erano la principale causa di quel forte squilibrio.

Sull’asta di prora del fuso comparvero in quel momento altre bandiere di segnalazione.

— Siete pronti a rispondere? — chiedeva il Re dell’Aria.

— Sì, — fu risposto dall’incrociatore.

— Si invita il comandante ad imbarcarsi solo su una delle scialuppe a vapore e di venire a parlamentare col Re dell’Aria. Se si rifiuta ricominceremo il bombardamento.

— Accordateci dieci minuti per deciderci.

— Aspettiamo, — fu risposto dalla macchina volante.

Il baronetto, con un gesto aveva chiamati intorno a sè tutti gli ufficiali dell’incrociatore.

— Avete udito? — disse loro. — Avete nulla da dire?

— Una domanda, signor barone, — disse il secondo capitano di vascello. — Non vi terranno prigioniero quegli uomini? La condizione che v’impongono di recarvi solo all’appuntamento mi è sospetta.

— Quando si tratta di salvare la vita a quattrocento uomini, un capitano non deve mai esitare, — rispose il baronetto. — Se io mi rifiutassi, la pioggia di granate ricomincerebbe e qui succederebbe uno spaventevole massacro.

— Il Tunguska è egualmente perduto, comandante. Alla prima tempesta noi verremo spazzati via tutti. [p. 273 modifica]La preziosa cassa era già stata imbarcata. (Parte II, Cap. VIII). [p. 275 modifica]

— Può passare una nave e raccogliervi, prima che quell’uragano giunga a sorprendervi. Questo banco non è già lontano dalle vie battute dai transatlantici.

Non credo poi che quel signor Re dell’Aria sia un furfante nel pieno senso della parola, può darsi che sia semplicemente un vendicatore.

— Voi forse ne sapete qualche cosa, — disse Orloff.

— Anche questo può essere, — rispose evasivamente il baronetto.

Trasse l’orologio e guardò l’ora.

— Sono già trascorsi sei minuti, — continuò. — Mettete in mare la piccola lancia a vapore. Non ho alcun timore di fare la conoscenza del Re dell’Aria.

— E se vi tenesse prigioniero? — insistette il sotto-capitano di vascello.

— In tale caso farò il possibile per indurre quel signore, in nome dell’umanità, ad avvertire la prima nave che può incontrare, di accorrere in vostro aiuto.

Se ci ha risparmiati mentre avrebbe potuto facilmente, continuando la pioggia di bombe, affondarci prima di giungere qui, vuol dire che non avrà alcuna intenzione di farvi morire di stenti su questo banco.

Abbiate piena fiducia di me. —

Un fischio acuto lo avvertì che la piccola lancia a vapore era stata già messa in acqua e che la macchina era sotto pressione.

Strinse la mano ai suoi ufficiali, rispose al saluto dei quattrocento marinai schierati sui ponti e scese nella scialuppa, lanciandola a tutto vapore verso il settentrione.

Anche la macchina volante si era messa in moto, volando rapidamente in quella direzione. Si manteneva ad un’altezza di appena cinquecento metri ed accennava a scendere lentamente verso l’oceano.

Il baronetto continuò la sua marcia finchè vide apparire sull’asta del fuso altre bandiere le quali segnalavano:

— Fermate!... —

Diede subito il contro-vapore e la scialuppa, dopo un ultimo slancio, si arrestò, lasciandosi cullare dalle onde.

La macchina volante scendeva rapida. Cadde appena a quindici passi dalla lancia, tenendo le sue immense ali perfettamente diritte e posando sulle acque i suoi piani orizzontali i quali servivano magnificamente da bilancieri e tuffando la sua chiglia scintillante.

L’uccellaccio si era coricato come un gigantesco albatros che desidera prendere un breve riposo. [p. 276 modifica]

Un uomo comparve subito sulla prora e si tolse il berretto dicendogli in perfetto russo:

— Buon giorno, signore. È col signor barone di Teriosky che ho l’onore di parlare, se non m’inganno. —

Il comandante del Tunguska non potè frenare un vivo moto di stupore, vedendosi conosciuto da un uomo che non si rammentava d’aver mai visto prima di quel momento.

Si rimise però subito, rispondendo:

— Sì, sono il baronetto di Teriosky, comandante del Tunguska. E voi chi siete?

— Mi chiamano il Re dell’Aria. —

I due uomini si guardarono per parecchi istanti l’un l’altro, con vivissima curiosità, poi Ranzoff, — poichè era proprio il capitano dello Sparviero — riprese con perfetta cortesia:

— Vi prego di accettare le mie scuse pel modo piuttosto brusco con cui ho trattato il vostro magnifico incrociatore, ma voi converrete che io avevo tutto il diritto di difendermi, dopo che la guerra era stata lealmente dichiarata fra il mio Sparviero ed i transatlantici della Compagnia Teriosky. Voi mi avevate assalito e col vostro accanito inseguimento guastavate i miei piani.

— Io difendevo i miei piroscafi, signore, che voi vi divertivate a colare a fondo.

— Non i vostri, quelli di vostro padre, signor barone, — corresse Ranzoff, con una leggera punto d’ironia.

— Che un giorno dovranno diventare miei, signore, — disse il comandante del Tunguska un po’ piccato. — Io solo sono il suo erede e voi mi avete sottratti parecchi milioni per regalarli inutilmente a quell’oceano il quale non ne aveva affatto bisogno.

— Se vostro padre non fosse stato vivo, forse io avrei lasciati tranquilli i vostri transatlantici poichè le persone per conto delle quali io agisco non avrebbero avuto più nessun motivo di vendicarsi.

— Di quali persone intendete di parlare? — chiese il baronetto, il quale appariva profondamente impressionato.

— Delle vittime di vostro padre, — rispose Ranzoff con voce grave.

Il comandante del Tunguska arrossì come una fanciulla, poi impallidì spaventosamente, mentre con un gesto rapido si strappava via alcune stille di sudore che gli scendevano lungo le tempie. [p. 277 modifica]

— Mio padre era diventato pazzo, — disse con voce sorda. — Tutti lo sanno in Russia.

— Ciò non gli ha impedito però di rovinare due galantuomini, di aver confiscato a suo profitto le loro ricchezze, di aver rapita ad uno dei due una figlia e finalmente di averli mandati in esilio, uno in Siberia e l’altro a Sakalin. —

Il baronetto si era lasciato cadere sulla panca di poppa, completamente accasciato, tenendosi stretto il capo fra le mani; in preda ad una cupa disperazione, mentre Liwitz, aiutato da due marinai, con un raffio fermavano la lancia a vapore, traendola dolcemente verso lo Sparviero e ormeggiandola.

Al piccolo cozzo che successe, il baronetto era tornato ad alzarsi.

— Chi vi ha informato di questa vergogna commessa dalla follia di mio padre? — chiese.

— Favorite salire sulla mia macchina volante e vi mostrerò gli accusatori di vostro padre. —

Il baronetto ebbe un momento di esitazione e cacciò una mano entro la guardia della rivoltella, vuotata fortunatamente da Orloff, forse coll’intenzione di servirsene contro di sè, piuttosto che contro il Re dell’Aria, poi con uno sforzo improvviso balzò sopra la balaustrata prodiera dello Sparviero, mettendo i piedi sulla tolda.

I sei marinai dello Sparviero, con Liwitz alla testa, stavano schierati dinanzi alla misteriosa macchina, armati di fucili; dietro di loro vi erano altre due persone che il baronetto subito non osservò.

Ad un cenno di Ranzoff, l’equipaggio presentò le armi al capitano del Tunguska, poi si divise in due lasciando scoperti Wassili e l’ex-comandante della Pobieda.

A poppa stavano seduti, pure armati, Rokoff e Fedoro.

Il baronetto, vedendo dinanzi a sè i due fratelli, le vittime di suo padre, aveva mandato un grido acutissimo, poi aveva fatto due o tre passi indietro, coprendosi il viso colle mani.

— Voi!... Voi!... — aveva esclamato con angoscia.

— Sì, siamo noi, cugino, — aveva risposto Wassili. — Non credevate di trovarci qui, su questo tremendo ordigno da guerra che sfida impunemente i transatlantici di vostro padre e le potenti navi del governo russo, è vero?...

— Voi!... — aveva ripetuto il baronetto.

A quella violenta prostrazione, subentrò però quasi subito una intensa reazione. [p. 278 modifica]

— Ebbene, che cosa volete da me? — chiese con voce stridula, incrociando le braccia e avanzandosi verso i cugini. — La mia vita per vendicare le follie di mio padre? Prendetevela!...

— La vostra vita non basterebbe alla nostra riabilitazione, — disse Boris. — E poi non mi restituirebbe la mia Wanda, rapitami infamemente da vostro padre.

— Avete ragione, comandante, — disse il baronetto, calmandosi di colpo. — Anzi la mia vita non deve spegnersi, per riabilitare l’ex-comandante della Pobieda e l’ingegnere. Mio padre ha agito come un vero miserabile, o meglio come un pazzo. È mio dovere, come uomo d’onore, di riparare la macchia che imbratta il blasone dei Teriosky. Perdonatemi!...

— A voi, cugino, non dobbiamo alcun perdono, poiché sappiamo che voi non avete avuto alcuna parte in tutta questa disgraziata faccenda. Se non m’inganno, quando vostro padre ordì la trama infernale che doveva far di me, onesto uomo di mare, un galeotto delle Sakaline e di mio fratello, un minatore dell’Algasithal, voi eravate al Giappone coll’Amur.

— È vero, comandante, — rispose il barone. — Fu solo dopo il mio ritorno in patria che appresi, con orrore, quanto aveva fatto mio padre per strapparvi Wanda che egli, nella sua follia, credeva mia sorella rinata dalle onde del Mare del Nord.

Era troppo tardi per pensare alla vostra riabilitazione. Cercai d’indurre mio padre a riparare a quell’infamia e mi rispose con un reciso rifiuto, per paura di perdere vostra figlia, comandante, che ormai adorava follemente.

D’altronde sarebbe stato il disonore che sarebbe caduto sulla nostra casa e forse, altri, piuttosto di compromettere il padre, avrebbero agito al pari di me.

Da quella volta io non lo rividi più mai. Era partito per l’Atlantico equatoriale per trovarsi un rifugio inaccessibile a tutti, perché temeva da un momento all’altro il vostro ritorno.

— E si rifugiò a Tristan de Cunha, sull’Inaccessibile, è vero signor barone? — disse Ranzoff.

— È vero. Egli nella sua gioventù aveva visitato quell’enorme scoglio per cercare non so quali tesori nascostivi, molti anni prima da dei corsari inglesi e conosceva a menadito quel luogo. [p. 279 modifica]

— Ed aveva condotti con sè molti uomini? — chiese Wassili.

— Una cinquantina, reclutati fra i più terribili avventurieri dei porti del Baltico.

— Sapete che ha lasciato Tristan?

— Sì, — rispose il comandante del Tunguska, dopo una breve esitazione. — Saranno tre settimane, quando mi pervenne un dispaccio da Sant’Elena.

Mi annunciava che mio padre aveva lasciato l’isola insieme ai suoi uomini, a bordo d’una piccola nave a vapore che aveva condotto seco, senza però dirmi per dove.

— Scusate, signor barone: giurereste sul vostro onore d’ignorare dove vostro padre si è cercato un nuovo rifugio?

— Lo giuro, — rispose il comandante del Tunguska, senza esitare.

— Disapprovate voi la condotta di vostro padre?

— Assolutamente.

— In tale caso voi sareste disposto ad aiutare i vostri cugini nella loro riabilitazione.

— Sì, con tutte le mie forze.

— E di fare il possibile per indicarci il suo nuovo rifugio? Comprenderete benissimo come vostro padre non abbia alcun diritto di tenere prigioniera una fanciulla che non è sua.

— Vi ho detto che mio padre è pazzo.

— Allora noi vi metteremo delle condizioni, se voi vorrete ricuperare la vostra libertà e salvare nel medesimo tempo i vostri marinai, — disse l’implacabile Ranzoff. — Se voi le rifiuterete, rimarrete con noi come un prezioso ostaggio e affonderemo, a colpi di granata, la carcassa dell’incrociatore.

— Sono pronto ad accettarle, — rispose il baronetto. — Parlate signore.

— Noi vi accordiamo un mese per farci sapere dove vostro padre ha nascosto la signorina Wanda Starinsky.

— Ma come potrei farvelo sapere? Dove? In quale luogo?

— Basterà che voi spediate un dispaccio all’ufficio Telegrafico di Boston da rimettersi al signor R. Ranzoff.

Notatevi questo nome.

— E andrete a ritirarlo là! — esclamò il baronetto con sorpresa.

— Certo: e perchè no?

— Colla vostra macchina volante?

— Ah! Questo è un altro affare. [p. 280 modifica]

— È tutto questo?

— No, signor barone.

— Che cosa volete ancora?

— Dirvi che noi ci metteremo subito in cerca d’una nave e che l’avvertiremo che sul banco di Riff si è arenata una nave da guerra russa e che parecchie centinaia di uomini attendono urgenti soccorsi. Noi non interromperemo la nostra crociera dell’Atlantico finchè non saremo ben certi che vi abbiano salvati.

Ho ora un’altra cosa da dirvi.

— Quale?

— Che voi sarete pienamente rimborsato delle perdite subìte dalla Compagnia. —

Questa volta non fu il solo barone che fece un moto di profonda sorpresa: anche Boris e Wassili avevano guardato Ranzoff, chiedendosi mentalmente se era impazzito come il barone.

— Siete un nababbo voi!... — esclamò Teriosky. — Le tre navi che avete affondate non costano meno di un milione di dollari a mio padre.

— Era il calcolo che avevo fatto approssimativamente io, — rispose il Re dell’Aria, con calma. — Accettate le nostre condizioni?

— Sì, ad un patto però.

— Dite pure.

— Io vi ripeto che ignoro assolutamente, per ora, dove mio padre si sia rifugiato, però sono certo che si trova su qualche isola a lui ben nota.

Voi l’assalirete, gli avventurieri che mio padre ha assoldati la difenderanno sicuramente con estremo accanimento.

Risparmierete mio padre?

— Ve lo promettiamo, — risposero ad una voce il Re dell’Aria, Boris e Wassili.

— Voi siete generosi: io cercherò di non esserlo meno. Sono libero, signori?

— La vostra scialuppa vi aspetta, — rispose Ranzoff.

Il baronetto si era fermato dinanzi ai due cugini. Pareva che una terribile lotta si combattesse nel suo animo, a giudicarlo dall’estrema alterazione del suo viso.

Ad un tratto fece un passo innanzi con ambe le mani tese, dicendo con voce profondamente commossa:

— Vi giuro, signori, che se mio padre ha commessa, nella sua follia, una infame azione, il figlio farà di tutto per ripararla. —

Strinse le mani che l’ex-comandante della Pobieda e Wassili gli [p. 281 modifica] avevano sporte senza esitare, si levò il berretto dinanzi a Ranzoff che lo salutava, poi fuggì, balzando nella lancia a vapore la cui macchina era sempre sotto pressione.

Liwitz aveva ritirato prontamente l’arpione, lasciandola libera.

Il baronetto fece un ultimo gesto d’addio, poi la lancia prese la corsa verso il Tunguska sempre immobilizzato sul banco.

Quasi subito la macchina dello Sparviero si mise pure a funzionare e l’uccellaccio meraviglioso, dopo di avere come scivolato sulle acque per qualche centinaio di metri per prendere lo slancio, si alzò maestosamente nell’aria.

— Ursoff, — disse Ranzoff, — poggia verso la costa americana. Abbiamo promesso al signor di Teriosky di mandargli qualche nave in aiuto e noi manterremo scrupolosamente la parola.

D’altronde è nostro interesse che egli ritorni il più presto possibile in Europa, è vero signor Boris?

— Certamente, se vogliamo sapere dove si è nascosto suo padre.

— Siete certo che manterrà anche lui la sua promessa?

— È un uomo di guerra, un soldato e noi non dobbiamo dubitare della sua parola d’onore.

Quel giovane comandante non mi sembra un uomo capace di compiere un tradimento.

— E nemmeno io dubito della sua lealtà, — disse Wassili. — Egli ci darà Wanda e tenterà la nostra riabilitazione.

— Per le steppe del Don!... — tuonò Rokoff. — Se non mantenesse le sue promesse avrebbe da fare con me.

Io posso ritornare in Russia quando mi pare e piace ed un comandante di marina non può nascondersi come un uomo qualunque.

Strangolarlo non sarebbe un gran che, per le mie zampe d’orso nero, come Fedoro chiama le mie mani.

— Io spero che non vi sarà bisogno di ricorrere a tali mezzi estremi, — disse Ranzoff, ridendo. — Voi siete un uomo veramente terribile.

— Non sarebbe un cosacco, — disse Fedoro.

Un tocco di campana li avvertì che il cuoco di bordo, non ostante tante emozionanti avventure, non si era dimenticato di preparare egualmente il pranzo.

Lo Sparviero intanto si allontanava velocissimo dal banco, muovendo verso la costa americana, dove eravi la speranza di incontrare facilmente qualche transatlantico in rotta per l’Europa.

Ranzoff e Boris, i quali conoscevano perfettamente le vie battute [p. 282 modifica] di preferenza dalle navi che vanno dall’uno all’altro continente e viceversa, erano più che sicuri di incontrarne ben presto una.

Nondimeno lo Sparviero dovette percorrere ben trecentoventi miglia prima di scorgere un transatlantico.

Batteva bandiera francese e sembrava che provenisse da Boston, che era il porto più vicino ed anche il più importante.

Vedendo la terribile macchina volante, ormai troppo nota in America come in Europa, la nave aveva dapprima cercato di fuggire, forzando le macchine, ma accortasi che ogni sforzo sarebbe riuscito inutile, dopo la prima intimazione, segnalata da bandiere, si era fermata.

— Volete affondarci? — aveva fatto domandare il capitano del transatlantico, mentre una folla di emigranti, impazzita dallo spavento, invadeva la coperta, urlando.

Con stupore di tutti lo Sparviero segnalò invece null’altro di quanto già sappiamo, ossia che sul banco di Munn’s Riff era naufragato un incrociatore russo e che quattrocento uomini si trovavano in grave pericolo.

Lo invitava perciò a cambiare immediatamente rotta e portarsi in soccorso dei naufraghi.

Aveva però Ranzoff fatto un’aggiunta minacciosa:

— Badate che noi vi sorveglieremo e che se non vi recherete al banco vi affonderemo tutti.

Siete avvertiti!... —

E per far capire al capitano che non ischerzava, lo Sparviero seguì a distanza il piroscafo, il quale si era ben guardato di disobbedire a quell’ordine.

Verso il tramonto il Tunguska era in vista. Giaceva sempre semicoricato sul tribordo e non pareva che avesse sofferto dai colpi di mare che l’Atlantico avventava senza posa su quel basso fondo.

Lo Sparviero assistette, da una grande altezza, all’imbarco dei naufraghi, come per far comprendere al capitano del transatlantico che era pronto ad effettuare la sua minaccia, poi, con una superba volata, passò sopra il banco e scomparve verso il sud.

— Dove vuoi condurci ora, amico? — chiese Wassili a Ranzoff, il quale stava osservando attentamente una carta dell’Atlantico meridionale.

— A cercare i milioni necessari per pagare i piroscafi che noi abbiamo affondati al tuo bel cugino, — rispose il capitano, senza alzare la testa. [p. 283 modifica]

— Dei milioni hai detto?

— Che sia stato fortunato solamente Teriosky nelle sue ricerche? Anch’io mi sono occupato dei tesori nascosti nelle isole perdute su questo immenso oceano. Mi pare anzi di avertene parlato un giorno.

— Infatti me ne ricordo.

— Ebbene andiamo a cenare, amico, per ora. Ne riparleremo sorbendo il thè e fumando un buon sigaro. —