Il Re dell'Aria/Parte prima/15. Gli elefanti marini
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - 14. Tristan de Acunha | Parte prima - 16. I misteri dell'Inaccessibile | ► |
CAPITOLO XV.
Gli elefanti marini.
Quasi all’estremità settentrionale della piattaforma, le rocce, scendendo a picco, formavano una specie di bastione, il quale prolungandosi sul mare per due o trecento passi, opponeva una barriera insuperabile all’assalto delle onde.
Una scogliera, che si spingeva più al largo in semicerchio, difendeva una specie di bacino, dove l’acqua protetta dal bastione e da quelle rocce, si manteneva in una relativa tranquillità.
Precisamente in quel luogo, Wassili aveva veduto emergere una massa enorme, di colore oscuro, e issarsi, dopo lunghi sforzi, sulla spiaggia che in quel luogo era bassa. Non poteva essere un leone marino, perchè quelle foche ordinariamente non oltrepassano i due metri e mezzo, e tanto meno una focena od una balenottera, cetacei che non lasciano mai il loro elemento liquido. Quindi l’ingegnere si era convinto che dovesse essere un elefante marino, anfibi che sono ancora numerosi nei mari del sud, non ostante la caccia accanita che danno loro i balenieri ed i cacciatori di foche.
Armatisi delle traverse, il russo ed il cosacco si erano spinti cautamente fino all’estremità della piattaforma, per calarsi poi sul bastione e quindi scendere nel bacino.
— È un vero elefante, — disse Wassili, quand’ebbero raggiunto il bastione. — Ecco che si è sdraiato sulla sabbia e che si gode un raggio di sole.
Se siamo prudenti lo sorprenderemo.
— Che bestione! — esclamò il cosacco, il quale si era spinto fino sulla cima della roccia.
Ed era veramente un bestione, perchè gli elefanti marini raggiungono delle dimensioni assolutamente straordinarie, misurando sovente una lunghezza di sette e anche più metri, con una circonferenza di cinque.
Questi giganteschi mammiferi, che appartengono all’ordine dei cetacei e alla famiglia delle foche, non si trovano che nei mari del sud, fra il 35° ed il 55° parallelo, e soprattutto nelle isole della Georgia, nelle Setland australi, a Juan Fernandez, a Tristan de Cunha e nelle Falkland.
Sono di forme massicce, con zampe natatoie assai sviluppate, terminanti in piccole unghie, occhi grossi e sporgenti, e hanno il pelame fitto, corto, di color bigio al pari degli elefanti, ma quel che più li avvicina ai pachidermi è una specie di proboscide, lunga un buon piede, che si tende e si gonfia quando l’animale è irritato e che invece ricade come uno straccio quando esso è tranquillo.
L’elefante scoperto dall’ingegnere era uno dei più grossi della specie. Uscito dall’acqua, aveva risalito la riva, avanzandosi molto lentamente e con un tremolìo da far sembrare quella massa un enorme sacco di gelatina, quindi si era sdraiato placidamente sulla sabbia, manifestando la sua soddisfazione con delle grida rauche e cupe che producevano una profonda impressione.
— Ditemi, signor Wassili, — disse il cosacco, un po’ impressionato. — Non si scaglierà contro di noi per schiacciarci?... Mi sembra troppo colossale per poterlo assalire con delle semplici traverse di legno.
— E come volete che faccia a gettarsi su di noi? — chiese l’ingegnere, ridendo. — Questi mammiferi, quando sono a terra, non possono muoversi che con difficoltà.
Immaginatevi che impiegano non meno di mezz’ora a percorrere il tratto di centocinquanta metri e che sono costretti poi a riposarsi a lungo, prima di riprendere le mosse.
— Si difenderà.
— Con che cosa?
— Colla sua tromba.
— Non gli serve che per respirare e per muggire.
— Eppure quell’animalaccio produce su di me un vero senso di terrore. Quasi preferirei affrontare un paio di tartari.
— Ah! Signor Rokoff! Li credete così poco coraggiosi quei predoni delle steppe?
— Tutt’altro, signor Wassili, li ho veduti alla prova e vi posso dire che si battevano splendidamente.
— Allora non dovete aver paura d’un inoffensivo elefante marino. Non è già un pachiderma delle foreste africane.
Orsù, seguitemi e badate a non far cadere qualche masso, altrimenti quell’animalaccio ci sfuggirà. —
Si issarono sulla cresta del bastione e si spinsero innanzi, tenendosi curvi per non farsi scorgere. Il mammifero però pareva che non si fosse accorto di nulla. Si allungava, si accorciava, gonfiava la sua proboscide mandando fuori soffi potenti e colle zampe rimuoveva le sabbie, forse per cercare i piccoli molluschi che vi si nascondevano.
Certo non doveva ignorare che l’Inaccessibile era disabitato e si credeva sicurissimo.
L’ingegnere ed il cosacco, giunti all’estremità del bastione, si calarono dolcemente sulla spiaggia, gettandosi subito dietro una fila di rocce, la quale si prolungava fino a pochi passi dal mammifero.
— Siete pronto? — chiese l’ingegnere.
— Le mie braccia sono solide.
— Datemi il vostro coltello.
— Ve lo cedo volentieri, perchè non avrei forse il coraggio di assalire quel mostro.
— Non abbiate alcun timore e non vi lasciate impressionare nè dal suo aspetto, nè dalle sue urla. —
Non erano che a dieci passi dal mammifero. Entrambi balzarono sopra i massi e si precipitarono verso la spiaggia per impedirgli di riguadagnare il mare, urlando a piena gola e agitando minacciosamente le pesanti traverse.
Vedendoli, l’elefante aveva gonfiato d’un colpo solo la tromba, che poco prima pendevagli inerte attraverso la bocca e aveva mandato un muggito spaventoso.
La sua massa intera si scosse con un tremito strano, si levò sulle zampe e fece atto di precipitarsi innanzi.
Il suo aspetto era diventato orribile. Gli occhi gli si erano subito iniettati di sangue, la sua tromba mandava suoni rauchi e cupi e si agitava furiosamente, i suoi denti incisivi, curvi come i canini e molto grossi, stridevano ed il suo pelame era diventato irto.
Pareva che dovesse travolgere e schiacciare con un solo urto i due coraggiosi che lo assalivano; invece non si muoveva che con sforzi infiniti, quantunque puntasse furiosamente le sue natatoie.
L’ingegnere, niente impressionato, gli si avventò addosso, tempestandolo di colpi. Rokoff non tardò ad imitarlo, mirando soprattutto la proboscide, la quale ben presto ricadde inerte e sanguinante.
L’enorme mammifero però, quantunque impotente a difendersi da quella gragnuola di colpi, resisteva tenacemente e si sforzava di raggiungere il mare per tuffarsi.
Le traverse, quantunque maneggiate con vigore straordinario, pareva che battessero un sacco di stracci. Bisognava finirla. Rokoff, inferocito per quell’ostinata resistenza, con una legnata poderosa vibratagli in mezzo al cranio, lo fece cadere, poi afferrato il coltello, con un colpo terribile gli squarciò la gola.
Il povero elefante si dibattè alcuni minuti, perdendo torrenti di sangue dall’ampia ferita e raddoppiando i suoi muggiti i quali diventavano sempre più cavernosi, poi un tremito convulso scosse l’intera massa; si raggrinzò, dondolò ancora una volta la proboscide fracassata dai colpi del cosacco, poi si rovesciò su di un fianco vomitando un ultimo getto di sangue.
— Una vittoria molto facile, come avete veduto, — disse Wassili a Rokoff, il quale contemplava con un misto di terrore e di meraviglia il gigantesco mammifero.
— Non credevo che riuscissimo ad abbatterlo, signore, — rispose il cosacco. — Ed ora, che cosa faremo di tutta questa carne?
— C’è ben poco da mangiare, — disse l’ingegnere. — Eccettuata la lingua, molto squisita, specialmente se conservata per qualche tempo nel sale, tutto il resto non vale gran cosa. La carne è oleosa e di cattivo gusto, il fegato è malsano e perfino il cuore è così duro da non potersi digerire. Potremo però ricavare da questo corpaccio millecinquecento libbre d’olio, una provvista veramente preziosa per la nostra cucina, perchè brucerà benissimo senza puzzo e senza produrre fumo.
— Ed il resto?
— S’incaricheranno gli uccelli marini di farlo sparire. Guardate, cominciano già a giungere a battaglioni: albatros, rompitori d’ossa, petrelli, procellarie, sule e perfino delle fregate.
— E mi pare che si preparino a piombarci addosso per disputarci la preda. Fortunatamente abbiamo le nostre traverse e li picchieremo per bene.
— Affrettiamoci a tagliare questa bestia e portiamo con noi del grasso, o al nostro ritorno ne troveremo ben poco. —
Fortunatamente il coltello di Rokoff, un vero bowie-knife americano regalatogli da Fedoro, era d’una solidità a tutta prova e tagliava come un rasoio.
Il cosacco nondimeno faticò non poco a intaccare la grossa pelle del mammifero. Mentre tagliava in larghe strisce la grassa cotenna, l’ingegnere la strappava, accumulandola da una parte.
L’operazione però procedeva fra grida furiose ed incessanti assalti. Gli uccelli marini, niente spaventati, calavano a stormi, strappando pezzi di grasso e di carne sotto gli occhi dei cacciatori.
Di quando in quando, Rokoff, che serbava rancore ai petrelli, ne accoppava due o tre con un colpo di traversa, ma la lezione non bastava a trattenere gli altri.
S’alzavano per alcuni secondi, roteando vertiginosamente attorno ai due uomini e colpendoli colle robuste ali, poi tornavano a piombare più audaci di prima.
— Signor Wassili, — disse Rokoff, — se non troviamo qualche nascondiglio, quando torneremo non rimarrà un pezzetto di grascia.
— Vedo là un crepaccio, — rispose l’ingegnere, additando il bastione. — Lo riempiremo, poi lo chiuderemo con dei massi.
— Non potrà contenere tutta la provvista.
— Avete intenzione di rimanere qui molto tempo? Quando avremo in serbo un centinaio di libbre di questo grasso, sarà più che sufficiente per noi. Vedrete che lo Sparviero non tarderà a tornare qui.
— Allora, tenete in freno questi maledetti uccellacci finchè io riempio il buco. Ne avete tagliato abbastanza.
Il cosacco cominciò il trasporto, mentre l’ingegnere respingeva a colpi di traversa quegli indemoniati volatili che diventavano sempre più furiosi. Bastarono dieci minuti per riempire quel buco, che fu subito turato con grossi massi, poi l’ingegnere e Rokoff si caricarono di grascia e della lingua del mammifero e risalirono il bastione.
I volatili si erano già precipitati sull’elefante marino, disputandoselo a colpi d’ala e di rostro. Erano almeno cinque o seicento che battagliavano rabbiosamente per prendersi i pezzi migliori.
Ursoff si recò incontro ai due cacciatori. Aveva assistito dall’alto della piattaforma all’attacco del mostro e non senza trepidazione, non potendo credere che un sì grosso animale potesse lasciarsi uccidere senza opporre resistenza.
— Ho tremato per voi, — disse. — Siete due coraggiosi.
— Bah! Ci voleva poco coraggio, miss, — rispose Rokoff. — Come hai veduto, quel povero bestione si è lasciato accoppare tranquillamente.
— È ancora acceso il fuoco? — chiese l’ingegnere.
— Sì, signor Wassili.
— Abbiamo qui una superba lingua da aggiungere al pingoino. Così per oggi e domani il vitto è assicurato. —
Lieti del loro successo, entrarono nella capanna per mettersi al riparo dai freddi soffi del vento del sud, e con della grascia alimentarono il fuoco.
Una bella fiamma brillante, che non dava fumo nè tramandava odore, s’alzò fino quasi al tetto.
— E non aver un tegame! — esclamò Rokoff. — Si poteva friggere alcune fette di questa superba lingua e variare così i nostri pasti.
— Se troveremo dell’argilla ne fabbricheremo, — disse Wassili. — Temo però di non potervi contentare, perchè questo scoglio pare che non abbia nemmeno un palmo di terra. È vero che non è stato esplorato nella sua parte superiore.
— Tenteremo noi di raggiungere la vetta.
— Se è stato chiamato l’Inaccessibile, vuol dire che nessuno ha mai potuto scalare questo scoglio.
— E poi chissà se ne avrete il tempo, — disse Ursoff. — Vi siete dimenticati dello Sparviero.
— Non comparirà però da un momento all’altro, — rispose Wassili. — Se l’uragano qui va calmandosi, deve infuriare verso l’est e Ranzoff avrà molto da fare a difendere la sua macchina dalle raffiche.
— Ha una macchina poderosa, signore, — disse Ursoff.
— Lo so, ma i venti sono terribili in queste regioni e costringono a fuggire anche i più grossi velieri.
— E poi, — disse Rokoff, — può aver riportato dei guasti gravissimi. Quando io ed il mio amico Fedoro abbiamo fatto la traversata dell’Asia, dalle frontiere della China alla foce del Gange, le sue ali hanno dovuto cedere ai soffi poderosi che si scatenavano sugli altipiani del Tibet.
Anche allora io ho fatto un bruttissimo capitombolo, in mezzo ad un lago però.
— Se le ali si fossero guastate, miei cari amici la nostra liberazione andrà un po’ in lungo, — rispose Wassili. — È bensì vero che Tristan d’Acunha non è lontana e che molto probabilmente dei pescatori verranno, appena cessato l’uragano, a cacciare qui elefanti marini e foche.
— Possiamo fidarci di quegli isolani?
— Completamente, — rispose Wassili. — Anzi noi potremmo avere da loro delle preziose informazioni sul barone.
— Voi dunque avete assoluta fiducia che quel furfante si sia rifugiato qui colla figlia di vostro fratello?
— La lettera che noi abbiamo strappata a quel povero intendente parlava chiaro e non vi sono, in tutto il mondo, due isole che si chiamino Tristan d’Acunha. —
Il cosacco scosse il capo come un uomo poco convinto.
— Dubitate? — chiese l’ingegnere con ansietà.
— Noi cosacchi abbiamo veramente la testa dura, ma non riesco a capire perchè quel furfante abbia scelto queste isole per nascondersi.
— Per non farsi scoprire da noi, — rispose Wassili con impeto. — Sono certissimo che egli era già stato informato della mia fuga, se non di quella di mio fratello. Sono sette mesi che Ranzoff mi ha liberato, ve lo rammentate?
— Come fosse ieri, — rispose il cosacco. — Voi eravate il passeggiero silenzioso dello Sparviero, comparso a bordo dopo le famose trote del Karacorul.
Bisognerà allora fare una visita a Tristano. Se veramente il barone si è rifugiato là, m’incarico io di prenderlo pel collo e di dargli anche una buona stretta.
— È quello che faremo appena lo Sparviero sarà di ritorno, — rispose Wassili. — Non si tratta che di avere un po’ di pazienza.
— Ed intanto di accomodarci alla meglio, — aggiunse Ursoff, — e di rendere questa capanna più abitabile. Finchè il signor Wassili sorveglia l’arrosto, noi dovremmo, signor Rokoff, fare raccolta di warech, per non rimanere senza combustibile e prepararci anche dei letti e turare tutte le fessure.
Ho osservato che le onde ne hanno spinto degli ammassi sulla spiaggia e con questo vento indiavolato asciugheranno presto.
— Le mie gambe sono sempre in ottimo stato, — rispose il cosacco. — Andiamo adunque a far raccolta di fuchi.
Mentre l’ingegnere s’occupava della colazione, la quale prometteva assai, il timoniere ed il cosacco scesero i cornicioni dell’Inaccessibile per fare la loro raccolta.
L’oceano si era un po’ calmato fra le tre isole, e i cavalloni non spazzavano più, coll’impeto furioso di prima, la stretta spiaggia. Però il cielo si manteneva sempre assai minaccioso ed il sole, dopo pochi minuti, era nuovamente scomparso fra le tempestose nubi, che un vento indiavolato cacciava verso il nord-est.
Al largo, l’Atlantico doveva essere sempre cattivissimo, specialmente nella direzione presa dallo Sparviero. Da quella parte lampeggiava e tuonava e pareva che le nubi baciassero le onde.
Il cosacco ed il timoniere scesero sulla costa, dove si trovavano degli enormi ammassi di warech strappati, dalla furia dei cavalloni, dal fondo marino.
Tutta la spiaggia ne era coperta, formando qua e là dei cumuli considerevoli.
Avevano già fatto una grossa raccolta e si preparavano a risalire verso la capannuccia, quando un grido sfuggì a Ursoff.
— Un uomo!... —
Il cosacco, udendo quel grido, aveva lasciato cadere l’ammasso di fuchi che portava sulle spalle.
— Dove? — chiese.
— L’ho veduto lassù, sul quarto cornicione.
— Non era forse qualche gigantesco pingoino?
— No, signor Rokoff, era veramente un uomo e anche armato di fucile.
— Ma se questo scoglio si chiama l’Inaccessibile! Solo delle scimmie potrebbero scalarlo e non credo che sotto questa latitudine possano vivere dei quadrumani coduti.
— Eppure vi confermo che quello che io ho veduto era veramente un uomo, e vi aggiungerò anzi che indossava una divisa da marinaio.
— E dov’è scomparso?
— Non lo so, signore. Ci ha guardati un momento, poi si è gettato dietro le rocce che coronano il cornicione.
— Non ha fatto nessun gesto?
— Nessuno.
— Non ha afferrato il fucile?
— No, signor Rokoff.
— Che degli uomini si siano rifugiati sulla cima di questo gigantesco scoglio? Ed a quale scopo?
Riprendi il tuo carico e raggiungiamo il signor Wassili. Forse lui potrà spiegare questo mistero.
— E teniamo gli sguardi fissi su quel cornicione, signor Rokoff, — aggiunse il timoniere. — La rapida scomparsa di quell’uomo non mi rassicura affatto. —
Raccolsero i fasci di warech e raggiunsero abbastanza lestamente l’abituro, quantunque la salita fosse tutt’altro che facile.
Quando vi giunsero, l’ingegnere aveva terminato di arrostire un bel pezzo di lingua, la quale tramandava un profumo veramente squisito.
— Lasciamo per un momento la colazione, signor Wassili, — disse il cosacco. — Ursoff, racconta quanto hai veduto.
Il timoniere non si fece ripetere due volte l’ordine.
— Possibile! — esclamò l’ingegnere. — Un uomo che scende dall’Inaccessibile! Questo scoglio, che io sappia, non è mai stato abitato, nè mi pare abitabile.
— Quello che m’inquieta, ingegnere, è la sua scomparsa, — disse il cosacco. — Se fosse un galantuomo, invece di scappare sarebbe sceso fino a noi o per lo meno ci avrebbe chiesto chi noi siamo e che cosa facciamo qui.
Vi pare? —
Wassili, subito non rispose. Evidentemente era stato vivamente colpito dalla riflessione del figlio delle steppe.
— Vorrei sapere chi sono questi uomini che si sono rifugiati quassù — disse finalmente. — Che ci siano dei corsari? Già altre volte queste isole hanno servito di base d’operazione e d’asilo a degli scorridori del mare.
— Allora, signore, ci converrebbe sgombrare al più presto.
— E come, signor Rokoff? Avete qualche scialuppa da mettere a nostra disposizione per raggiungere Tristano?
— Non avevo pensato che quell’isola è troppo lontana da noi per raggiungerla a nuoto. Eppure voglio assicurarmi se Ursoff si è ingannato.
— Non vi esponete a qualche pericolo. Noi non abbiamo che due poveri coltelli, che a nulla servirebbero contro un uomo armato di fucile. Contentiamoci di vegliare attentamente fino all’arrivo dello Sparviero. —
Rokoff scosse il capo senza rispondere.
Avendo tutti molta fame, si misero a tavola, per modo di dire, assalendo vigorosamente la lingua del povero elefante marino, che fu trovata da tutti molto gustosa, quantunque sapesse leggermente di pesce un po’ stantìo.
Un rivoletto d’acqua gelata, che scendeva dall’Inaccessibile, scrosciando entro una profonda spaccatura, servì loro per dissetarsi.
Terminato il pasto, Ursoff ed il cosacco fecero un’altra discesa verso la spiaggia per rifornirsi di warech e anche per vedere se l’uomo misterioso tornava a mostrarsi, ma nessun essere umano comparve sugli scaglioni superiori dell’immenso scoglio.
— Andrò a scovarlo io, — mormorò il cosacco. — Salirò quel canalone che mi sembra debba spingersi fino al quarto cornicione. Noi non possiamo vivere sotto una continua minaccia. —
Per la seconda volta risalirono fino al loro rifugio e coprirono il suolo del misero abituro d’un folto strato di fuchi e turarono tutte le fessure, per ripararsi dal vento freddissimo che sibilava rabbiosamente attraverso alle tavole sconnesse.
— Signor Wassili, — disse il cosacco, — l’uragano continua ad infuriare al largo e per ora dobbiamo rinunciare alla speranza di veder comparire lo Sparviero. Il meglio che possiamo fare è di schiacciare un altro sonnellino.
Ieri notte abbiamo dormito poco e male.
— E l’uomo che Ursoff ha veduto?
— Ho osservato attentamente lo scoglio e mi sono convinto che non esiste alcuna discesa fino a noi. Non potrà quindi darci alcun fastidio, non essendo nè un pingoino, nè un albatros. —
Il consiglio fu accettato ed i tre uomini si gettarono sui warechs, mentre al di fuori la bufera continuava ad imperversare con estrema violenza ed il tuono a rumoreggiare sinistramente sull’alta vetta dell’Inaccessibile. Il cosacco però, fisso nella sua idea di sorprendere quel misterioso individuo, non dormiva affatto.
Aspettava che i suoi due compagni russassero per tentare la scalata dello scoglio, checchè dovesse succedere.
La sua attesa non fu lunga. Non era trascorsa mezz’ora che l’ingegnere ed il timoniere dormivano della grossa.
Lasciò allora, senza far rumore, la capanna, armato del suo coltellaccio e d’una delle traverse che avevano servito all’uccisione dell’elefante marino e raggiunse il canalone che aveva già osservato.
Era quella una spaccatura assai profonda, che pareva fosse stata aperta dalle acque scendenti dalla cima dello scoglio durante gli sgeli primaverili, e colle due pareti ripidissime e cosparse di una certa erba chiamata dagli isolani becalunga.
Quantunque l’impresa apparisse estremamente difficile, il cosacco, testardo come tutti i suoi compatrioti della steppa e coraggioso fino alla temerità, cominciò arditamente la scalata, aiutandosi validamente colla traversa. Si avanzava però con molta prudenza, soffermandosi di quando in quando per guardare in alto, temendo che quel misterioso personaggio ricomparisse e gli rovesciasse addosso qualche macigno, ciò che sarebbe stato ben facile.
Fortunatamente gli uccelli marini che nidificavano in gran numero sui due margini del canalone, gridando a squarciagola, coprivano il rumore dei suoi passi.
Rabbiosi di vedersi disturbati da quell’intruso che già avevano veduto, si sfogavano con grida stridenti e con ragli spaventosi, senza però osare discendere nella spaccatura, spaventati forse dalla sbarra di legno che il cosacco agitava minacciosamente.
Aggrappandosi alle sporgenze ed alle erbe, il coraggioso figlio della steppa raggiunse finalmente il secondo cornicione e poi anche il terzo.
Solamente una cinquantina di metri lo dividevano dal quarto e che era anche l’ultimo, poichè più sopra la parete dell’immenso scoglio scendeva bruscamente a picco, senza sporgenze e senza spaccature.
— Se non mi ha ammazzato fin’ora, non mi ammazzerà più — mormorò. — Anche se è armato d’un fucile, non mi fa paura. —
Sostò un momento sul terzo cornicione per sbarazzarsi, con una grandine di legnate, di un’orda di grossissimi pingoini che pretendevano di sbarrargli il passo, beccandogli rabbiosamente le gambe, poi riattaccò l’ultimo tratto del canalone che sembrava il più difficile, essendo il più erto e mancante completamente di erbe.
Fortunatamente il cosacco se era robusto e forte come un orso, era anche agilissimo e anche quell’ultimo passo fu superato. Notò però subito una cosa assolutamente insolita: il quarto cornicione era privo di uccelli marini.
— Qualcuno deve averli cacciati di qua, — disse. — Che sia stato l’uomo misterioso? —
Si era issato sul cornicione, brandendo la traversa, pronto ad accoppare chi avesse osato assalirlo.
Si era avanzato appena qualche passo, quando s’accorse d’aver dinanzi a sè un’apertura che pareva dovesse mettere in qualche caverna.
— Che quello sia l’asilo dello sconosciuto veduto da Ursoff? — si chiese. — Andiamo a fare la sua conoscenza.
Non vi sono antropofaghi, che io sappia, in queste isole abitate da europei e da americani, e nessuno mi metterà arrosto. —
Impugnò solidamente la sbarra, si mise il bowie-knife fra i denti, per essere più pronto a servirsene e s’inoltrò risolutamente attraverso a quel passaggio tenebroso.
Aveva appena varcato la vôlta di quella galleria, quando una massa enorme gli piombò addosso, urlandogli contro:
— Ci sei!... Tanto peggio per te!...
Quelle parole, pronunciate in lingua russa, avevano così profondamente scombussolato il cosacco, da impedirgli di prendere immediatamente l’offensiva. D’altronde l’attacco era stato così improvviso, così fulmineo, che qualunque individuo, al suo posto, nulla avrebbe potuto tentare.
Il cosacco però, uomo di guerra, non era tale da lasciarsi facilmente impressionare. Sentendosi stringere il collo da due mani poderose, lasciò andare la traversa che pel momento non gli poteva essere più di nessuna utilità in un simile corpo a corpo, e afferrò a sua volta l’avversario alla gola, urlando:
— Giù le mani o ti strozzo! —
Lo sconosciuto, invece di obbedire raddoppiò la stretta. Doveva essere un uomo robustissimo e di statura quasi gigantesca, ma il cosacco aveva dei muscoli di ferro ed una corporatura da orso.
Lo sollevò di peso e lo spinse fuori dalla galleria, liberandosi dalla stretta con una mossa fulminea. Contemporaneamente aveva impugnato il bowie-knife, mettendosi sulla difensiva.
Solo allora si avvide d’aver dinanzi un omaccio di forme massicce e dall’aspetto d’un bandito, con una lunga barba incolta.
— Che cosa vieni a fare tu qui? — ruggì lo sconosciuto, con quell’accento particolare agli uomini nati sulle rive della Neva e del Ladoga, cavando a sua volta, dalla fascia, un coltellaccio. — Avrei potuto ucciderti fino da stamane con un colpo di fucile, perchè questo era l’ordine.
Ti aprirò il ventre ora!...
Con un balzo da tigre si era gettato improvvisamente sul capitano dei cosacchi, ma questi con un salto di fianco evitò l’attacco.
Lo sconosciuto, trasportato dal proprio slancio, cadde quasi fra le braccia del suo avversario, il quale fu pronto a ghermirlo ed a serrarselo sul petto con forza disperata.
— Sarò io che ti ucciderò — urlò Rokoff, furioso.
Si erano abbrancati, lottando ferocemente.
Lo sconosciuto opponeva una resistenza tenace, ma il cosacco aveva cominciato a spingerlo verso l’abisso. Non potendo far uso del coltello, cercava di scaraventarlo attraverso al canalone.
Era l’orso del nord che si misurava contro l’orso della steppa del Don. Entrambi erano vigorosissimi e, certamente, per coraggio e per ferocia si eguagliavano.
Rokoff però, più agile, più esercitato alla lotta, aveva un notevole vantaggio.
Con cinque o sei poderosi urti spinse l’avversario verso il margine estremo del cornicione, urlando:
— Arrenditi o ti butto giù!...
— Arrenditi tu! — rispose l’altro, dibattendosi furiosamente.
Con uno sforzo supremo si era liberato a sua volta dalla poderosa stretta dell’avversario, levando in alto la lama.
— Prendi questa!... — vociò.
Il coltello brillò un istante poi colpì a fondo, ma non trovò che il vuoto. Ancora una volta il cosacco era sfuggito all’attacco.
Lo sconosciuto cercò di rimettersi, facendo un passo indietro, ignaro forse che si trovava già presso il vuoto.
Un piede gli mancò. Cercò di riprendere l’equilibrio, quando lo spigolo del cornicione franò sotto il suo peso.
Un urlo terribile, spaventoso, echeggiò, facendo fuggire i pingoini che si trovavano sulla piattaforma inferiore, poi l’uomo rovinò lungo il pendìo dell’Inaccessibile, rimbalzando di roccia in roccia, di cornicione in cornicione, finchè scomparve in mare.