Il Re dell'Aria/Parte prima/14. Tristan de Acunha
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CAPITOLO XIV.
Tristan de Acunha.
Tre giorni più tardi, dopo d’aver subìto delle pioggie furiose, lo Sparviero giungeva in vista del piccolo gruppo di Tristan de Cunha o de Acunha, come viene anche chiamato.
Vi giungeva però, perseguitato da un bruttissimo nembo di nuvolacce nere, gravide d’acqua, le quali annunciavano una di quelle terribili tempeste che hanno reso così tristamente celebre l’Atlantico meridionale.
Un ventaccio impetuoso soffiava da ponente, ostacolando la marcia della macchina volante e facendone talvolta tentennare in modo inquietante le immense ali.
Il gruppetto di Tristan de Acunha, scoperto dall’omonimo portoghese nel 1506, si compone di tre isole: di Tristan, che è la più vasta e la sola abitata, di un immenso scoglio che viene chiamato l’Inaccessibile, e di un isolotto aridissimo, assolutamente inabitabile, che si chiama Nichtingale dal nome d’un marinaio olandese.
Tristan ha una forma esagona ed un’area abbastanza considerevole, avendo i suoi lati circa sei chilometri di sviluppo ciascuno, mentre l’Inaccessibile non è altro che un enorme cono, che si eleva per circa mille e cinquecento metri sul livello del mare.
Si vuole che questo minuscolo gruppo sia il più lontano dal mondo abitato, poichè l’isola più vicina è Sant’Elena, la quale dista nientemeno che duemila quattrocento sei chilometri!...
Per moltissimi anni il gruppo, dopo la sua scoperta, rimase affatto sconosciuto. Solamente nel 1792 le navi Sion e Hindostan, che avevano a bordo l’ambasciata inglese reduce dalla China, vi gettarono le âncore per fare degli scandagli e per far strage di balene, di pesci-spada, di albatros e di foche.
Dopo quelle due navi, fu visitato nel 1795 dal capitano Patlen che guidava il brigantino l’Industria di Filadelfia.
Avendo scoperti numerosi elefanti marini e delle moltitudini di foche, vi si fermò fino all’Aprile dell’anno seguente, raccogliendo più di seicento pelli e caricando il suo legno d’olio. Ancora nessun essere umano aveva pensato a stabilirsi su quelle terre perdute in fondo all’Atlantico meridionale, quantunque l’Inghilterra ne avesse preso possesso.
Nel 1811 però, un disertore americano vi si stabilisce insieme a due suoi compagni e fa, per prima cosa, un editto, col quale si proclama senz’altro proprietario dell’isola e dei due isolotti vicini.
Che cosa poi sia successo di quei robinson dell’Atlantico nessuno lo seppe mai. Il fatto è che non furono più trovate tracce nè del re, nè dei suoi due sudditi.
Nel 1816, quando il governo inglese, per tema d’una fuga del grande Napoleone, relegato allora a Sant’Elena, fece occupare il gruppo da una compagnia di soldati di marina, un uomo solo e molto vecchio abitava Tristan, ed era un italiano.
Il disertore americano, proclamatosi primo re dell’isola, era scomparso. Era stato ucciso? Può darsi.
Nel 1821, il governo inglese, morto Napoleone, ritirava la piccola guarnigione, ma alcuni soldati rimasero nell’isola, fra i quali il caporale Glass che assunse subito il pomposo titolo di governatore generale.
Non aveva che sei sudditi, comprese due meticce del capo di Buona Speranza.
La colonia accennava a deperire per mancanza di abitanti, quando ecco che nel 1865 un pirata di Nuova Orleans, che nella guerra di Secessione aveva fatto un certo numero di prigionieri, li sbarca bruscamente a Tristano.
Terminata la guerra, una nave americana, avendo saputo quel fatto, approda a Tristano per imbarcarli, ma le viene risposto con un reciso rifiuto da parte della popolazione, sedotta ormai dalla libera semplicità della vita e niente affatto attratti dalla nostra pretesa civiltà.
Avevano ormai rinunciato volontieri agli agi della vita, alle ricchezze, ai beneficî della civiltà, per non rinunciare alla libertà per quanto miserabile, povera, sprovvista di beni materiali. Oggi l’isola conta novantanove persone le quali non hanno, col resto del mondo, altre comunicazioni che quelle dovute alla fortuna, quando cioè passa di là qualche vascello baleniere o vi si rifugia qualche bastimento sbattuto dalla tempesta.
Eppure gli abitanti di Tristano non pensano affatto ad approfittare del passaggio d’un bastimento per passare sui continenti. Essi amano quel suolo ingrato, sbattuto incessantemente dagli uragani e niente affatto sicuro.
Ed infatti grandi pericoli li minacciano sovente e non è stata ancora dimenticata la terribile bufera che, anni sono, rovesciò sull’isola ondate così spaventevoli da ridurre la popolazione da cento e venti anime a sole novantanove!...
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Lo Sparviero, quantunque la sua poderosa macchina funzionasse a tutta fuga per raggiungere il piccolo gruppo prima che la bufera scoppiasse, faticava immensamente a tener testa ai soffi impetuosi che salivano da ponente, cacciandosi innanzi enormi masse di vapore.
Erano tutti assai inquieti, soprattutto Ranzoff il quale sapeva, per esperienza, di non poter contare assolutamente sulla resistenza delle immense ali della macchina volante.
Già enormi masse di vapori nerastri avevano avvolta la cima dell’Inaccessibile e si abbassavano verso Tristano e l’isolotto di Nichtingale, minacciando di coprirli interamente e di nasconderli agli sguardi dei naviganti aerei.
Raffiche furiose di quando in quando si succedevano ed erano così possenti da gettare fuori di rotta lo Sparviero e da paralizzare le sue eliche.
Anche l’oceano cominciava ad agitarsi. Le onde si formavano rapidamente, assumendo la forma di veri cavalloni i quali infuriavano specialmente intorno alla base dell’Inaccessibile con dei rombi spaventevoli.
— È un vero ciclone quello che sta per scoppiare, è vero comandante? — chiese Ranzoff a Boris.
— Sì, — rispose l’uomo di mare, il quale appariva assai preoccupato. — Questa è la regione delle grandi tempeste.
— Che cosa mi consigliate di fare?
— Di cercare un rifugio su Nichtingale, prima che l’uragano ci piombi addosso con tutta la sua forza.
— Così la pensavo anch’io, comandante, — disse Ranzoff. — Gli è che il vento minaccia di respingerci al largo e che temo assai per le mie ali.
— Eppure non vi resta altro da fare. La vostra macchina sviluppa la massima pressione?
— Tutta, signore.
— Fuggire al largo non mi pare che sia cosa prudente. Fate il possibile, signor Ranzoff, di raggiungere quell’isolotto.
— Mi proverò, signor Boris.
Lo Sparviero faceva sforzi prodigiosi per guadagnare via, ma quando le raffiche si scatenavano, le ali e le eliche si trovavano impotenti a tener testa a quegli urti formidabili e la macchina volante veniva respinta al largo.
Il fuso di quando in quando subiva dei soprassalti spaventevoli e si piegava pericolosamente ora a babordo ed ora a tribordo. Era un vero miracolo se gli uomini che lo montavano non venivano sbalzati fra le onde furiose.
L’Inaccessibile giganteggiava fra la tempesta come un titano, a destra dello Sparviero, mentre a sinistra s’alzava Nichtingale.
Entrambi, specialmente il primo, avevano le vette avvolte da enormi nuvole nere, che di quando in quando si illuminavano sinistramente sotto la luce dei lampi.
Verso il nord si delineava confusamente Tristano, anche quella coperta da una specie di nebbia, la quale rendeva invisibili le piccole case di pietra dei suoi abitanti. Il tuono rumoreggiava in lontananza, mescendo i suoi fragori a quelli dell’Atlantico infuriato.
Lo Sparviero, quantunque di tratto in tratto venisse respinto, lottava coraggiosamente contro le poderose raffiche che lo investivano. Appena subentrava un po’ di calma, si slanciava innanzi a tutta velocità per riconquistare la via perduta, senza però grandi successi.
Era riuscito nondimeno a superare l’Inaccessibile e si sforzava a raggiungere Nichtingale, quando un williwans, ossia un colpo di vento d’una forza inaudita, lo investì, respingendolo verso l’immenso scoglio che gli stava a poppa.
Il capitano aveva mandato un grido:
— Ursoff!... Vira!... —
Il timoniere si era appoggiato, con tutto il suo peso, sulla barra. Wassili e Rokoff si erano slanciati in suo aiuto, quando il timone urtò contro le rocce, spezzandosi di colpo.
Quasi nel medesimo tempo lo Sparviero a sua volta urtò colla poppa e con tale violenza da rovesciarsi sul tribordo.
I tre uomini, in meno che lo si dica furono scaraventati sopra il bordo e rotolarono confusamente giù pel pendìo dell’Inaccessibile, cadendo in mare.
In alto si udirono delle chiamate disperate:
— Wassili!...
— Rokoff!...
— Ursoff!... —
Poi il vento ed i muggiti delle onde coprirono ogni cosa.
Lo Sparviero, raddrizzatosi, era stato portato via da quel terribile colpo di vento e scompariva fra le tempestose nubi dell’Atlantico, sospinto dall’uragano.
Se i tre disgraziati non fossero stati sbalzati sopra un pendìo piuttosto dolce ed in fondo non avessero trovato l’acqua, si sarebbero certamente fracassati sulla parete rocciosa.
Invece, per un caso prodigioso, Wassili, il cosacco ed il timoniere, se l’erano cavata con delle semplici contusioni di nessuna entità.
Quell’improvviso bagno freddo li aveva prontamente rimessi dallo stordimento e non avevano indugiato ad aggrapparsi solidamente agli scoglietti che circondavano l’Inaccessibile, prima che la risacca li portasse via o li scaraventasse contro l’immensa roccia.
Intorno a loro il mare muggiva spaventosamente e ribolliva, scagliando in tutte le direzioni delle immense cortine di spuma fosforescente.
— Pare che abbiamo fatto un capitombolo fortunato, — disse Rokoff, il quale da buon cosacco non si spaventava mai, né perdeva il suo buon umore, neppure in mezzo alle più terribili vicende. — Siamo caduti in tre soli, è vero?
— Non ne ho veduti altri, — rispose Wassili, il quale si teneva disperatamente aggrappato ad una roccia, opponendo una tenace resistenza agli assalti delle onde.
— E lo Sparviero?
— Scomparso, signore, — disse Ursoff. — L’ho veduto fuggire verso levante.
— Quando lo rivedremo?
— Io spero che ritorni quando l’uragano sarà passato, — rispose Ursoff. — Vi è un timone di ricambio a bordo ed il capitano non si troverà imbarazzato a montarlo.
— Finché ritorna, cerchiamoci un rifugio, amici, — disse Wassili. — Se restiamo qui, le onde ci porteranno via e allora buona notte a tutti.
— Potremo noi risalire questo scoglio? — chiese Rokoff. — Mi sembra proprio inaccessibile.
— Eppure dobbiamo tentare la scalata, capitano. Ecco che le raffiche ricominciano e ci scaglieranno addosso tante ondate da affogarci. Potete reggervi?
— Io non ho perduto un atomo delle mie forze, — rispose Rokoff.
— E nemmeno io, — aggiunse Ursoff.
— E allora, affrettiamoci a metterci in salvo.
— Troveremo poi noi un rifugio, signor Wassili? Lo scoglio mi pare affatto liscio.
— No, ho veduto delle spaccature lungo la parete, — rispose il russo. — Venite, amici, i minuti sono preziosi e la morte ci corre addosso. —
Approfittando del momento in cui la risacca si ritirava, abbandonarono gli scoglietti e, tenendosi curvi per meglio resistere ai colpi di vento che si succedevano senza tregua, raggiunsero la base del gigantesco scoglio, prima che le onde lo investissero.
La parete non scendeva precisamente a picco e poi aveva delle larghe fenditure, specie di canali scavati forse dallo scolo delle acque e dallo sciogliersi delle nevi, perchè la vetta dell’Inaccessibile per parecchi mesi si trova coperta d’un bianco manto.
Sei metri più in alto, Rokoff, che precedeva i compagni, scorse una specie di piattaforma la quale si prolungava per parecchie centinaia di piedi. Più su invece, la roccia scendeva a piombo da un’altezza tale da non poter vederne la cima.
— Questa spaccatura ci permetterà di giungere sulla piattaforma, — disse il cosacco. — Signor Wassili fate appello a tutte le vostre forze.
— Sono pronto.
— Avanti voi prima, poi Ursoff; io sarò l’ultimo e vi sorreggerò. —
Il tempo stringeva. I cavalloni, non più frenati dallo strato oleoso, piombavano sulla spiaggia l’un dopo l’altro, rimbalzando ad incredibile altezza.
I loro urti erano tali, che le rocce tremavano.
La spuma già gorgogliava fra le gambe di Rokoff, il quale dopo d’aver aiutato Ursoff, sorreggeva Wassili.
— Presto, presto! — disse. — Stiamo per venire investiti. —
Cominciarono l’ascensione, aggrappandosi alle sporgenze delle rocce, puntando i piedi nei crepacci, reggendosi l’un l’altro, sferzati dal vento e dalla pioggia, incalzati dalle onde che li minacciavano, di strapparli giù e di travolgerli al largo.
Wassili, quantunque non fosse più giovane, faceva sforzi supremi, anzi talvolta allungava una mano a Ursoff temendo di vederlo cadere e lo attirava a sè.
Il cosacco, puntando ambe le braccia sui margini della fenditura impediva la caduta d’entrambi. Per lui, vigoroso e agile e abituato alle più difficili scalate, sarebbe stato un giuoco raggiungere la piattaforma.
Dopo alcuni minuti Wassili riusciva finalmente ad aggrapparsi al margine della piattaforma, ed aiutare Ursoff a raggiungerlo. Rokoff, con un ultimo slancio vi era giunto quasi contemporaneamente.
Il suolo, composto d’una roccia nericcia, era avvallato, tutto buche e crepacci, ma si trovava fuori di portata dall’assalto delle onde e questo era l’importante.
— Cerchiamo un luogo ove ricoverarci, — disse il cosacco. — Vedo là qualche cosa.
— Mi sembra una tettoia, — disse Wassili.
— Un’abitazione qui! — esclamò Ursoff. — È impossibile.
— Eppure il signor Wassili non si è ingannato, — rispose Rokoff.
Contro la parete, fra due rocce, si scorgeva una catapecchia che pareva formata da tavole rinforzate con lastre di pietra, onde il vento non le portasse via.
Il cosacco si spinse risolutamente innanzi e si avvide che si trattava realmente d’una minuscola casetta, certo di qualche rifugio di cacciatori di foche o d’elefanti marini.
Il vento sibilava attraverso le sconnesse tavole, però dal tetto composto di lastroni di pietra, non filtravano che poche gocce d’acqua.
Il suolo pareva ingombro di erbe, ma essendo la notte sopraggiunta, l’oscurità era così profonda là dentro da non poter accertarsene.
— Se avessimo uno zolfanello, — disse Rokoff. — Sarebbe veramente il ben arrivato.
— Se i miei non si sono bagnati, ve ne posso offrire, — disse Wassili.
Si frugò nelle tasche e trasse una scatola di metallo.
— Mi pare che l’acqua non vi sia entrata, — disse.
— Accendetene uno, signore, e vediamo se vi è qualche cosa da bruciare. Fa freddo qui e siamo bene inzuppati d’acqua. —
L’ex-esiliato, tenendo le mani unite e volgendo le spalle alle raffiche, dopo molto strofinare riuscì finalmente a ottenere un po’ di luce.
Quella casupola, appena sufficiente a riparare quattro o cinque persone, era deserta. Sparsi al suolo vi erano ammassi di erbe marine ben secche, di warech, degli ossami, dei cranî di foche e di leoni marini e lembi di pelle ancora provvisti d’uno strato di grasso.
— È un rifugio di cacciatori, — disse Wassili. — Intorno a questo scoglio le foche e fors’anche gli elefanti marini non devono mancare.
— Accendiamo un po’ di fuoco ed asciughiamoci, — disse Rokoff. — Vedo qui quattro pietre che devono aver servito da camino.
Se mancheranno le legna, demoliremo questa catapecchia. —
Gettò sul camino un ammasso di warech e vi diede fuoco, sprigionando una nuvolaglia di fumo acciecante, che le raffiche addensavano dentro la catapecchia.
— Per le steppe del Don! — esclamò Rokoff, il quale tossiva rabbiosamente. — Nemmeno l’erba è buona qui, su queste brutte isole.
Era da preferirsi il vento.
— Contentatevi di quello che vi possono offrire queste terre, — rispose Wassili. — D’altronde non rimarremo molto su questo scoglio.
Lo Sparviero verrà presto a raccoglierci.
— Uhm! — fece Ursoff. — Non lo vedremo prima che la tempesta si sia calmata, signori, e quelle che infuriano qui non cessano tanto presto. Sono stato marinaio e conosco l’Atlantico meridionale.
— Credi che non corra alcun pericolo? — chiese il cosacco.
— Anche se le ali dovessero cedere il fuso può galleggiare benissimo e, coperto come è, potrà sempre cavarsela al pari d’un buon piroscafo.
Noi lo rivedremo, signori, ma quando? Chissà dove il vento lo porterà.
— Aspettare col ventre vuoto non è una cosa molto piacevole, — disse il cosacco.
— Troveremo viveri finchè vorrete, — rispose Wassili. — Queste isole sono abitate da miriadi d’uccelli marini.
Se potremo raggiungere i cornicioni superiori, troveremo tante uova da fare delle frittate colossali.
— Senza padella, — aggiunse il cosacco, sorridendo. — Bah!... A questo penseremo più tardi. —
Il fumo a poco a poco si era dileguato ed una bella fiamma illuminava l’abituro, spandendo all’intorno un benefico calore.
I warechs però bruciavano così rapidamente da non poter durare a lungo.
Ed infatti una mezz’ora dopo non vi era più combustibile per alimentare il fuoco. Tutte le alghe erano finite insieme ai pochi pezzi di legno strappati alle pareti.
— Vi propongo una dormita, — disse Rokoff. — Per questa notte possiamo rinunciare alla speranza di rivedere lo Sparviero.
— Sia, — rispose Wassili, il quale si sentiva estremamente stanco.
Attesero che il fuoco si spegnesse completamente, pel timore che qualche scintilla provocasse un incendio, radunarono i pochi fuchi che ancora rimanevano intorno alla catapecchia e si coricarono l’uno presso all’altro, mentre al di fuori tuonava orrendamente e le onde si sfasciavano, con muggiti spaventevoli, contro la base dell’Inaccessibile.
Il cosacco però non riusciva a chiudere gli occhi.
Di quando in quando lasciava l’abituro e, non curante della pioggia e dei nembi di spuma che le onde scagliavano fino alla piccola piattaforma, si spingeva fino sull’orlo della roccia, spiando ansiosamente l’orizzonte.
Sperava di veder scintillare fra le tenebre i fanali dello Sparviero? Era probabile. Erano però speranze vane, poichè nessun punto luminoso si vedeva spiccare fra le tenebre.
L’orizzonte era tutto tenebroso, come se delle masse di catrame fossero colate dalle nuvole e nessun lampo più illuminava la notte.
Il tuono invece continuava a rombare sulla vetta dell’enorme scoglio, con uno strepito enorme.
Pareva che lassù centinaia di carri pieni di ferraglia corressero lungo i cornicioni, lanciati a corsa sfrenata. Di quando in quando si udivano dei rombi terribili, seguìti, dopo qualche tempo, da dei tonfi assordanti.
Dei massi enormi, forse male equilibrati, strapiombavano nell’oceano, rotolando e rimbalzando lungo i fianchi della montagna.
Guai se qualcuno fosse caduto sull’abituro. Nessuno certamente di quei tre uomini si sarebbe salvato.
La bufera però pareva che accennasse ad allontanarsi verso il nord-est, ossia nella direzione presa dallo Sparviero. Il vento era scemato, nondimeno si udiva sempre ruggire sull’alta vetta del gigantesco scoglio.
Le onde invece si mantenevano sempre enormi e battevano con furore estremo le spiagge, spazzandole e sgretolando perfino le scogliere.
Quando cominciò a diffondersi un po’ di luce, Rokoff aveva già esplorata tutta la piattaforma. Era una specie di cornicione lungo tre o quattrocento metri e largo una dozzina, interrotto da crepacci e coperto da un fitto strato di guano depositato, da migliaia e migliaia d’anni, dagli uccelli marini.
Poco sopra, ad un’altezza di dieci o dodici metri, se ne estendeva un secondo più piccolo, che si poteva facilmente raggiungere, avendo anche quello la parete un po’ inclinata ed interrotta da canali o spaccature che fossero.
Su quella seconda sporgenza, il cosacco aveva scorto una moltitudine di volatili, raggruppati contro la parete.
Erano pingoini, uccelli che vivono in società e che, veduti ad una certa distanza, sembrano piccoli uomini infagottati malamente.
Sono alti settanta od ottanta centimetri; qualche volta raggiungono anche il metro, colle teste piccole, le penne bianche e nere, colle ali brevi che sembrano due moncherini piatti ed i piedi situati molto in basso, ciò che permette loro di tenersi diritti come i quadrumani.
Uccelli veramente barocchi e ridicoli, che passano delle giornate intere a gridare tutti insieme come vecchi chiacchieroni, e che hanno delle mosse da far scoppiare dalle risa.
Malgrado la pioggia, la quale continuava a cadere a torrenti, e le frequenti raffiche, quei bravi volatili parevano occupati in una vivissima discussione. Allineati su tre o quattro file, gridavano, ciarlavano e si agitavano, scambiandosi qualche colpo di becco per dare forse maggior peso ai loro argomenti, mentre alle estremità delle file, alcuni vecchi maschi, dall’aspetto venerando, educavano alcune dozzine di piccini, tenendoli in freno con abbondanti colpi di moncherino e qualche zampata.
— Vi devono essere dei nidi lassù e, se vi sono dei nidi, vi saranno anche delle uova, — disse Rokoff, il quale cercava una spaccatura che gli permettesse di dare la scalata alla seconda piattaforma. — La colazione non mancherà, almeno per questa mattina. —
Il cosacco, trovato un canale, cominciò ad arrampicarsi, raggiungendo felicemente il margine superiore, non ostante le proteste rumorose della colonia.
Quando lo videro rizzarsi, i pingoini raddoppiarono il baccano, spalancando i becchi, agitando i moncherini e dondolandosi comicamente. Rokoff, senza preoccuparsi di quelle vane minaccie, si gettò sul più vicino, torcendogli il collo.
Gli altri, spaventati, si dispersero prontamente, lasciandosi cadere confusamente sulla piattaforma inferiore e raggiungendo il mare.
Un odore nauseabondo, insopportabile, costrinse il cosacco a turarsi il naso. Ammassi di guano coprivano la sporgenza, sprigionando esalazioni tali da togliere il respiro. Rokoff però aveva veduti numerosi nidi formati d’alghe e pieni di uova e ciò gli bastava.
Aveva già fatto un’abbondante raccolta, quando i suoi occhi scopersero un’apertura che pareva s’addentrasse nella parete rocciosa.
— Che sia una caverna? — si chiese. — Non sarà certo pulita, nondimeno potrà servire meglio del nostro miserabile abituro. —
Passando con precauzione fra gli ammassi di guano, giunse ben presto dinanzi a quell’apertura, un crepaccio largo un paio di metri e alto il doppio e che pareva mettesse realmente in qualche caverna. L’odore però che usciva era così orribile, che il cosacco si fermò, esitando a mettere i piedi là dentro.
Un sommesso chiacchierìo lo decise a fare qualche passo innanzi.
— Che vi siano degli altri pingoini lì dentro? — si chiese.
Si era cacciato entro il foro, quando si sentì investito da una vera nube di volatili furibondi.
Erano uccellacci neri, dal becco lunghissimo e grosso, i quali gridavano rabbiosamente.
Il cosacco si era affrettato a uscire, nondimeno gli uccelli non lo avevano lasciato. Gli volavano intorno, percuotendolo colle loro ali e tentando di beccarlo.
— Ah!... Diavolo! — esclamò Rokoff, estraendo il coltello. — Non ho paura di voi, io!... —
Si preparava a respingere l’assalto, quando vide quei volatili aprire i becchi e vomitare a fiotti certe materie oleose così puzzolenti che si sentì soffocare.
— Fulmini!... — esclamò, turandosi il naso e la bocca.
Balzò in mezzo ai cumuli di guano e fuggì a rompicollo, mentre gli uccelli, soddisfatti di essersi sbarazzati di quell’intruso, si radunavano dinanzi alla caverna, decisi a difenderne l’entrata.
Il cosacco raccolse il pingoino e, riempitosi le tasche d’uova, si lasciò calare nella fenditura, sternutando e sbuffando.
Degli allegri scoppi di risa lo accolsero sulla seconda piattaforma.
Wassili e Ursoff, seduti l’uno presso all’altro, avevano assistito alla sua battaglia cogli uccelli e alla sua fuga precipitosa.
— Povero signor Rokoff, — esclamò il russo, ridendo. — Per poco non perdevate gli occhi. Che cosa avete fatto a quegli uccellacci per renderli così furibondi?
— Non è pel timore di farmi levare gli occhi che sono fuggito, — rispose il cosacco. — Avrei saputo ben difendermi, ma mi rovesciavano addosso certe materie da far fuggire il più ostinato cacciatore.
— Scappano perfino i cani, — disse Wassili.
— Che uccelli erano dunque? — chiese il cosacco.
— Dei petrelli, — rispose l’ingegnere. — Quando si vedono assaliti, rigettano le materie che hanno più o meno digerite, ma nel loro corpo diventano così puzzolenti da levare a chiunque la voglia di perseguitare quegli uccellacci.
— Ci rifaremo coi pingoini; non saranno cattivi a mangiarsi, suppongo, — disse Rokoff.
— Privati delle parti grasse, sono tollerabili, — rispose Ursoff. — Ma voi avete delle uova.
— Ce ne sono in abbondanza lassù. Peccato non avere del burro e un tegame per fare una frittata, — disse Rokoff.
— Ci contenteremo per ora di cucinarle sotto la cenere.
— Purchè non abbiano già il pulcino!...
— Oh no, signor Wassili! Le ho scelte una ad una.
— E la caverna, l’avete trovata? — chiese Ursoff.
— Non ho trovato che quella abitata da quegli uccellacci.
— Vi rinuncio, — disse l’ingegnere. — Ci vorrebbe una scialuppa carica di disinfettanti per poterla abitare. Bah! Ci accontenteremo del nostro abituro.
— Lo demoliremo a poco a poco, una tavola per volta, — rispose Rokoff. — E poi la burrasca comincia a scemare.
— E le foche e gli elefanti marini non tarderanno a mostrarsi e ci somministreranno, col loro grasso, combustibile in abbondanza, — disse il timoniere. — Intorno a questo scoglio devono essere ancora numerosi.
— A colazione, — disse Rokoff. — Io sarò il cuciniere della colonia. —
Aiutato dal timoniere, staccarono una grossa tavola e fattala a pezzi accesero, non senza difficoltà, il fuoco, sacrificando buona parte del warek. Per economizzare il combustibile, spennacchiarono frettolosamente il pingoino, gli tolsero il grasso per alimentare maggiormente il fuoco e appesolo sopra il braciere con un pezzo di corda, lo misero ad arrostire, voltandolo, girandolo e rivoltandolo. Wassili intanto aveva cucinate due dozzine d’uova, grosse più di quelle delle oche e col guscio rugoso, un po’ rossiccio e assai resistente.
— Non sono poi cattive, — disse, dopo d’averne vuotate alcune. — Sanno un po’ di pesce, ma bah! Si possono mandare giù e valgono meglio di quelle dei coccodrilli.
— Forse che avete mangiato anche di quelle? — chiese il cosacco.
— Sì, durante un viaggio che feci, alcuni anni or sono, in Africa.
— Dovevano essere detestabili.
— Non quanto si potrebbe credere; sapevano un po’ di muschio, ecco tutto. —
Mentre chiacchieravano, sorvegliando l’arrosto e alimentando di quando in quando la fiamma con un po’ di grascia, l’uragano andava calmandosi.
Le nubi cominciavano a rompersi verso levante, lasciando passare qualche raggio di sole, mentre le raffiche diventavano sempre più rade e meno impetuose.
L’oceano però si manteneva ancora agitatissimo, specialmente intorno alle isole. Le onde si seguivano sempre impetuosissime, sfasciandosi con violenza estrema contro le spiagge.
Al di sopra dei cavalloni, gli uccelli marini folleggiavano in stormi numerosissimi, e dalle piattaforme del gigantesco scoglio, ne calavano ad ogni istante a battaglioni.
Erano albatros, erano oche marine, rompitori d’ossa, petrelli, rondini marine, polli d’acqua, anitre.
Anche i pingoini scendevano numerosissimi, lasciandosi cadere lungo le pareti rocciose. Ve n’erano di grossissimi colle teste nere, la parte superiore del corpo grigia e l’inferiore candidissima, con due larghe strisce gialle che s’incrociavano sui loro petti; altri invece, molto più piccoli ma non meno chiacchieroni, avevano le penne più oscure sopra e le teste macchiate.
Tutti correvano a sollazzarsi, sulle spiagge, senza spaventarsi delle sassate.
— Le colazioni non ci mancheranno qui, — disse il cosacco, dopo d’aver levato l’arrosto. — Non ho mai veduto tanti uccelli.
— Tutte le isole che s’incontrano nell’Atlantico australe sono ricchissime di uccelli marini, — rispose Wassili. — Non essendo mai disturbati: si moltiplicano in quantità prodigiose.
Ve ne sono alcune che sono gremite alla lettera di pingoini, di sule e di starne.
— E perchè non vengono qui a cacciare tutta questa grazia di Dio?
— Questi luoghi non sono frequentati che dai balenieri, i quali preferiscono impiegare il loro tempo a dare la caccia ai giganti del mare, molto più preziosi dei pingoini, o alle foche o agli elefanti marini.
Un giorno però tutte le isole dell’Atlantico australe daranno delle ricchezze incalcolabili, ben superiori a quelle che possono ricavare dai disgraziati cetacei, e ciò in grazia di tutti questi volatili.
— E in qual modo?
— Le isole a poco a poco si coprono di guano, ossia d’immensi strati di sterco d’uccelli, ricchissimi di fosfati, destinati a fertilizzare le terre ormai esauste. Ah!...
— Che cosa avete, signor Wassili?
— Voi non avete mai veduto degli elefanti marini, signor Rokoff?
— Non ho veduto altro che quelli che si mostrano nei serragli, ma quelli non erano marini di certo.
— Vi piacerebbe osservarne uno?
— Se potessi anche catturarlo, signor Wassili.
— Staccate due traverse dalla capanna e seguitemi.
— Ed io? — chiese Ursoff.
— Tu bada che il fuoco non si spenga. Siete pronto, capitano?
— Ecco le traverse. Basteranno queste per affrontare degli elefanti?
— Per quelli marini non occorrono carabine. Due buoni randelli sono più che sufficienti per accopparli.
— Non ci stritoleranno colle loro trombe?
— Non abbiate alcun timore di quelle, — rispose l’ingegnere, ridendo. — Venite e badate di non rotolare o di farvi portar via dalle onde.
La risacca vi sfracellerebbe contro le scogliere. —