Il Fiore delle Perle/31. L'ultimo combattimento
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Capitolo XXXI
L’ultimo combattimento
Hong, Than-Kiù ed i loro compagni, avevano pure udito quel grido che rassomigliava all’urlo d’uno sciacallo o d’un cane selvaggio e non vi avevano fatto alcun caso, credendo in buona fede che fosse stato mandato da qualche animale a loro sconosciuto.
Vedendo però Tiguma volgersi da tutte le parti, intuirono il pericolo.
— Cosa cerchi? — chiese Pram-Li. — L’uomo è caduto ed a quest’ora non deve più respirare. Cosa temi?
— L’uomo che è caduto non era solo, — rispose Tiguma.
— Come lo sai tu?
— Non avete udito quel grido?
— Sì, e cosa vuol dire?
— Era un segnale, — rispose l’isolano.
— Un segnale di chi?
— Degli uomini del bagani. Io l’ho udito altre volte, quando mi conducevano prigioniero.
— Allora noi stiamo per venire scoperti?...
— Fra pochi minuti essi saranno qui e daranno l’assalto al nostro rifugio, — rispose Tiguma a Pram-Li, che ne avvertì Hong.
— Che siamo proprio destinati a cadere nelle mani di quelle canaglie? — si chiese Hong, guardando con terrore il Fiore delle perle. — Io la morte non la temo e l’affronterei subito se non ci fosse questa fanciulla. Il pensiero che ella possa cadere fra le mani di quegli uomini, mi fa gelare il sangue!...
— Hong, — disse Than-Kiù, che pareva avesse indovinato ciò che tormentava il cervello del valoroso chinese. — Tu tremi per me, è vero?...
— Sì, Fiore delle perle, — rispose Hong, con un sospiro.
— La sorella del fiero Hang-Tu non cadrà viva nelle mani di quei selvaggi.
— Me lo prometti, Than-Kiù?...
— Ho la rivoltella alla cintura e l’ultimo colpo sarà per me.
— Grazie, Fiore delle perle. Ed ora prepariamoci a vendere cara la nostra vita. Pram-Li!... —
Il malese accorse.
— Tu difenderai il fianco destro del rifugio, Sheu-Kin quello sinistro, e noi faremo fronte dove il pericolo sarà maggiore. Avete munizioni bastanti?...
— Circa duecento colpi ciascuno, — risposero il malese e Sheu-Kin.
— Sono più che sufficienti per sbaragliare quell’orda feroce. Ognuno a posto di combattimento e non risparmiate le cariche.
Pregò Than-Kiù di coricarglisi vicina, le gettò dinanzi due grossi fasci di rami che aveva già preparati, onde metterla al riparo delle frecce avvelenate dei cacciatori di teste, poi si stese a sua volta, spiando l’arrivo dei nemici.
Passarono parecchie ore d’angosciosa aspettativa, senza che i selvaggi si facessero vedere.
Accortisi forse che i chinesi si erano costruito un riparo e anche spaventati dalla precisione delle armi da fuoco, esitavano a dare l’attacco di pieno giorno.
— Aspetteranno la notte, — disse Hong a Than-Kiù. — La faccenda minaccia di diventare gravissima. Si combatte meglio alla luce del sole che colle tenebre, specialmente quando si hanno delle armi da fuoco. —
A mezzodì, non avendo veduto ancora nessun selvaggio, mandarono Tiguma sul pombo per vedere se riusciva a scoprirli ed anche per far raccolta di frutta, mancando di viveri e anche d’acqua.
Fortunatamente la pianta era carica di frutta, specie d’aranci di grossezza mostruosa, assai buoni e ai quali i malesi danno il nome di buâ kadangsa.
Il giovane isolano ne fece cadere moltissimi, poi salì sui rami più alti, mettendosi in osservazione.
— La cosa è strana, — disse, quando ridiscese. — Non sono stato capace di vedere nessuno.
— Che si siano finalmente decisi a lasciarci tranquilli? — disse Pram-Li.
— O che invece attendano che noi lasciamo questo rifugio per assalirci in piena foresta? — chiese Hong.
— Ho questo dubbio, — rispose il malese.
— Noi però non saremo così sciocchi da gettarci sulla punta dei loro kampilang — disse Hong. — Rimarremo qui finchè non avremo la certezza della loro partenza.
— L’assedio può prolungarsi, — disse Than-Kiù.
— E non abbiamo viveri, — aggiunse Sheu-Kin. — Gli aranci non basteranno a nutrirci e mantenerci in forze.
— Cosa fare adunque? — chiese Hong. — Quale decisione prendere? —
Nessuno rispose. Tutti convenivano che la loro situazione era grave e che d’altronde non era possibile trovare un’uscita.
Ripresero i loro posti senza aver nulla deciso, sperando che i selvaggi perdessero la pazienza e si decidessero a tentare l’attacco. Quel pericolo che prima tanto temevano, ora lo desideravano ardentemente.
Pareva però che i selvaggi non avessero nessuna fretta, poichè l’intera giornata trascorse senza che avessero dato segno di vita.
Tramontato il sole e calate le tenebre gli assediati raddoppiarono la vigilanza, essendo ormai certi di venire assaliti da un momento all’altro.
Le loro previsioni non dovevano fallire.
Non era ancora trascorsa un’ora da che le ombre della notte erano calate, quando il malese, che si trovava più vicino alla foresta, udì dei bisbigli sommessi ed un fruscìo di foglie.
Assicuratosi che non s’ingannava, s’avvicinò a Hong, dicendogli:
— Stiamo in guardia: i cacciatori di teste cercano di sorprenderci.
— Siamo pronti a riceverli, — rispose il chinese. — Da qual parte s’avanzano?
— Salgono la collina.
— Cambiamo la fronte. —
Prese i fasci di rami e andò a collocarli dalla parte ove il malese aveva uditi i rumori, poi chiamò Sheu-Kin.
— Noi, che abbiamo le armi da fuoco, mettiamoci qui, — disse. — Tiguma rimarrà a guardia dalla parte della salita. —
I due chinesi, il malese e Than-Kiù si sdraiarono dietro la barriera di spine e dietro i fasci di rami, tenendo gli occhi fissi sulle macchie foltissime che avevano dinanzi.
I cacciatori di teste s’avanzavano e forse in rango serrato. Si udivano muoversi le foglie, spostarsi i rami, e agitarsi le grandi foglie dei banani.
Hong ed i suoi compagni si erano inginocchiati, tenendo le armi puntate verso la foresta. Quantunque giudicassero la loro situazione quasi disperata, tutti conservavano una calma ammirabile. Anche Than-Kiù, la sorella del fiero Hang-Tu, era tranquilla e non mostrava alcuna apprensione.
D’improvviso un clamore assordante rompe il silenzio che regna sotto la cupa foresta.
Una valanga di corpi umani si rovescia, con impeto irresistibile, fuori dalle macchie, precipitandosi verso il rifugio.
I cacciatori di teste si sono scagliati all’assalto, credendo di tutto abbattere dinanzi a loro e di avere facilmente ragione dei loro avversari.
Hanno gettato l’arco ed impugnano i loro kampilang, quelle pesanti sciabole, terminanti a doccia, che con un solo colpo troncano la testa dell’uomo più robusto.
Ad un tratto quei clamori selvaggi si mutano in urla orribili. Gli assalitori sono caduti sulla barriera e le spine martirizzano atrocemente le loro gambe ed i loro piedi nudi.
I primi arrivati balzano indietro, ma i loro compagni li spingono innanzi, ignorando ancora quale pericolo li minaccia e quale ostacolo ha arrestato quel primo slancio.
Hong era balzato in piedi, gridando:
— Fuoco!... —
Quattro lampi rompono l’oscurità, seguìti da quattro detonazioni.
Tre uomini cadono fulminati e due altri, forse gravemente feriti dalla medesima palla, girano sui talloni e fuggono mandando urla di dolore.
L’assalto dei cacciatori di teste si è arrestato.
Accortisi di quell’ammasso di spine, assolutamente insuperabile pei loro piedi nudi, si sono fermati, vociferando spaventevolmente.
— Fuoco!... — urla di nuovo Hong.
Altri quattro spari rimbombano facendo cadere altrettanti uomini. Era troppo pel coraggio di quei selvaggi.
Atterriti dalla matematica precisione dei proiettili e da quegli spari che si seguono quasi senza interruzione, e ritenendo forse i loro avversari invincibili, voltano le spalle e fuggono disordinatamente attraverso alla foresta, gettando perfino le armi.
La loro disfatta è completa. Più nessuno arresta la loro ritirata precipitosa.
Hong, Pram-Li e Sheu-Kin, attraversata la barriera su alcuni fasci di rami, si slanciano dietro ai fuggiaschi, sparando in tutte le direzioni.
Essi sono decisi a sbarazzarsi per sempre di quei testardi che da tre giorni li perseguitano senza tregua.
Sono di già giunti nella pianura e continuano a sparare. I cacciatori di teste, in preda ad un panico irrefrenabile, fuggono sempre dinanzi a loro, urlando a piena gola.
Attraversano a branchi la pianura che costeggia la palude e si cacciano sotto ai boschi.
Le loro urla si perdono in lontananza, poi a poco a poco cessano del tutto.
— Basta, ritorniamo e leviamo subito il campo, — disse Hong, arrestandosi ansante. — Credo che quei bruti non oseranno tornare più mai.
— Hanno avuto il loro conto, — rispose Pram-Li. — Certamente non s’aspettavano una simile sconfitta. Devono avere i piedi atrocemente dilaniati, specialmente con questa corsa.
— Tuttavia non perdiamo tempo. Hanno dimostrato tanta testardaggine che sono capaci di ritornare con nuovi rinforzi, — disse Sheu-Kin.
— Quando avremo frapposto fra noi e loro il Bacat, non saranno più temibili, — rispose Hong. — Venite, amici, e non lasciamo tempo ai cacciatori di teste di riunirsi. —
Risalirono frettolosamente la collina e raggiunsero il rifugio dove li attendeva ansiosamente Than-Kiù, sotto la guardia di Tiguma.
— Siamo liberi finalmente? — chiese il Fiore delle perle. — Ho udito che le grida si allontanavano verso la pianura.
— Quegli uomini non sono più da temersi, almeno pel momento, — rispose Hong.
Poi fece chiedere dal malese a Tiguma:
— Potremo raggiungere il Bacat senz’essere costretti a passare per la pianura?
— Sì, — rispose il giovane isolano. — Attraverseremo le colline e scenderemo lungo le lagune. La via sarà più lunga, però non correremo il pericolo d’incontrare i cacciatori di teste.
— Tu sai che la fatica non ci spaventa e che siamo abituati alle lunghe marce, — disse il malese. — Orsù, sgombriamo. —
Raccolsero due kampilang, che erano stati abbandonati dai fuggiaschi e si misero a scalare la collina, giungendo ben presto là dove avevano incendiato il campo dei cacciatori di teste.
Il fuoco si era spento per mancanza d’alimento. Tutti i cespugli che prima coprivano quei cocuzzoli erano stati consumati e su quei pendii non erano rimasti che pochi ceppi informi, avanzi di alcuni grossi alberi.
Un fitto strato di cenere, che il venticello di quando in quando agitava, si estendeva sui fianchi delle alture, rendendo la marcia molto penosa. Quella polvere impalpabile si alzava sotto i piedi del drappello, cacciandosi nelle bocche, negli occhi e negli orecchi.
Raggiunta la seconda collina, Hong ed i suoi compagni rientrarono nei boschi. Il fuoco si era arrestato dinanzi ai primi alberi, i quali, colle loro masse di verzura, ricche di linfa e d’umidità, avevano opposta una barriera insuperabile.
— Possiamo riposarci, — disse Hong. — La povera Than-Kiù non può andare più innanzi.
— È vero, Hong, — rispose la giovane chinese, con voce rotta. — Questa salita mi ha sfinita.
— Ci fermeremo qui fino all’alba. Ormai non abbiamo da temer nulla da parte dei cacciatori di teste. —
Avendo scorto un grand’albero sostenuto da mostruose radici, le quali formavano come tante nicchie, separate da colonne contorte, si cacciarono presso quel gigantesco vegetale il quale poteva offrire, in caso di pericolo, un ottimo rifugio.
Sheu-Kin e Pram-Li tagliarono parecchie foglie di banano e le stesero al suolo, poi mentre i loro compagni si addormentavano, si misero in sentinella.
La notte era oscurissima non essendo ancora sorta la luna. Per di più la massa del fogliame proiettava una fitta ombra sotto la foresta.
Un profondo silenzio regnava all’intorno, tuttavia il chinese ed il malese tenevano gli occhi ben aperti, non fidandosi completamente di quella calma.
Anzi, sovente, si alzavano facendo il giro dell’enorme tronco, per essere più certi che nessuno minacciava i loro compagni.
Vegliavano da un paio d’ore, quando la loro attenzione fu attirata da un certo sussurrìo assolutamente inesplicabile, almeno pel momento.
— Hai udito? — chiese Sheu-Kin, volgendosi verso Pram-Li, il quale pareva che ascoltasse con grande attenzione.
— Sì, — rispose questi.
— Ti sembra che qualcuno si avvicini?
— Non saprei cosa dire. —
Il sussurrìo continuava e pareva che invece di provenire dalla parte della foresta, scendesse dall’alto. Certi momenti si udivano agitarsi delle foglie e certi altri pareva che delle unghie poderose grattassero il tronco d’un albero.
Sheu-Kin, assai inquieto, si era alzato stringendo il fucile. Guardava da tutte le parti, specialmente sotto le piante, senza riuscire a scorgere nulla.
— Se si trattasse di qualche animale si vedrebbero scintillare gli occhi, — disse a Pram-Li.
Invece di rispondere il malese aveva alzata vivamente la testa, osservando l’albero che serviva loro di ricovero.
Era un durion, di dimensioni gigantesche, alto almeno quaranta metri e molto fronzuto.
Stante l’oscurità il malese non potè vedere cosa si nascondeva fra la massa del fogliame; però udì lassù muoversi le fronde come se qualcuno cercasse d’aprirsi il passo.
— Il rumore viene dall’alto, — disse a Sheu-Kin, che lo interrogava.
— Che vi siano dei cacciatori di teste nascosti nel fogliame?... — domandò il chinese.
— Sarà forse qualche animale.
— E che cerca di discendere?
— È probabile.
— Qualche pantera?
— Oh!... Non salgono tanto, — disse il malese.
— Allora qualche grosso gatto selvaggio o qualche scimmione.
— Forse nè l’uno nè l’altro. Vedo una massa nera che discende lungo il tronco e che non rassomiglia nè ad un gatto nè ad una scimmia.
— Svegliamo Hong; non si sa mai quello che può accadere.
— È inutile, — disse Pram-Li, ridendo. — So ora di cosa si tratta. I nostri kampilang saranno bastanti per aver ragione di quella bestia.
— Infine con chi abbiamo da fare?...
— Con un orso, con un birmang come li chiamiamo noi. —
L’animale che scendeva cautamente lungo l’albero, era veramente un orso malese, uno dei più piccoli della famiglia orsina, non essendo più lungo d’un metro, nè più alto di settanta od ottanta centimetri.
Questo animale, al pari dei suoi congeneri d’Europa, vive d’insetti e di frutta ed è un abilissimo arrampicatore.
È però il meno pericoloso di tutti, sfuggendo l’uomo ed avendo un carattere tranquillo, tanto anzi che è facilissimo ad addomesticarsi.
Assalito, nondimeno, si difende, ma così malamente da non riuscire troppo pericoloso ai cacciatori.
L’animale, forse ignorando che alla base del durion si trovavano degli uomini pronti ad assalirlo, continuava a scendere, piantando solidamente le unghie nel tronco dell’albero.
Di quando in quando mandava un sordo grugnito e si arrestava per guardare abbasso. Forse aveva fiutato qualche cosa e non si sentiva completamente tranquillo.
Pram-Li aveva spinto il chinese dietro ad un cespuglio onde il birmang non s’accorgesse della loro presenza e risalisse l’albero.
— Guadagneremo una buona colazione, — gli aveva sussurrato.
Quando l’orso fu a terra, si avvide subito del pericolo che lo minacciava, avendo scorto Hong ed i suoi compagni addormentati.
Stette un momento in forse, non sapendo se gli conveniva più risalire o darsi alla fuga attraverso il bosco.
Il malese approfittò di quell’istante d’esitazione per slanciarglisi addosso col kampilang in pugno.
L’orso, scorgendolo, s’era prontamente rizzato sulle zampe deretane mostrando gli artigli. Con un’agilità che non si sarebbe mai supposta in un corpo così tozzo, evitò l’arma, poi si scagliò risolutamente addosso al malese abbracciandolo strettamente con le zampacce villose.
— Sheu-Kin! — esclamò Pram-Li, il quale non si aspettava quella resistenza.
Il chinese si era pure slanciato, stringendo la pesante sciabola. La lama s’alzò e discese rapida, affondandosi nel cranio della belva.
Il colpo fu così violento che il sangue sprizzò alto, macchiando il chinese.
Il malese, sentendo allargare la stretta, era sgusciato fra le zampe dell’animale, dicendo:
— Grazie, Sheu-Kin!... —
Il birmang, colpito a morte, si tenne ritto per qualche istante cercando di colpire i due avversari, poi cadde mandando un urlo così acuto da svegliare Hong, Than-Kiù e Tiguma.
— Cos’è successo? — chiese il primo, balzando in piedi col fucile in mano.
— Abbiamo guadagnata la colazione, — rispose Sheu-Kin.
— È un orso questo?...
— Sì, Hong.
— Un arrosto squisito.
— E che è costato poca fatica.
— Lo preparerete per domani. Sognavo appunto della selvaggina. —
E tornò a coricarsi a fianco di Than-Kiù, mentre Tiguma ed il giovane chinese scuoiavano l’animale e lo facevano a pezzi.
Il rimanente della notte passò senza altri allarmi.
L’indomani i chinesi ed i loro compagni, dopo una succulenta colazione, riprendevano le mosse scendendo gli ultimi scaglioni della catena di colline.
Al piano, numerose lagune si estendevano in tutte le direzioni, cosparse di piante acquatiche le quali servivano di rifugio a miriadi di uccelli.
La traversata di quei terreni pantanosi mise a dura prova la pazienza e le gambe del drappello, nondimeno fu compiuta felicemente e senza fare cattivi incontri.
Il paese era deserto e dei cacciatori di teste non avevano avuta più alcuna nuova. Certamente quegli uomini sanguinari, dopo tante perdite, avevano rinunciato a vendicare il bagani e se ne erano tornati al loro villaggio.
Dopo tre giorni di marcia, Tiguma annunciò finalmente che stavano per giungere sulle rive del Bacat e forse nei dintorni della stazione.