Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/APPENDICI/III
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III
Intorno alla propagazione delle dottrine buddhiche.
L’India, che vide nascere il Buddhismo, non conserva oggi che le sole memorie di quel culto. Esso vive in altre regioni; fuori dei luoghi che furono testimoni delle predicazioni di Çâkyamuni. Il Cascemir, convertito circa due secoli innanzi l’èra nostra, dal quale la Dottrina si sparse ai popoli tatari e mongoli dell’Asia centrale; il Ceylon, che conobbe il Buddhismo intorno allo stesso tempo, e che lo portò più tardi nel Pegu, nella Birmania, nel Camboge e nel Siam; il Tibet, che non giunse a conoscenza di questa religione prima del vi o vii secolo d. C., furono i tre focolari più vivi della fede, che nella storia della Religione e della sua letteratura stanno al pari del Magadha, la Terra santa dei seguaci del Buddha. La Cina poi ricevette direttamente da questo paese gli insegnamenti di Gâutama, e li trasmise al resto dell’Estremo Oriente.
Della introduzione del Buddhismo nell’Isola di Ceylon ne abbiamo già accennato al cap. iii p. 106-107; ma avendo lasciato di parlare della compilazione dei testi in lingua Pali, che fu fatta in quella contrada, ne diremo ora qualcosa. C’è chi crede, attenendosi a certe tradizioni indigene, che il Ceylon possedesse libri sacri della Religione buddhica circa un secolo innanzi l’èra cristiana (Turnour, nel J. A. S.of Bengal, t. vii, p. 722); ma è noto pure che gli annali del paese assicurano, che per quattrocento cinquant’anni, a cominciare dal nirvâna di Çâkyamuni, la Dottrina fu preservata e trasmessa oralmente (mukha-pathêna) dai preti singhalesi. I quali avendo finito per accorgersi dei danni, che venivano da un tal modo di procedere, si adunarono in numero di cinquecento cinquanta in una tal caverna o grotta, conosciuta col nome di Alôka (Alu), che è nel villaggio di Malaya in Langkâ (Ceylon); e sotto la presidenza del signore di quella terra presero a scrivere i libri sacri. Alcuni pretendono che questi libri fossero trascritti da altri testi, che rimontavano ai tempi del re Vartagâmani (90 av. C.): in ogni modo si asserisce che contenessero gli insegnamenti, che furono portati nell’Isola da Mahindo, inviatovi dal re Açôka l’anno 307 av. C. Questa compilazione fu fatta in Pali, e poi tradotta nella lingua parlata nel Ceylon, ossia in Singhalese. Con l’andar del tempo si perdette l’originale di quelle scritture, e non ne rimase che la versione volgare; la quale venne riportata in lingua Pali da Buddhaghosha. L’età, in cui visse questo celebre religioso, della cui grande attività letteraria fa fede il Mahâvança, è il v secolo. Buddhaghosha, nativo del Magadha, era uomo di molto ingegno, abilissimo nelle dispute filosofiche. Fu convertito da Revata, al quale palesò l’intenzione di fare un commentario generale al Pitakattya o Tripitaka. Revata dissegli che una volta c’era un commento, ossia Atthakathâ, ai testi sacri; ma venne perduto, e nell’India non si trovava più: che si conserva però nel Ceylon, come opera del savio Mahindo; laonde lo consigliò ad andare in quell’isola, e tradurre quella scrittura nell’idioma del Magadha. Buddhaghosha dunque andò nel Ceylon, mentre vi regnava Mahânama; e giuntovi si recò nel grande monastero (Mahâvihâra) della città di Anurâdhapura; e ascoltata la lettura dell’Atthakathâ e del Thêravâdâ (commentari), si persuase che nessun’altra scrittura potea meglio spiegare e chiarire la dottrina de’ testi sacri. Allora manifestò il desiderio di tradurli in Pali, e domandò d’avere tutti i libri; ma i preti singhalesi, dubitando della sua idoneità, non gli dettero da principio che soli due gâthâ o strofe da spiegare, per metterlo a prova. Buddhaghosha, tenuti questi due gâthâ come testo, ci scrisse sopra un’opera intera, aiutandosi con tutto il Tripitaka, e la intitolò Visuddhimagga, che venne ad essere un epilogo del canone sacro. Lesse questo suo lavoro innanzi ai primarii sacerdoti, radunati in assemblea; i quali, meravigliati del sapere e dello ingegno dello scrittore, gli dettero libertà di consultare tutti i volumi, che si conservavano nelle biblioteche dei loro conventi. Il religioso indiano prese allora residenza nel Ganthâkara vihâra di Anurâdhapura, ed ivi tradusse in Pali l’Atthakathâ singhalese o lo intiero commentario al Tripitaka (Mahâvança, cap. xxxvii; Hardy, Manual, p. 509-511).
Il Ceylon, come ho già detto, fu il centro della Chiesa buddhica meridionale, alla quale appartengono la maggior parte delle popolazioni della penisola Transgangetica, che ricevettero da quella Chiesa la loro fede. Il Pegu sembra essere stata la prima fra le contrade dell’Indo-Cina, che sia venuta a conoscenza del Buddhismo. Le storie Birmane e le Talaing asseriscono, che dopo il terzo Concilio tenuto a Palibothra (Pâtaliputra) l’anno 20.° di Dharmâçôka, due religiosi chiamati Thawnah e Ottara visitarono circa il 300 av. C. la città di Thadung, Thatone, o Satung, che portò poi l’appellativo di Suvanna-bhumi, e che era l’antica metropoli dei Talaing; le rovine della quale ancora esistono fra le foci del Sittang e del Salwên, distante dal mare otto o nove miglia inglesi. Ivi i Missionari cominciarono a predicare la nuova legge; ma sembra non vi portassero ancora niun libro scritto. (The cradle of Bud. in Burma, nel Phoenix, tomo ii, p. 180. — Bigandet, The Life of Gaudama, p. 389-390). Si dice che sotto il regno di Dharmapâla nel 400 d. C., Buddhaghosha introducesse nella Penisola le prime scritture Pali. I libri Birmani fanno di Buddhaghosha un religioso di Thatone. «Il primo — dice il Tatha-gatha-udana tradotto dal Bigandet — che tentò di apportarci una copia delle sacre scritture fu Buddhaghosha, religioso di Thatone, di razza Pounha (Brahmano); il quale venne apposta dal suo paese, ch’era allora sul mare o assai in vicinanza. Questa città è in Ramagnia,1 ed è abitata da un popolo chiamato Moun (Môn). Buddhaghosha sbarcò al Ceylon nell’anno della Religione 943 (400 d. C.), nel qual paese regnava allora Mahânama. Trattenutovisi tre anni, trascrisse su foglie di palma ed in caratteri Barma il Pitagat (Pitaka o Tripitaka),2 ch’egli trovò scritto nella lingua e con caratteri del Ceylon. In altro libro invece si legge che egli tradusse in Pali e non in Barma le scritture, che erano nella detta lingua del Ceylon. Dopo tre anni fece ritorno a Suvanna-bhumi, apportando seco i libri sacri che aveva tradotti». (Bigandet, op. cit., p. 392). — Secondo gli scrittori singhalesi, Buddhaghosha non venne nel Ceylon da Thatone, ma sibbene dal Jambudvipa (India), e precisamente dalla provincia di Magadha.
Prima della Cina ricevettero gli insegnamenti di Çâkyamuni le popolazioni tatare dell’Asia centrale; le quali, per le guerre che ebbero coll’Impero di Mezzo, furono cagione che quello Stato avesse da loro notizie della nuova credenza religiosa. Dopo la morte di Açôka, smembrato l’impero di questo monarca, i Brahmani ripresero la loro antica superiorità, che Gâutama aveva loro tolta per qualche tempo. Essi incominciarono dunque a perseguitare il nuovo culto, e le persecuzioni arrivarono al colmo sotto il re Pushpamitra (178 av. C.); nel qual tempo si videro conventi e templi abbruciati, libri distrutti, monaci e credenti costretti a emigrare dal loro paese; sì che la Chiesa ebbe tal colpo, da cui, nell’India, non si riebbe giammai. Queste persecuzioni furono cagione che i Buddhisti cercarono rifugio presso varie tribù tartare dell’Asia centrale, che erano allora in grande commozione. Un ramo di una di queste grandi tribù, di cui ho avuto occasione di parlare nel cap iii, (v. p. 108 e seg.), s’era inoltrato, come vedemmo, per lo incalzare di altre popolazioni della stessa schiatta, fino nel Kaçmîra e nel Panjâbi; ed il Buddhismo, sotto Kanishka re di quelle genti, trovò un patrocinatore uguale al monarca indiano Darmâçôka. Le dottrine di Çâkya si erano pertanto spinte già da qualche tempo fra quelle popolazioni nomadi, fino ai confini dell’Impero di Mezzo, dove ora le ritroveremo. Infatti, per quello che concerne l’introduzione del Buddhismo in Cina, ecco quel che dicono gli autori cinesi:
«È opinione comune, che prima della dinastia degli Han (incominciata il 206 av. C.) la Cina non avesse avuto sentore delle dottrine di Çâkyamuni. Taluni nondimeno pensano che tali dottrine furono già da gran tempo conosciute, ma sopraggiunta la dinastia degli Chin (255 av. C.) se ne perse ogni memoria, a cagione dello incendio dei libri, avvenuto sotto Chin-Shih-huang-ti (Wen-hsien-thung-khao, k. 226, f. 1 e 7). — L’imperatore Wu della dinastia degli Han occidentali, l’anno 19.° del suo regno (121 av. C.) inviò il generale Ho-kiu-ping contro gli Hiung-nu (antichi popoli della Mongolia al nord-ovest della Cina), per vendicarsi di un oltraggio, che la sua gente aveva ricevuto nelle contrade d’Occidente. Questo generale varcò i confini della Cina a Lung-hsi (nella provincia di Shen-hsi), scorse tutto il paese degli Hiung-nu, e passò di mille Li la montagna Yen-cih.3 Sterminò tutti i barbari, e ritornò carico di bottino, portando, fra le altre cose, una statua d’oro, la quale il re di Hsiu-thu onorava con sacrificii. Questa statua dorata, portata in Cina (121 av. C.), e posta nel palazzo chiamato Kan-yüan-kung (Palazzo della dolce sorgente), era la figura di un uomo venerato da quei popoli sotto il nome di Futhu (Buddha), e da essa ebbero origine le odierne immagini di Fo (Buddha), e così pure s’incominciò a conoscere la dottrina di lui (Thung-kien-kan-mu, k. 4, f. 112, r. — Khang-hsi tse-tien, clas. 9, f. 20, r.). — L’anno 4.° dell’imperatore Ai-ti, degli Han occidentali (2, av. C.) un letterato per nome Chin-king ricevette da un messaggere degli Yüeh-ti,4 chiamato J-thsun-khou, i libri di Fu-thu (Buddha), e d’allora la Cina ne ebbe contezza, ma non vi ebbero ancora proseliti. — Finalmente si racconta, che nel 7.° anno del suo regno; l’imperatore Ming-ti degli Han orientali (65 d. C.) vide in sogno un uomo d’oro, di grande statura, che aveva al capo un’aureola, il quale andava sorvolando per la reggia. Laonde domandando il sovrano ai cortigiani la cagione del sogno, gli fu detto che ne’ paesi d’Occidente v’era un Dio, il cui nome era Fo, di una statura di sei piedi, ed era appunto di colore giallo come l’oro. Allora l’imperatore Ming-ti inviò nel Thien-cu (India) due uomini, chiamati l’uno Tshai-yin e l’altro Chin-king, perchè si informassero di questo fatto. Essi vi andarono, si procacciarono i ventiquattro capitoli che formano uno dei libri di Fo5 ed alcune immagini di Shih-kia (Çâkya); e insieme con due Sha-mén (Çramana), che erano Shé-théng (o Mo-tkéng) e Cu-fa-lan, ritornarono in Oriente e andarono a Lo-yang (capitale della Cina al tempo degli Han). Ora, siccome nel ritornarsene al loro paese, i due inviati avevano messo il libro sacro in groppa ad un cavallo bianco, l’imperatore fabbricò un convento a occidente della porta Yung della città di Lo-yang, e gli pose nome Pai-ma-se, cioè Convento del Caval Bianco. Questo edifizio lo fece per alloggiare i sacerdoti di Fo; il libro lo conservò in altro edifizio in pietra, detto il Padiglione Lan, e le immagini, nel Padiglione Cing-yüan o della sorgente pura». Wén-hsien-thung-khao, k. 330,f. 14, v, e k.226, f. 1; Thung-kien-kan-mu, k. 9, f. 156, v; Kang-hsi-tse-tien, clas. 9, f. 20, r.).
La data comunemente ammessa per la introduzione delle credenze buddhiche nello Impero di Mezzo è l’anno vii, o secondo altri x, dell’imperatore Ming-ti degli Han, cioè a dire il 65 o 68 d. C. Si è nondimeno veduto ora, che alcuni autori cinesi pretendono che il lor paese avesse avuto notizie di questa religione fino da un tempo molto più antico, che fanno risalire al 200 av. C. Anche il Dizionario Imperiale di Khang-hsi lo afferma: «È un errore il credere, dice quest’opera citandone a sua volta un’altra che porta il titolo di Cêng-tse-thung, che la religione di Fo incominciasse a introdursi nella Cina il settimo degli anni Yung-ping regnante Ming-ti degli Han (=65 d. C.). Fino dal tempo degli Chin, (255 av. C.) vennero nel nostro paese lo Sha-mên (Buddhista) Shih-li-fang con altri compagni. I quali, imprigionati da Shih-huang-ti (221-209), furono liberati da un uomo d’oro, che ruppe le porte del loro carcere», (Khang-hsi-tse-tien, clas. 9, f. 19, v.).
Non ostante queste asserzioni, non è probabile che il Buddhismo cominciasse a propagarsi nella Cina innanzi al primo secolo dell’èra nostra. Questo progresso si deve tanto all’opera di monaci indiani che fuggivano alla persecuzione brahmanica, quanto allo zelo dei religiosi cinesi; i quali, per attingere le dottrine a fonte più pura, intraprendevano lunghi pellegrinaggi nel paese che fu culla del Buddhismo, e se ne ritornavano poi ricchi di testi sacri, raccolti nei principali conventi dell’India e del Ceylon. Wei Tao-an, che visse nel iv secolo, si può dire che sia il primo religioso nativo della Cina, che divenne maestro nella letteratura buddhica. Per dieci anni si applicò allo studio dei Sûtra, e commentò e corresse le traduzioni dal Sanscrito in Cinese, fatte dai monaci indiani venuti nel Regno di Mezzo. Fa-hsien gli succedette nell’opera circa ottant’anni dopo, e si rese celebre per un lungo pellegrinaggio (dal 400 al 415) nell’India e nel Ceylon, che egli narrò in un libro, cui pose il titolo di Fo-kuo-ki o Storia dei regni buddhici.6 Passato quasi un secolo, un’imperatrice della Cina dette incarico a due monaci del paese, chiamati Hui-shéng e Sung-yün, di andare in Occidente a procacciarsi nuove scritture canoniche. Essi partirono per l’India intorno al 520, e rientrarono in patria con cento settanta opere diverse, tutte appartenenti alla scuola del Mahâyâna. La relazione del viaggio di questi due religiosi si trova inserita in varii libri cinesi. Il Neumann l’ha tradotta in tedesco, togliendola dalla collezione intitolata Han-wei-tsung-shu; e il Beal in inglese, dal quinto e ultimo libro dell’opera Loyang kia-lan-ki.7 Ma il più. importante documento di questo genere è il libro che porta il titolo di Ta-Thang hsi-yü ki, che contiene il viaggio fatto da un altro monaco buddhista della Cina, che aveva nome Hsüan-tsang; il quale partì nel 629 e ritornò dopo diciassette anni, impiegati a visitare l’India, portando seco 657 volumi di sacre scritture.8 Altre opere di questo genere, scritte da ferventi buddhisti dell’Impero di Mezzo, sono possedute dalla letteratura cinese, e contengono, come le già citate, preziose notizie su la storia e la geografia dell’India. Non posso dilungarmi a citarle tutte e neanche in parte; ma coloro, cui premesse averne cognizione, potranno consultare un articolo di Stanislao Julien nel Journal Asiatique, serie iv, t. 14, p. 353.
I primi testi buddhici, come vedemmo poco sopra, furono portati nella Cina da Tshai-yin e Chin-king, nell’anno 65 av. C. Ora Ma Tuan-lin ci fa sapere che: «cominciando da quelle prime scritture fino all’intera raccolta, compilata regnante Wu-ti della dinastia dei Liang (562-547), i volumi dei testi buddhici che entrarono nel Regno di Mezzo furono cinque mila quattrocento, divisi in tre classi, cioè King (Sûtra), Lun (Abhidharma) e Lü (Vinaya), le quali insieme ebbero il nome di San-tsang (Tripitaka)». (Wên-hsien-thung-khao, k. 226, f. 2). Questo numero di volumi corrisponde presso a poco a quello, nel quale l’opera intitolata Abhidharma kôsha dice compreso tutto il Dharma skandha o «Corpo delle dottrine buddhiche». (Vedi p. 211). — Nominerò alcuni dei primi traduttori dal Sanscrito in Cinese, dei testi sacri. Dopo Kia-yeh Mo-thêng (Kâçyapa Mâtanga), monaco indiano che tradusse nell’anno 67 d. C. il Sûtra dai ventidue articoli, è notato fra gli eccellenti traduttori An-shih-kau, prete nativo della Persia orientale. Intorno il 170 d. C. Cih-cin del paese degli Yüeh-cih tradusse il Nirvâna sûtra; nel 250 un religioso del Turfan, per nome Cih-mêng, tradusse un libro sulla disciplina monastica; e dieci anni più tardi, Fa-hou (Dharmarâksha), venuto in Cina, intraprese, coll’aiuto di altri bikshu indiani, la versione di 165 opere, fra le quali il Lalitavitstâra, i Suvarnaprabhâsa sûtra, il Mrigamâtâ sûtra, e corresse la traduzione del Nirvâna sûtra. Cih-kung-ming, altro prete straniero, prese a recare in cinese il Vimalakêrtti nirdeça e il Saddharma pundarêka; e molte altre versioni furono fatte dal sacerdote indiano Kumârajîva, sotto il regno di An-ti (397-419). Questo principe amava di raccogliere in un padiglione del suo giardino i monaci, perchè gli spiegassero i sûtra; e tanto si infervorò nella letteratura buddhica, che aiutò Kumârajîva stesso a correggere le vecchie traduzioni, e a farne delle nuove; fra le quali si contano il Dêvadaçanikâyaçâstra, opera di Nâgârjuna, e il Çataçâstra, scritto da Dêvabôdhisatva. Dopo questi monaci forestieri, cominciò in Cina con Wei Tao-an una serie numerosa di traduttori indigeni, che sarebbe lungo nominare.9 Gli scrittori cinesi di cose buddhiche fanno parola di raccolte generali di traduzioni fatte in diversi tempi, come quelle accennate di sopra fatte al tempo della dinastia dei Liang. Ma una delle più importanti di colali raccolte è quella che venne compilata regnante un monarca della dinastia mongola degli Yüan, che signoreggiò la Cina a cominciare dal 1280. In una prefazione a un catalogo di libri buddhici, che porta la data del 1289, vien detto che il primo monarca di questa stirpe convocò i dotti più rinomati nella intelligenza dei testi sacri; e li incaricò di comparare la collezione tibetana con la cinese, e di riscontrarne le mancanze; inoltre ordinò a letterati versati ner Sanscrito, nel Tibetano, nell’Uiguro e nel Cinese, che rivedessero le traduzioni già fatte: e un tal lavoro durò dal 1285 fino al 1289.10
Abbiamo visto che dal Magadha il Buddhismo pel Cascemir si propagò fra i popoli dell’Asia centrale fino ai confini occidentali della Cina, e per mezzo del Ceylon a gran parte delle genti della Penisola Indo-Cinese. Il Tibet invece, difeso a sud-ovest dall’Imalaia, a settentrione dalla catena del Kuen-lun, rimase per molto tempo chiuso al proselitismo buddhico; solo molti secoli appresso, uscito dalla barriera, in cui lo aveva posto natura, si associò alle riforme morali e civili, che avevano già trasformate in meglio le popolazioni circonvicine. Le tradizioni mongole narrano, che il Buddhismo incomincia a conoscersi nel Tibet l’anno 367 d. C. Certi libri apparvero colà miracolosamente; e dopo quasi trecent’anni che si conservavano incompresi, un re per nome Srong-btsan-sganbo inviò nell’India (632 d. C.) alcuni suoi ministri per avere un alfabeto, col quale la lingua tibetana potesse scriversi, e per tale mezzo la religione di Çâkyamuni potesse essere sparsa fra il popolo. Comunque sia, egli è un fatto che appunto in questo tempo, cioè regnando in Cina l’imperatore Khao-tsung dei Thang, i Tibetani uscirono come conquistatori dai loro confini naturali; fecero guerra al Regno di Mezzo, invadendolo in parte; e poi per la valle del Brahmaputra, scesero nel Bengal. Le traduzioni tibetane dei testi sacri furono appunto fatte in questo torno, vale a dire fra l’viii e il ix secolo dell’èra cristiana; e gli originali che servirono a tali versioni, furono i libri sanscriti delle collezioni che si conservavano nel Nepal, provenienti dal Magadha, fino dal iii secolo, originali che furono, come dicemmo (v. p. 222), scoperti e studiati dall’Hogdson.
Le scritture tibetane, che riferisconsi alla religione buddhica, si comprendono in due grandi raccolte, le quali portano il nome di Bka’-’gyur e Bstan-’gyur: nomi che da sè stessi dicono, che esse scritture non son che traduzioni e non testi originali; imperocchè il primo significa Versione delle parole avvertimenti notabili, l’altro Versione delle opere filosofiche. E a proposito del titolo di queste due raccolte, non posso lasciare di notare un singolare errore di A. Rémusat, perchè mostra come la lingua tibetana fosse a quel tempo (1836) pochissimo conosciuta. Questo dotto orientalista, parlando dei sûtra, così detti in quanto contengono la «dottrina immutabile, perpetua», e perciò chiamati dai Cinesi king, disse che: «en Tibetain ce sens d’immobilitè se rend par ’gyur», (Foe-kue-ki, p. 108, n. 2). Ora è noto che non solo il vocabolo ’gyur non ha un tale significato, ma che anzi vuol dire tutto il contrario, cioè: «to be changed, to turn, to change, to translate». (C. Körösi, A Dict. Tibet, p. 179; Jaeschke, Tibet, a. Engl. dict., p. 45); e inoltre la parola sûtra è resa in Tibetano col monossillabo mdo. Più avanti, parlando del Vinaya, lo stesso Rémusat osserva che: «Le mot bka’ exprime cette signification (di Vinaya) et, joint au titre tibetain des livres sacrés, il forme le composé bka’-’gyur, qui est le titre d’une collection très-celèbre, communément appellée Gan-djour». Laonde, secondo il citato autore, Bka’-’gyur vorrebbe esprimere una collezione di libri canonici, concernenti la disciplina religiosa. Ma il tibetano bka’ non rende nemmeno esso il vocabolo sanscrito vinaya, pel quelle si adopra ’dul-ba; bka’ significa invece ordine, precetto, avvertimento dato da persona onorevole e illustre. — Queste due raccolte, sebbene composte di sole traduzioni, sono di una grande importanza; imperocchè esse ci hanno conservato molti libri, i cui originali sanscriti sono sconosciuti perduti; e abbracciano tutta la letteratura, che il Buddhismo ha prodotta, durante il lungo e laborioso periodo del suo svolgimento.
Lo Bstan’-gyur comprende dugento venticinque volumi, divìsi in due classi, cioè: scritti concernenti i Tantra (in Tibetano rgyud), in ottantotto volumi, e scritti riguardanti i sûtra (mdo), in cento trentasette. La prima parte si compone di 2640 trattati, che si riferiscono a ventiquattro sistemi Tantrika, il primo e più conosciuto dei quali si chiama Dus-kyi-’ghor-la (Kâla cakra) «Circolo del Tempo»: sistema che comparve in India nel x secolo d. C., e fu poco dopo introdotto nel Tibet.11
La raccolta più importante è quella che porta il nome di Bka’-’gyur, poichè contiene propriamente i testi canonici della religione di Çâkyamuni, vale a dire il Tripitaka, i quali formano il Dharma skandha. I titoli dei varii testi sacri originali, dai quali vennero tradotti i libri del Bka’-’gyur, si possono riscontrare con facilità, essendo spesso riportati a fronte dei titoli d’ogni singola opera tradotta. Questa famosa raccolta, della quale lo Schmidt ha dato l’indice compiuto, in un volume di 245 pagine in 4.° (Pietroburgo, 1845), si suddivide come appresso:
’Bum, cioè il Libro dei 105,000 Çloka, in 12 volumi;
Ni-khri, Libro dei 20,000 Çloka, in 3 volumi;
Khri-brgyad, Libro dei 10,008 Çloka, in 3 volumi;
Khri-ba, Libro dei 10,000 Çloka, in 2 volumi;
Brgyad-stong-pa, Libro degli 8000 Çloka, in 1 volume;
Sher-phyin, un solo volume di 284 pagine, il quale contiene 31 opere diverse. Una di esse, intitolata Bcom-ldan-’das-ma-shes-rab kyi-pha-rol-tu-phyin-pai-sñing-po (Bhagava-tiprajñâpârarnitâhridaya) che occupa le pagine 144-146, è stata pubblicata a Lipsia nel 1835.
Questa suddivisione dei libri del Bha’-’gyur, o la disposizione che i Tibetani hanno data alle traduzioni degli originali sanscriti del Tripitaka, è assai diversa, come si vede, dalla divisione del canone sacro del Ceylon, che conserva i testi Pali. Le tre prime parti del Bka’-’gyur corrispondono alle tre parti, in cui si distingue l’antico Tripitaka: Dul-ba (Vinaya), Sher-phyin (Abhidharma), Mdo (Sûtra). Le altre parti, quantunque possano comprendere scritture di tal genere da avere il loro luogo in una delle due ultime suddivisioni del Tripitaka, abbracciano generalmente tutta quella letteratura buddhica, che nacque e crebbe nella Chiesa settentrionale, e che si conserva oggi estesissima nelle traduzioni tibetane e cinesi.
Una disposizione simile a quella del canone sacro del Tibet è pure tenuta talvolta nei cataloghi cinesi, che enumerano i libri buddhici, che si conservano nel Regno di Mezzo. Questa disposizione è la seguente: — 1. Vinaya (Liu-pu); 2. Prajñâ (Cih-hui-pu); 3. Ratnakûta (Pao-tsi-pu); 4. Sûtra e Vâipulyasûtra (King-pu, Ta-tsi-pu); 5. Buddhavatansaka (Hoa-yen-pu); 6. Parinirvâna (Ni-pan-pu). Quest’ultima classe si trova comunemente anche nel Bka’-’gyur, quantunque più sopra non l’abbia notata, avendo riportate le divisioni di questa raccolta, quali sono nell’indice litografato pubblicato dallo Schmidt.
Ho accennato di sopra (v. p. 223 e seg.) ai lavori del Csoma di Körösi intorno ai libri sacri del Tibet; noterò ora, che il padre Ippolito Desideri, il quale abitò Lassa dal 1716 fino al 1727, peritissimo nella lingua del paese, a quanto si afferma fece pur egli traduzioni dal Bka’-’gyur, che si dice si conservino nella Biblioteca della Congregazione di Propaganda. Per quante ricerche io abbia fatto, non ho potuto avere notizie di tali versioni, conservandosi in quella Biblioteca, di mano del Desideri, solo una relazione, con la data 13 febbraio 1717, diretta al papa Clemente XI, sul suo ingresso e permanenza nel Tibet, e una breve lettera indirizzata pure al Pontefice.
Gl’imperatori cinesi della dinastia regnante hanno fatto stampare a Pekino, in formato in foglio oblungo, tutte le antiche traduzioni tibetane e cinesi dei libri buddhici, i quali fecero pure trasportare in Mongolo e Manciù. La collezione de Bka’-’gyur comprende, in ciascuna delle quattro lingue, centotto volumi; e quella del Bstan-’gyur, dugento quaranta: ciò che fa un complesso di 1392 volumi. È inutile dire che questa collezione di libri, stampati con la più grande cura e con la massima correzione, è di una importanza grandissima non solo per la storia delle religioni, ma ancora per lo studio comparato di quelle lingue, che sono fra le principali della famiglia turanica. — La Gazzetta di Pekino del gennaio 1870 ha un memoriale d’un nobile signore mongolo, indirizzato all’imperatore della Cina a fine di incoraggiare l’impresa di una nuova edizione del Bka’-’gyur. L’autore del memoriale dice che le tavole incise, che formano come le pagine stereotipate di tutti i libri di quella grande collezione, le quali hanno servito fino ad ora alla stampa, tavole che furono scolpite l’anno 22 dell’imperatore Khang-hsi (1683), sono talmente logore da non potersi più usare per nuove pubblicazioni, specialmente in quella abbondanza di copie che sarebbe desiderabile. Egli si è posto in animo di adoperarsi per una edizione affatto nuova di tutti i libri della dottrina del Buddha; e tale impresa propone che si conduca a effetto per via di offerte, raccolte fra le tribù e i principi mongoli; ed egli, l’autore del memoriale, elargisce intanto, per cominciare, la somma di 3000 teal (25,000 franchi). La proposta incontrò l’approvazione imperiale; e se la somma giudicata approssimativamente necessaria (250,000 franchi) si sarà potuta raccogliere, il Mondo buddhico possederà fra breve in più larga copia le venerale scritture, e la scienza delle religioni avrà maggiore facilità di procacciarsi un materiale importante di studio.
Terminerò queste notizie con alcune parole intorno alla introduzione del Buddhismo nella Corea e nel Giappone. In una Enciclopedia sinico-giapponese si trova la nota seguente, sul tempo in cui questa religione incominciò a professarsi nei tre reami Kao-li, Pai-ci e Hsin-lo, ne’ quali si divideva anticamente la Penisola Coreana: — «L’anno secondo del re Hsiao-shu-lin del paese di Kao-li, Fu-kien re del paese di Chin mandò gente nella detta terra di Kao-li, perchè vi portasserò libri e immagini di Çâkyamuni, e vi propagassero la Legge di lui. E ciò avvenne il 2.° degli anni hsien-an, regnante nella Cina Kien-wên-ti della dinastia Cin (= 373); ossia il 60.° anno del regno dell’imperatore giapponese Nintoku (= 373). — L’anno 29.° del re Hsiao-ku del paese di Pai-ci [corrispondente al 2.° degli anni ning-khang, regnante Hsiao-Wu-ti dei Cin (= 375), o al 62.° del nominato monarca del Giappone] si cominciò a introdurre e adoperare la scrittura, fino allora sconosciuta in questo reame; e il 9.° degli anni tai-yüan della medesima dinastia cinese dei Cin (= 385), mentre nel paese di Pai-ci regnava Wan-shou, un Bonzo venuto dalla Cina, fu da quel re ricevuto con molto onore al palazzo, e d’allora nella contrada si ebbe conoscenza della Legge del Buddha; e l’anno appresso si edificò un convento sul monte Han, e vi ebbero dieci monaci. — L’anno 15.° di Fa-hsing re di Hsin-lo, ossia il 2.° degli anni ta-thung, regnante in Cina Wu-ti dei Liang (= 529), e nel Giappone essendo giunto al suo 22.° anno di regno l’imperatore Keitei (= 529), s’incominciò a propagare nel detto legame Hsin-lo la religione di Gâutama. Per lo innanzi si narra, che uno Çramana per nome Mo-hu-tse andò dal paese di Kao-li a quello di J-shan-na, la cui gente, quasi selvaggia, abita le caverne; quando l’imperatore cinese dei Liang mandò a regalare sostanze odorifere al sovrano di que’ barbari. Il principe che non sapeva che fosse nè a che servisse tal dono, ne domandò Mo-hu-tse; il quale gli disse, che se egli avesse bruciato quelle sostanze, ne sarebbe uscito tanto e così soave profumo da essere veramente degno d’arrivare fino ai santi e agli Dei; e non essendovi nulla di più santo e divino della Trinità, cioè Buddha, Dharma e Sangha, s’egli ardesse a quella i profumi, ne avrebbe veduto tosto la miracolosa efficacia, secondo le sue intenzioni. Il re che aveva la moglie amamalata, ordinò a Mo-hu-tse di bruciare l’incenso prodigioso, pregando in pari tempo per la guarigione della donna; la quale in breve tornò sana. E il re ne ebbe tanta gioia che ricompensò generosamente lo Çramana; e la fede guadagnò molti animi». (Wa-han-san-zai-tu-ye, k. xiii, f. 9-10).
Dalla Corea il Buddhismo passò al Giappone, il quate ora sta a rappresentare l’estremo confine orientale, a cui giunse la dottrina di Çâkya. Il Nitu-pon wau-dai iti-ran dice: «Il tredicesimo anno dell’imperatore Kinmei ten-wau (553 d. C.) il re di Fakusai (in Cinese Pai-ci, uno dei tre reami della Corea) inviò al Giappone un’ambasciata con una immagine del Buddha e alquanti libri religiosi. Uno dei ministri del re Kinmei, chiamato Iname, cercò di persuadere il monarca a rendere omaggio alla nuova divinità; ma un altro ufficiale di Corte, Monono beno Ogosi, lo dissuase dicendo: Il nostro reame è di origine divina, e il Dairi (l’imperatore) ha già da venerar molti Dii; se egli venera anche quelli degli stranieri, i nostrani se ne avranno a male, e monteranno in collera. Il Dairi allora fece dono a Iname della statua del Buddha che aveva ricevuto; e Jname ne ebbe tanta gioia, a che fece abbattere la propria casa; e in luogo di quella vi costruì un tempio, dove pose la sacra immagine. D’allora in poi cominciò a spargersi la religione buddhica nel Giappone, e si principiò a edificare i templi detti Ga-ran». (Nitu-pon wau-dai iti-ran, traduzione di Titzing, edita da Klaproth, pag. 34-35). Diciotto anni dopo, ossia il trentunesimo anno di Kinmei, (= 571) secondo quello che narra un’altra storia giapponese, una immagine di Amitâbha, la quale era stata portata nel reame di Fakusai dal Tendiku (India), venne nel Kami-no kuni (Giappone); e apparve, tutta circondata di luce, sulle rive di un lago presso Nanina (odierna Osaka), senza che alcuno ve l’avesse portata. Allora lo stesso re Kinmei, meravigliatosi di questo miracolo, fece trasportare l’immagine nella provincia di Sinano (Mitunoti-kofori); dove in memoria del fatto venne costruito un tempio, che fu chiamato Sen-kufau-si, che divenne famoso per tutto l’Impero (Kaempfer, lib. iii, capitolo iv). Il Wa-kan-san-zai-tu-ye, k. lxvii, f. 3, parla di questo celebre santuario; e inoltre, al lib. xix, f. 8 dell’opera stessa, si trova detto, che il 16.° anno di regno dell’imperatore Keitei (= 523) un magistrato della corte dei Liang, i quali allora sedevano sul trono della Cina, andò al Giappone con l’intento di spargervi la fede buddhica, ma non incontrò favore: i libri e altre scritture di questa religione, e le immagini di Çâkya, cominciarono a vedersi in gran copia sotto il regno di Kinmei.
Note
- ↑ Il regno di Ramagnia comprendeva l’odierno distretto di Bassein, inclusovi il territorio situato fra l’Irawady e le montagne dell’Arakan; il territorio di Henthawati, fra l’Irawady ed il Sittang; e quello di Muttama o Martaban fra il Sittang ed il Salwên. Sembra che al settentrione si estendesse fino ad Akauk-taong, al sud di Prome.
- ↑ Altri dicono che si adoperò invece a copiare un’opera intitolata Visuddhimagga, la quale, come è detto di sopra, è tenuta dai più per sua propria scrittura.
- ↑ «Nome di un monte, che è a 120 Li a sud-est della città di Shan-tan-wei nella provincia di Shen-hsi: si chiamò anco Shan-tan-shan: sotto gli Han, gli Hiung-nu occuparono questa montagna». (Thung-kien-kan-mu, k. 4, f. 112)
- ↑ Il paese situato fra le montagne Nan-shan. il fiume Bulunghir e il corso superiore del Huang-ho, che traversava la parte occidentale del Kan-su, era occupato fino dal secolo iii, av. C. da una popolazione di schiatta tibetana, che i Cinesi chiamarono Yüeh-ti; possedevano una parte della Cina e del Tangut, dove formavano un regno possente; ma gli Hiung-nu li sottomessero l’anno 177 av. C. (Vedi p. 108, n.° 2).
- ↑ Questa scrittura, che in cinese porta il titolo Fo-shuo se-shih êrh-cang-king e in tibetano Phagas-pa-dum-bu-e-gañs-pa-es-byabai-mdo, ossia il Sûtra, in quarantadue capitoli delle parole del Buddha, è uno dei più antichi libri, e contiene le dottrine più semplici del primitivo Buddhismo. Ma Tuan-lin ne parla nella sua Enciclopedia nel libro 226, f. 7. — Vedi anche a p. lvii, n. 2 di questo libro.
- ↑ Foe-kue-hi, ou relation des royanmes buddhiques. Traduit du Chinois et commenté par A. Remusat, complète et augumenté par Klaproth et Landresse. Paris, 1836. — S. Beal, Travels of Buddhist Pilgrims, Londra, 1869, p. 1-174.
- ↑ C. F. Neumann, Pilgerfahrten Buddhistischer Priester von China nach Indien. Leipzig, 1833. — S. Beal, Trav. of Bud. Pil., p. 175-208. — C. Leland, Hoei-Schein, or the discovery of America by Bud. monks.
- ↑ St. Julien, Mémoires sur le contrées occidentales, traduits du sanscrit en chinois en l’an. 648, par Hiouen-Thsang, et du chinois en français, 2 vol., Paris, 1856.
- ↑ Ecco, secondo alcuni libri cinesi di bibliografia buddhica, come ha proceduto l’opera di traduzione dei testi sacri: Da Hsiao-Ming-ti degli Han (67 d. C.) fino a Cih-yüan (1285), cioè durante 1219 anni, ci furono 194 traduttori che hanno pubblicato fra tutti 1440 opere, formanti un corpo di 5596 volumi. — Questo lungo spazio di tempo si distingue in varii periodi, dei quali il primo è il più fecondo e laborioso in fatto di traduzioni. — Da Ming-ti degli Han (67 d. C.) a Hsiuan-tsung degl’Thang, (730 d, C), ossia per 663 anni, si contano 173 traduttori di 968 opere, formanti 4507 volumi. — Da Hsiuan-tsung dei Thang (730) fino a Tê-tsung pure dei Thang (789), cioè per uno spazio di 60 anni, si ebbero 7 traduttori, per 127 opere, in tutto 242 volumi. — Dal 789 fino al 982 non si fa menzione di alcun nuovo traduttore. — Nel 982 si stabilì, regnando Thai-tsung dei Sung, un ufficio apposta di traduzione (J-chang), di cui facevano parte uomini versati nel Sanscrito, nel Tibetano, pel Mongolo, nel Uiguro, nel Manciurico e nel Cinese. Da questo tempo fino a Cên-tsung (1011), 6 traduttori fecero la versione di 200 opere, comprese in 248 volumi. — Da Cên-tsung (1011) fino a Jên-tsung (1037) i medesimi tradussero 19 opere in 128 volumi. — Finalmente da Jên-tsung (1037) a Cih-yüan (1285) vi furono 3 traduttori di 20 opere, formanti 114 volumi.
- ↑ S. Julien, Mel. de Géog. Asiat. et de Phil., p. 221-22.
- ↑ Vedi C. di Körösi, e H. Wilson nel Jour. of the Asiat. Soc. of Bengal, t. ii, e nell’Asiat. Rescar., t. xx.