Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/APPENDICI/II

II - Del Pantheon buddhico

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APPENDICI - I APPENDICI - III
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II


Del Pantheon buddhico.


Ho avuto più volte occasione di ripetere, nel corso di questa esposizione, che il Buddhismo ci presenta il fatto strano e degnissimo di nota, di una religione senza Dio. Pertanto chi avesse modo di entrare in un tempio consacrato al culto di Çâkyamuni, o chi avesse sott’occhio la [p. 226 modifica]rappresentazione in figura delle parti di un tal tempio, rimarrebbe stupito in vedere il grande numero di immagini, tutte in tali atti e con tale aspetto da mostrare la pretensione di rappresentare la divinità, o qualche attributo almeno della divinità stessa. Vederle inoltre la più gran parte sugli altari, in mezzo ai lumi, agl’incensi, ai fiori; oggetto di adorazione pel volgo, di guadagno pe’ preti, di riso e di sprezzo per gli scettici; induce a più forte ragione a credere, che il Buddhismo abbia pure esso il suo Dio, i suoi Santi, i suoi Angeli come qualunque altra dottrina, che aspiri a buon diritto al nome di religione.

Quando si prende a studiare un popolo nella sua fede religiosa, ciò che si presenta prima alla osservazione è, direi così, l’ultimo strato che essa ha lasciato di sè col trascorrere dei secoli: è la corruzione e la superstizione, in cui cade per naturale processo una dottrina, che è entrata nel dominio della credenza di una intera schiatta o nazione. È d’uopo di un accurato studio su le scritture, che servono di canone ad una dottrina professata come religione, e sulla storia del suo svolgimento, se di quella dottrina si vuole conoscere la natura vera, gli intendimenti originarii. Se ci contentassimo di un primo sguardo al culto esterno di qualsiasi credenza, indubitatamente si cadrebbe in errore, anche se si trattasse di giudicare la più perfetta delle religioni del mondo. Una persona affatto ignara dell’indole del Cristianesimo, che volesse giudicarlo in una chiesa cattolica durante le cerimonie religiose, o da un sermone domenicale recitato in un tempio protestante, non si potrebbe fare che un falso concetto della religione di Gesù. Lo stesso avverrebbe a noi se si entrasse in un Câitya, in un Vihâra, in una Pagoda, e si volesse decidere del Buddhismo, guardando all’altare del tempio, ai preti che vi officiano, alle immagini che lo adornano, alle preci che recitano i fedeli o ai loro atti.

Ma torniamo all’argomento. Le immagini che si veggono nei templi buddhici, sono o non sono Dei? — Prima di rispondere a tale domanda, è necessario dire come sono nati questi personaggi, che rivestono un’apparenza divina. E, [p. 227 modifica]innanzi a tutto, bisogna distinguere quelli, che sono stati prodotti dal Buddhismo più ortodosso; quelli che sono usciti dalle speculazioni filosofiche di qualche scuola teistica; e quelli che sono di origine brâhmanica, e che furono introdotti più tardi nel culto buddhico. — I primi sono modellati tutti sopra un tipo unico, quello di Çâkyamuni. Çâkyamuni o Çâkyashina, come è anco chiamato il fondatore storico del Buddhismo, è un uomo e come tale risguardato da tutti i buddhisti. Entrato nel Nirvâna, ossia uscito dal dominio dell’esistenza, non è più nè in Terra, nè in Cielo, nè in Inferno; ma ciò non toglie che la sua immagine possa essere onorata come quella di un benefattore dell’umanità: nello stesso modo, per esempio, che viene onorato Confucio, di cui nessuno ha pensato fare un Dio, e che pure si trova su gli altari de’ templi della Cina. — Le teorie cosmogoniche, che ho esposte altrove, teorie che non si debbono al Buddha, ma ai suoi seguaci, fanno l’universo presente conseguenza di un universo passato, e da molti secoli distrutto: la materia cosmica è destinata eternamente a formarsi, scomporsi e riformarsi in una infinità di sistemi mondiali. Ora tutti gli universi sono fra loro perfettamente uguali; non solo in ogni parte, ma anco nella vita cosmica, nella vita animale e negli eventi umani. Ognuno di quelli universi che già furono, deve perciò avere avuto anch’esso il suo Buddha, che salvò l’umanità d’allora; e l’universo che verrà avrà pure esso il suo. Il tipo del Buddha storico si è così moltiplicato all’infinito; perchè il suo operato è diventato una necessità, uno dei fatti più importanti che accaddero e accadranno in tutti gli universi passali e futuri, come è stato nel presente. Un’altra dottrina che ha contribuito a fare uscire Çâkyamuni dal dominio del reale e dell’umano, è la dottrina della trasmigrazione. Le scritture prodottesi sotto il dominio di questa credenza non poterono fare a meno dì tracciare la storia supposta degli innumerevoli rinascimenti di Gâutama, ossia di quell’Essere, che era destinato a diventare il Buddha del mondo presente, prima d’incarnarsi come figliuolo di Çuddhôdana e di Mâya.

[p. 228 modifica]Di questi esseri di stoffa mortale, che conseguirono per gradi una natura tanto eletta ed eccellente da possedere una saggezza quasi divina, le scritture buddhiche ne contano una infinità: tutti vissuti in epoche remotissime, innanzi la formazione del nostro mondo. Molti Sûtra si occupano specialmente a enumerare le denominazioni di questi differenti Buddha; e i Cinesi si distinguono singolarmente per l’abbondanza di tali nomi, che passano gli 11,000 (Wassiljew, p. 174). — Siffatti Buddha mortali, detti Munushi Buddha per distinguerli dai Dhyâni Buddha, de’ quali parlerò in breve, sono di diverso grado, cioè Pratyêka, Çrâvaha e Mahâyânika: Çâkyamuni appartiene a quest’ultimo. Le perfezioni di scienza e di virtù richieste per arrivare a questi tre gradi, chiamati col nome collettivo di Triyâna, sono esposte in alcune scritture canoniche, e fra le altre nel Lalitavistâra.

Gâutama, uscito così dal campo della storia, fu dalla maggior parte dei moderni buddhisti portato addirittura in quello del mito. Secondo essi, un personaggio, a cui danno il nome di Adi Buddha, che la scuola Svâbhâvika fa corrispondere a Svâbhâva e l’Aiçvarika a Içvara, produsse un Bôdhisatva, il quale avendo trasmigrato pei Tre mondi e pei Sei modi di esistenza animale, e avendo sperimentato il bene e il male di ogni stato, apparve infine come Çâkyashina. In questa forma insegnò agli uomini la verace sorgente della felicità e del dolore; insegnò la dottrina che è racchiusa nelle quattro scuole filosofiche (Svâbhârika, Aiçvarika, Yâtnika e Kârmika); e, avendo ottenuto la saggiezza di un Buddha e adempiuto tutti i Pâramitâ (virtù trascendentali), entrò nel Nirvâna (Divya avadâna e Lalitavistâra citati in Hodgson). — Senza dare la lista dei nomi dei moltissimi Buddha, che si dice siano apparsi fino ad oggi, farò menzione soltanto dei sette ultimi di questa interminabile serie. Essi sono chiamati i Sette Buddha mortali o umani, Sapta manushi Buddha; e sono quelli che apparvero nel mondo che ora esiste, dei quali gli ultimi quattro nacquero, insegnarono e morirono durante il presente Kalpa, ossia l’ultimo di quei periodi di [p. 229 modifica]tempo, in cui si distingue la vita dell’Universo. I nomi dei Sapla manushi Buddha sono:

1. Vipaçyi, nato in Vindumati nagara;

2. Çikhi, nato in Urna desa;

3. Viçvabhû, nato in Anupamâ desa, di casta kshatrya;

4. Krakucanda, nato in Kshemavati nagara, di casta brâhmana;

5. Kanakamuni, nato in Subhavati nagara, pure di casta brâhmana;

6. Kâçyâpa, nato in Vâranâsi nagara, anche esso brâhmano;

7. Çâkyamuni, nato in Kapilavastu, di casta kshatrya.

Le scritture conservano non solo la storia leggendaria dell’ultimo di questi sette personaggi, ma anche la storia supposta degli altri che lo hanno preceduto. Di più, come ho detto poco fa, alcune di esse scritture, trattando particolarmente del settimo Manushi Buddha, fanno anche la storia dei rinascimenti, ossia Avatâra, che ebbe a subire, prima di venire al mondo come Çâkyamuni. La scala che deve ascendere il Buddha, o l’essere destinato a divenire tale, ha innumerevoli gradini, i quali posson condurre ad acquistare attributi veramente divini: nondimeno questi attributi appartengono sempre a individui soggetti alla nascita e alla morte. I gradi più elevati, a cui conduce la serie degli Avatâra o incarnazione, sono quelli di Arhân, di Bôdhisatva, di Pratyêka, di Çrâvaka Buddha e finalmente quello di Tathâgata o Mahâyânika. Colui che arriva a esser Tathâgata, come vi arrivarono tutti e sette i Manushi Buddha, entra dopo nel Nirvâna e non rinasce più. Gli Avatâra o rinascimenti di Çâkyamuni sono moltissimi; il Lalitavistâra ne conta 501, e secondo altri 550. — Il Jâtaka mâlâ contiene il racconto delle azioni meritorie fatte durante tutte queste incarnazioni; e il Kalpalatâvadâna e il Divyâvadâna narrano la vita menata da Çâkyamuni nel tempo del suo primo Avatâra, e il frutto che colse dalle opere ch’egli fece.

Oltre a questi Manushi Buddha, l’odierno Buddhismo ne ha altri, che sono chiamati Pañca Buddha dhyâni, i quali [p. 230 modifica]non furono concepiti in seno mortale, e non ebbero padre nè madre. Sono essi veri Dei, che procedono, come vedremo, da un Dio unico: creazioni della scuola teistica, che nacque ultima fra le altre scuole filosofiche del Buddhismo. Ecco quel che dicono i libri di questa scuola intorno a queste divinità: «In principio, quando non era che il Gran vuoto (Mahâ sunyata), e quando i cinque elementi non esistevano ancora, Adi Buddha, il puro, si manifestò in forma di fiamma lucente. Egli è l’Esistente di per se stesso (Içvara), il Gran Buddha, l’Adi Buddha, il Mahêçvara. — Egli è causa di ogni esistenza; l’universo fu prodotto come frutto della sua meditazione profonda (Dhyâna) [Kâranda vyûha, citato in Hodgson]. — Adi Buddha è senza principio; è il puro, il perfetto, l’essenza della sapienza, la verità assoluta. — Egli non ha secondo; è presente dappertutto; si diletta nel rendere felici tutti gli esseri; e ama teneramente coloro che servono a lui. Egli è il donatore delle dieci virtù, il signore dei dieci Cieli, il re dell’Universo. — Egli ha cinque corpi, cinque jñâna, cinque visioni; ed è il mûkat dei cinque Buddha senza l’eguale. — Egli è il creatore di tutti i Buddha; il generatore di Prajñâ e di Akâça. — È il fattore e il distruttore del mondo; è l’Essere eterno (Vajra-âtmâ), fontana di virtù; assume la forma di fuoco, in forza del Praiñârûpi jñâna, per consumare l’erba dell’ignoranza (Nâmasangîti, citato in Hodgson)». Adi Buddha, possedendo come attributi della propria essenza cinque specie di saggezza (jñâna), è chiamato Pañcajñânâtmaka. Per queste sue qualità e con cinque diversi atti di dhyâna, o meditazione, produsse cinque esseri, che furono detti Dhyâni Buddha; e fece ciascuno di loro possessore di quella Sapienza, jñâna, dalla quale ebbero origine. Queste divinità diedero a loro volta nascimento ad altre, che furono dette Dhyâni Bôdhisatva. Le cinque sapienze possedute da Adi Buddha, i cinque Dhyâni Buddha, che da esse procedettero e i cinque Dhyâni Bôdhisatva, che furono creati da quelli, hanno i nomi che si danno qui appresso: [p. 231 modifica] Jñâna

I. Suvisuddha dharma dhatu

II. Adarsana

III. Prativêkshana

IV. Sânta

V. Krityânushthâna


Dhyâni Buddha

Vâirôcana

Akshôbhya

Ratnasambhava

Amitâbha

Amôghasiddha


Dhyâni Bôdhisatva

Samantabhadra

Vajra pâni

Ratna pâni

Padma pâni

Visva pâni.



A questi cinque Dhyâni Buddha i Nepalesi ne aggiungono un sesto, chiamato Vajrasatva, e per conseguenza un sesto Dhyâni Bôdhisatva. I Dhyâni Buddha sono nello stato di quiete, come Adi Buddha, e l’opera attiva della creazione è affidata ai Dhyâni Bodhisatva. Il creatore e governatore del presente sistema della natura è il quarto di questi enti: cioè Padma pâni, chiamato anche Avalôkitêçvara, procreato da Amitâbha, in virtù della sua Sântajñâna. Gli altri tre Dhyâni Bôdhisatva lo precedettero nell’opera, e crearono mondi oramai da lunghi secoli scomparsi; l’ultimo di tali esseri, che ha nome Visva pâni, deve ancora esercitare la sua potenza creativa; e aspetta che questo universo sia distrutto, per incominciare l’opera, che deve dare origine al futuro sistema della natura.

Nell’odierno Buddhismo, questi personaggi divini, menzionati ora, non sono generalmente più tenuti come creazioni speciali della scuola teistica; ma, accettati anche dalle altre sètte, furono interpretati altrimenti. Ogni Buddha umano, compreso il Buddha storico, viene così riguardato come avente una triplice forma di essere: cioè come vivente o avente vissuto fra gli uomini sulla terra, e allora gli danno l’appellativo di Manushi Buddha, come esistente metafisicamente nel Nirvâna, e lo chiamano Dhyâni Buddha, e finalmente come un riflesso di sè stesso in un figliuolo spirituale, ossia Dhyâni Bôdhisatva. E questo figliuolo spirituale venne generato nel mondo, col proposito che egli si adoperi alla propagazione della religione, stabilita dal padre suo, durante la vita terrestre di lui. Il fondatore della presente Chiesa buddhica è Çâkyamuni, il quale come Dhyani Buddha è chiamato [p. 232 modifica]Amitôbha, mentre il suo riflesso nel mondo o il suo figliuolo spirituale è Padma pâni o Avalôkitêçvara.

Le immagini dei cinque Dhyâni Buddha si trovano generalmente scolpile alla base di ogni tempio del Nepal. Queste immagini si distinguono fra loro quasi sempre per la posizione delle mani, per la forma dei piedestalli che li sostengono e per certi attributi speciali a ciascuno. Vâirôcana è figurato di rado: gli altri quattro si veggono in tante nicchie, ai quattro punti cardinali. Akshôbhya a oriente, Ratnasambhava a mezzogiorno, Amitâbha a occidente e Amôghasiddha a settentrione. Nelle immagini dipinte, le figure dei Dhyâni Buddha si distinguono spesso con un colore speciale; così Akshôbhya è dipinto in turchino, Ratnasambhava di colore d’oro, Amitâbha di rosso ed Amôghasiddha di verde.

Oltre a queste divinità ne vennero introdotte altre, straniere al Buddhismo: quelle cioè, che erano adorate dal popolo, in mezzo al quale nacque e crebbe la dottrina di Çâkyamuni. Gli Dei de’ Veda e dei Brâhmana, come Brahman, Jndra, Yama, Ganesa, Hanumant, Mahâkâla, fra le divinità mascoline; Lakshmî e Sarasvati fra le femminine; una quantità di genii, angeli e demoni, come Gandharva, Apras, Kinnara, Asura, Prêta, ecc., finirono per essere accettati nel Pantheon Buddhico. Ma tutti questi Dei, anche i massimi, diventarono, nel nuovo culto, tante divinità secondarie e inferiori ai Buddha. Anzi si volle far credere, che essi Dei procedessero anche loro dal Dhyâni Bôdhisatva Pâdma pâni, creatore del presente universo. Ed ecco come: Dalla fronte di Avalôkitêçvara, o Padma pâni che dir si voglia, nacque Mahâdêva, dalle spalle Brahman, dal petto Vishnu, dal ventre Varuna, dalle ginocchia Lakshmî, dai piedi Prithivi, dai denti Sarasvati, dalla radice dei capelli Jndra e gli altri Devata; da uno degli occhi nacque il Sole, dall’altro la Luna; dai piedi, come s’è detto, la Terra, dall’umbilico l’Acqua, dalla bocca l’Aria o Vâyu, il vento.

Dalla Trimurti brahmanica ebbe inoltre origine probabilmente anche la trinità buddhica o Triratna, che fu articolo [p. 233 modifica]di fede sino da’ primi tempi. Le persone della triade buddhica sono differenti, o in diverso modo interpretate, secondo le varie scuole. La più antica di queste triadi è Buddha, Dharma e Sangha; cioè le tre personificazioni: quella del fondatore della religione, quella della religione stessa e quella dell’unione o comunione dei credenti. La sillaba mistica om (a-u-m), che esprimeva le persone della trinità brahmanica Çiva, Vishnu e Brahman, diventò anche il simbolo nella nuova triade. — Nel senso trascendenlale e filosofico, la trinità buddhica è composta de’ tre concetti espressi con le parole Mente, Materia e Azione o manifestazione dei due primi termini, nel mondo sensibile dei fenomeni. Secondo la scuola Aiçvarika, il Buddha, o la prima persona della trinità, è la potenza virile generativa, Dharma è il tipo femminino del potere produttivo, e Sangha è la forza attiva creatrice, l’autore immediato della creazione, della quale è anche il regolatore. In questa interpretazione Buddha e Dharma corrispondono ai due poteri Prajñâ e Upaya. — Nei templi si trovano diverse immagini aggruppate in varie triadi. In un tempio dedicato ad Amitâbha si vedrà, per esempio, la figura di quest’ultimo, con Avalôkiteçvara a sinistra e Mahâsthâmaprapta o Mahâsthâma a destra; altrove invece sarà Çâkyamuni, Avalôkiteçvara e Mâitrêya, che è il Buddha avvenire. La più antica triratna, che diede origine alla formula fidei (triçarana) della Chiesa primitiva (la quale si esprimeva: «Io cerco la salute in Buddha, cerco la salute in Dharma, cerco la salute in Sangha») venne col tempo mutata dai Buddhisti del Nepal. Imperocchè la scuola Tantra, nata circa il 500 d. C., a cagione del suo domma della triplice esistenza (Trikâya) di ciascun Buddha (cioè come Nirvâna buddha, Dhyâni buddha e Manushi buddha) riguardando Çâkyamuni come avente il suo riflesso in Sangha, lo chiamano Lôshanâ, nome che i Nepalesi danno ad Akshôbhya Buddha, e diventò la terza persona (Sangha) della trinità, mentre alla seconda (Dharma) fu sostituito Vâirôcana. Così si ebbe la triade: Çâkyamuni, Vâirôcana e Lôshanâ.

[p. 234 modifica]I templi buddhici sono chiamati Pagode, Stûpa e Câitya. Il nome di Pagoda, che deriva da Dagoba, corruzione di Dhâtugôpa (luogo dove si conservano reliquie), vien dato non di rado a tutto l’intero convento buddhico, compresa la chiesa, il santuario, l’abitazione dei frati, ecc. Ma il convento propriamente si chiama Vihâra, e nel Nepal coi nomi volgari di Bahi, Bâha o Bâhâl; il tempio sta nel centro del cortile principale del convento stesso. La parola Stûpa, che vuol dire tumulo o mausoleo, viene anche adoperata invece di Pagoda, ed è il luogo dove si serbano alcune reliquie del Buddha. Câitya, che secondo alcuni viene da radice che vuol dire «pensare, considerare», equivarrebbe a monumentum; ma è un nome che si applica in generale agli oggetti del culto, come immagini, alberi sacri, e specialmente templi e santuarii. Le parole Stûpa, Pagoda e Câitya sono spesso indifferentemente adoprate l’una per l’altra. Stûpa sarebbe però il nome dell’edifizio, riguardo alla sua forma; Pagoda (Dhâtugôpa), riguardo alla sua destinazione. Câitya è il nome generico di tali monumenti.

Il Câitya consiste generalmente in un solido emisfero sormontato da una piramide tetragonale, o da un cono, a gradini; i quali spesso sono in numero di tredici, secondo il numero delle regioni dei Bôdhisatva. Sul cono o piramide sta una antenna molto simile al Lingam, per lo più terminata da un ombrello. Quest’ultima parte della struttura del Câitya rappresenta l’Akanishtha bhuvana, o il più alto dei cieli, che è quello d’Adi Buddha: i cinque raggi dell’ombrello simboleggiano i cinque Dhyâni Buddha. Fra l’emisfero e il cono, o piramide, si vede spesso uno zoccolo quadrato; e su ciascuno dei quattro lati stanno scolpiti due occhi (Divyacakshu), che vogliono indicare l’onniscienza del Buddha. L’emisfero è detto garbha, lo zoccolo gala, la piramide cûra mani. — Nell’interno dell’edifizio si trova la cella (Dhâtugarbha), dove si conserva la cassetta delle reliquie (Çarîra) e le sette cose preziose (Sapta ratna). Queste parti essenziali di un Câitya possono variare all’infinito, dando al monumento forme diversissime. Vi sono [p. 235 modifica]perciò differenti specie di Câitya, che si distinguono con un nome, che si riferisce alla sua forma o al predominio di qualcuna delle sue parti. Così vi sono i Kutâgâracâitya, i Pâtrâkaracâitya, i Ghantâkâracâitya, i Koshtâgaracâitya, i Layanakâracâikya, i Pañcatalakutâyâracâitya e molti altri ancora.

I Vihâra o conventi sono fabbricati in un vasto spazio quadrato di terreno, e sono a uno o due piani, con uno o più cortili aperti; nel mezzo al principale dei quali si trova il Câitya. Ogni convento ha un superiore o abate, che dirige e governa la comunità monastica, il quale è chiamato Nâyaka. I Vihâra vengono ornati con immagini figurate in scultura, che sono spesso statue colossali. La prima che si incontra all’entratura del monastero è la figura di Mâitrêya, con faccia gioviale: e sorride, dicono, per compassione degli uomini che si affaticano a correre dietro ai piaceri e alle vanità del mondo; ciò che non gli toglie forse anche di ridere dei fedeli che accorrono alle cerimonie religiose, e dei frati che officiano. Dopo di lui si vede la statua di un uomo armato, e in attitudine fiera: è Vêda, il difensore della religione, che protegge il convento dai ladri e da ogni altra disgrazia. Entrati nella porta, in due nicchie, una da un lato e una dall’altro, stanno i due genii tutelari che difendono il Vihâra dalle influenze malefiche e dai demoni; questi sono Vajrapâni, che è uno dei nomi di Indra, e Nârâyanadêva, epiteto che è dato a Vishnu. Dopo passata una seconda porta, agli angoli di uno spazio quadrato, si veggono le statue dei quattro guardiani del Cielo, (Caturmahdraja) Dhritarâshta, Virûdhaka, Virûpâksha e Dhanada, detto anche Vâiçravana. Si entra quindi in un largo cortile, in mezzo al quale si scorge il tempio o Câitya. Intorno ad esso sono le statue dei cinque Dhyâni Bôdhistava; e a destra e a manca del detto monumento, lungo le pareti del cortile, stanno in fila le statue di diciotto Arhân. Poi, di contro al tempio, si veggono le tre colossali immagini della trinità o Triratna. Viene quindi il giardino, ornato spesso di piccole pagode consacrate ad Amitâbha, ad Avalôtitêçvara o ad altre divinità.